CALLISTO

CALLISTO

patriarca di Aquileia

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Al centro del battistero, davanti all’antica basilica cividalese, Callisto fece erigere un ciborio che nell’iscrizione della trabeazione riporta il suo nome (Cividale, Museo cristiano del duomo).

C., patriarca di Aquileia (731 ca. – ante 762), è figura eminente con cui si chiuse un lungo periodo di eclissi per il patriarcato di Aquileia, ormai distinto e contrapposto a quello di Grado: tra il 557 ca. e il 606/607 la Chiesa di Aquileia si era ribellata alla condanna dei Tre Capitoli, a cui si era piegato il secondo concilio ecumenico di Costantinopoli (553) e aveva subito per lo più a Grado con Paolo, Elia e Severo i rimproveri aspri dei papi e la persecuzione dell’esarca. Nel 606 o 607, avendo una parte del clero abiurato allo scisma con l’elezione di Candidiano a Grado, si ebbe una forte resistenza da parte del resto del clero che volle mantenersi fedele alle tradizioni di Aquileia e perciò rifiutò la condanna dei Tre Capitoli: era stato allora eletto “summus patriarcha” (come dice l’epigrafe comense) l’abate Giovanni che, tornato con i suoi ad Aquileia, abbandonata fin dal 568, diede inizio a un’altra serie di patriarchi, che furono detti ben presto “Foroiulienses” e “Foroiuliani” quando si inserirono negli orizzonti cividalesi almeno topograficamente. Dapprima però Giovanni si era rifugiato “in Aquileia vetere”, non con l’appoggio, come si suole dire, ma soltanto “cum consensu regis et Gisulfi ducis”. Successivamente (628) anche il patriarca Fortunato era fuggito da Grado ad Aquileia, inseguito dalla riprovazione di papa Onorio che, chiesta ma non ottenuta la sua rimozione al re Adaloaldo e ai suffraganei, inviò a Grado, contro ogni tradizione, un suo fedele, Primigenio, “cum pallii benedictione”, dal quale ebbe inizio, si può dire, la definizione d’un patriarca “Gradensis”. Forse già con Giovanni ma certamente con Fortunato la residenza patriarcale venne fissata nel più sicuro, benché emarginato, “castrum” di Cormons, dove si succedettero alcuni patriarchi di cui si conosce a mala pena qualche nome, fino a quel Sereno che resse la cattedra patriarcale di Aquileia tra il 715 e il 730. Questi però non era più scismatico dopo che nel sinodo di Pavia (698), con l’intervento del re Cuniberto, era stata risolta la questione, con l’abiura anche da parte della sede aquileiese. ... leggi In quel secolo VII la chiesa di Aquileia era stata rappresentata ufficialmente dai patriarchi di Grado: Massimo intervenne al sinodo lateranense del 649 e Agatone a quello di Roma del 680. Il papa Gregorio III, che chiamava “patriarcha” Donato di Grado, inviò il pallio a Sereno di Aquileia (715) definendolo “presul” e poi “antistes” ma anche ammonendolo di non usurpare diritti di Grado, cosa che tentò di fare il successore C., occupando Centenara e Musione, di proprietà del monastero di S. Maria di Barbana, che però poi restituì. Il rifugio di Cormons era evidentemente ormai molto stretto per i patriarchi e là «ad presens cernitur in finibus Langobardorum solummodo esse contentos»: benché esercitasse la sua giurisdizione per e ad Aquileia, non poteva inserirsi nella capitale del ducato, dove il vescovo di Zuglio, Fidenzio, pareva destinato a preparare il ripristino d’una sede episcopale forogiuliese, certamente nell’interesse dei duchi («cum voluntate superiorum ducum»), solitamente recalcitranti all’autorità del re. C. infatti era stato diacono di Treviso e non di Aquileia ed era stato scelto dallo stesso re Liutprando molto probabilmente perché voleva inserire un suo fedele in antitesi al duca Pemmone. Quando infatti, alla morte di Fidenzio, venne ordinato a Cividale Amatore, C., «qui erat nobilitate conspicuus», non poté tollerare che nella sua diocesi abitasse col duca e con i Longobardi che detenevano al potere un altro vescovo, mentre egli «tantum vulgo sociatus vitam duceret». Il racconto è molto particolareggiato nell’Historia Langobardorum del forogiuliese Paolo Diacono. C. allora entrò di forza a Cividale, cacciò Amatore e ne occupò il palazzo, suscitando però la reazione del duca Pemmone che con molti altri nobili longobardi arrestò C. e lo imprigionò nel castello di Pozio (forse Duino): Liutprando intervenne deponendo il duca e sostituendolo col figlio Ratchis che intervenne perché il padre fosse perdonato. La reazione sproporzionata di Pemmone e la fermezza del comportamento di Liutprando fanno pensare a una controversia unicamente politica, dal momento che non pare che intervenisse il papa e perché l’arrivo di C. a Cividale coincise con l’eliminazione dell’inviso Pemmone e con l’avvento di Ratchis, pio e devoto. C., giunto a Cividale nel 737, provvide a dotare la città d’un palazzo per sé e per i suoi successori che difatti risiedettero nella città ducale fino al secolo XIII, e incise il suo nome nel ciborio che innalzò al centro del battistero che sorgeva davanti all’antica basilica, già cattedrale, dedicata alla Madre di Dio. L’iscrizione dedicatoria, oltre a ricordare C. quale «beatus», pare echeggiare intenzioni antiariane nel richiamo alla “Trinitas vera”, e in ogni caso mostra di voler introdurre nell’orizzonte artistico cividalese elementi formali e culturali tratti con precisione dal repertorio paleocristiano tanto dal punto di vista architettonico quanto nei capitelli del tipo teodosiano e nelle silhouettes con cui sono risolti gli animali allegorici. Nello zoccolo dello stesso ciborio è inserito un pluteo col nome di Sigualdo, il patriarca succeduto con ogni probabilità a Callisto tra il 756 e il 762.

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Bibliografia

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