BISANTI PAOLO (1529-1587)

BISANTI PAOLO (1529-1587)

vescovo, vicario patriarcale 

Nacque a Cattaro nel 1529 da Giacomo e Franceschina, di famiglia nobile di Ragusa. Era nipote di Trifone, vescovo della città, e fratello minore di Luca, coadiutore dello zio. La sua famiglia godeva dunque di una posizione di notevole rilievo e poteva gestire le sorti della diocesi locale, tanto che Luca dal 1532 divenne ordinario grazie alla rinuncia in suo favore fatta dallo zio. Visse da ragazzo l’esperienza dell’attacco turco alla sua città e passò poi a Padova dove di laureò in ‘utroque iure’. Ebbe vari incarichi a Cattaro ed anche la rappresentò presso la Serenissima per varie questioni. All’indomani della chiusura del Concilio di Trento intraprese la carriera ecclesiastica grazie all’appoggio del fratello che probabilmente lo introdusse agli ordini e gli trasmise la commenda dell’abazia di Santa Maria de Flumine. Nell’ottobre del 1565 Luca resignò al fratello anche la carica di vescovo di Cattaro, operando ormai da tempo al servizio del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani come vescovo suffraganeo e vicario. La situazione in città era però molto difficile e le ostilità interne talmente accese che venne calunniato fino a Roma, per impedirgli di mantenere la cattedra in mano alla sua famiglia. Il maneggio non andò a buon fine ed egli poté insediarsi con l’appoggio pontificio, essendo scagionato grazie all’inchiesta condotta da Cristoforo Calvino, vescovo eletto di Ragusa. La situazione economica del B. era piuttosto buona, potendo contare, oltre che sulla commenda citata e sulle rendite di curia, anche sui benefici di Corone e Budua, mentre non gli venivano mosse osservazioni in merito al cumulo in atto. Sarebbe riuscito più tardi a cumulare anche il beneficio della pieve di Tricesimo, protetto dalla Serenissima davanti alla reazione romana. ... leggi Dopo anni di controversie dovette però rinunciare a quest’ultima rendita nel 1581. Da vescovo di Cattaro affrontò sia la peste del 1572 sia gli assalti turchi, nel 1569 e nel 1571, mentre infuriava la guerra di Cipro. Il Concilio di Trento, cui il fratello aveva partecipato, imponeva ormai ai vescovi la residenza in sede e l’espletamento dei propri doveri pastorali, per cui egli si adoperò per la riforma del clero e della diocesi in genere, conducendo almeno una visita. La situazione politica in città dovette diventare nuovamente difficile, perché il B. nell’autunno del 1576 scelse di allontanarsi da Cattaro rifugiandosi a Venezia, ove la sua famiglia godeva della protezione del Grimani. Roma fece molte pressioni per farlo ritornare in sede, ma egli ottenne i giusti appoggi e riuscì a convincere la corte pontificia dell’impossibilità per lui di rientrare, tanto da rinunciare al vescovato senza indicare un successore, rimettendo tutto alla Santa Sede. Al pontefice non piacque molto che egli avesse preferito essere un collaboratore del Grimani piuttosto che mantenere il suo ruolo di vescovo a Cattaro, senza chiedere l’autorizzazione se non a cose fatte, ma la questione, riaperta a due anni di distanza nel 1578, venne finalmente sanata grazie ai potenti appoggi goduti a Roma. In realtà egli nel 1576 poteva sperare di seguire la strada già tracciata dal fratello, in quanto il vicario aquileiese era ancora Giacomo Maracco, che non era ben visto a Udine, al punto da risiedere per anni a Cividale, mentre molti ne chiedevano la rimozione per la sua durezza nella lotta antiereticale e nello sforzo generale di riforma. Il Maracco era appena rientrato a Udine in segno di pacificazione ma non stava bene di salute, sembra soprattutto per una forte malaria, per cui infatti morì alla fine del 1576, lasciando libero il posto e lasciando anche un lavoro di curia molto ben impostato, con validi collaboratori. Essendo scomparso nel 1575 Luca Bisanti, Paolo poteva offrire l’occasione di una conveniente sostituzione, sia come vicario generale sia come vescovo suffraganeo. In effetti dal 1577 egli poté insediarsi e prendere in mano il lavoro di riforma di una diocesi davvero difficile e complessa. Avendo compreso questa situazione e risentendo del passato a Cattaro, probabilmente per questo egli affrontò con distacco alcuni nodi. Evitò così lo scontro con le clarisse udinesi ed i loro potenti parenti, situazione che aveva tormentato il Maracco, preferendo occuparsi di monasteri meno protetti e con problematiche più gestibili. Cercò di proseguire nella riforma del clero e nel tentativo di costituire un seminario, come prescritto dal Concilio e come appariva assolutamente necessario per avere un reale rinnovamento dell’istituzione ecclesiastica. Dovette ovviamente affrontare la spinosa situazione collegata al confine che divideva il Patriarcato tra due giurisdizioni politiche in perenne conflitto tra loro. Se con Venezia si era giunti ad un modus vivendi abbastanza soddisfacente, anche a fronte del fatto che ormai la carica patriarcale era saldamente in mano a famiglie veneziane, gli Asburgo, esclusi dal diritto di nomina per questa diocesi, erano ben decisi a contrastare ogni tentativo di far valere l’autorità vescovile nei territori di loro competenza, accusando per contro il patriarca di trascuratezza pastorale. Per giunta oltreconfine non poteva agire l’Inquisizione romana e non molto poteva fare l’istituzione vicariale degli arcidiaconi. Un qualche rimedio fu portato da Roma inviando un nunzio stabile a Graz, da dove avrebbe potuto influire sulla corte e svolgere molto del lavoro pastorale impossibile al Grimani, cosa che egli fece, talora scavalcando il patriarca. Su questo fronte B. cercò di operare diplomaticamente tentando di instaurare e mantenere un buon rapporto con gli Asburgo, tanto che nel 1581 poté andare in visita in Carniola, Stiria e Carinzia, grazie all’appoggio del nunzio e di un nuovo clima alla corte arciducale. Chiaramente dovette limitarsi al clero e non toccare molti privilegi, ma potè sincerarsi della situazione e stendere una relazione, sperando di poter far accettare all’arciduca le sue iniziative. Però incappò alla fine nello stesso problema che già aveva avuto il Maracco, dovette infatti, per obbligo di rappresentante del suo vescovo e superiore, inserire nei documenti al nome del Grimani anche il titolo di principe di Aquileia, scatenando la pesante reazione avversa e obbligandolo ad emendare tutti i documenti togliendo quel titolo, in modo da accontentare chi poteva mandare a buon fine i suoi ordini. La cosa era resa ancor più delicata dalla richiesta imperiale che la diocesi venisse smembrata, il che sarebbe piaciuto ad alcune sedi confinanti, e che venisse eretto un vescovato a Gorizia. Per difendere la giurisdizione patriarcale oltreconfine giunse ad opporsi all’assegnazione ai gesuiti, voluta dall’arciduca, del monastero femminile di Studeniz, che avrebbe dovuto essere pesantemente riformato. Difficile divenne anche il rapporto con il nunzio, che vedeva con favore la divisione del patriarcato, e la cosa si fece evidente nel 1583 in occasione della visita pastorale condotta nell’Isontino. Nel resto della diocesi egli condusse alcune visite e tentò, con difficoltà, di riformare sia il clero sia i monasteri femminili cividalesi. Cercò di normalizzare, senza riuscirci, la confusione in materia liturgica, là dove convivevano il rito patriarchino e quello romano, e i libri del primo erano malridotti, da ristampare a caro prezzo. Ogni tentativo di fondare un seminario venne frustrato dalle problematiche economiche dell’impresa e dalla sua difficoltà a superare le opposizioni delle diverse comunità, in particolare la controversia sollevata da Cividale contro la scelta di una sede udinese. Ma persistevano i problemi connessi all’esistenza in generale di un clero poco preparato e non conforme alle direttive romane, ma ben difficile da sostituire, mentre il persistere di tanti giuspatronati difficili da contrastare rendeva ancor più difficile ogni possibile intervento. Fu così impossibile anche istituire la rete delle parrocchie a Udine, essendo frenato sia dalla gelosia giurisdizionale del Grimani sia dai diritti locali, in particolare quelli delle confraternite. Nel 1584 egli dovette affrontare anche l’arrivo in diocesi di un visitatore apostolico, che era il vescovo parentino Cesare de Nores. Queste inchieste non venivano facilmente accettate, in quanto era proprio il vescovo a trovarsi per primo ad essere posto sotto inchiesta da qualcuno con autorità a lui superiore, qualcuno che però non conosceva troppo il territorio e che avrebbe riferito a Roma. Essendo da sempre il Grimani in una situazione difficile con la curia romana, il B. aveva il dovere di far figurare al meglio il lavoro fatto e di parare le osservazioni negative facilmente previste. Alla fine anche questo intervento non poté realmente incidere su un territorio così complesso. Superato un periodo di malattia, egli riuscì nello stesso anno ad indire un sinodo, avendo piegando all’obbedienza i capitoli, che avevano dovuto accettare anche che non venisse tenuto ad Aquileia, luogo estremamente difficile da utilizzare per una così importante assemblea. Alla fine del sinodo dovette ancora lottare con il capitolo aquileiese, insorto a difesa di un suo privilegio formale, e con il luogotenente veneto e le famiglie più in vista, timorosi tutti che le disposizioni prese potessero inficiare e loro giurisdizioni. I decreti così non vennero pubblicati. Ormai il B. era sempre più stanco e malato e la gestione fu lasciata in mano al canonico Giovanni Nicolò d’Arcano, suo stretto collaboratore, almeno fino al luglio 1585. L’arrivo in diocesi di Francesco Barbaro, energico nuovo coadiutore patriarcale, lo sollevò nei fatti dai molti oneri gestionali. Poté vedere finalmente l’arrivo solenne in diocesi del vecchio Grimani, subito tornato in laguna. Il 4 marzo 1587 morì, pochi mesi dopo esser stato creato canonico del capitolo udinese da chi sapeva di fargli onore e che poco tempo ancora sarebbe vissuto, dato che dal febbraio di quell’anno era ormai il d’Arcano a seguire la gestione corrente della curia.

 

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Bibliografia

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