SACCHIS (DE’) GIOVANNI ANTONIO

SACCHIS (DE’) GIOVANNI ANTONIO (1483 - 1539)

pittore

Immagine del soggetto

San Rocco, tradizionalmente considerato l'autoritratto di Giovanni Antonio Sacchis, particolare dell'affresco sul pilastro di destra del duomo di Pordenone, 1515-18 ca.

Immagine del soggetto

Pala della Misericordia di Giovanni Antonio Sacchis, 1515-16 (Pordenone, duomo). Ai piedi inginocchiata la famiglia del lanaiolo Giovanni Francesco Cargnelutti di Tiezzo.

Immagine del soggetto

Decollazione di Saulo, particolare degli affreschi di Giovanni Antonio Sacchis, 1527 (Travesio, chiesa parrocchiale).

G. A. S., detto il Pordenone, è non solo il maggior artista friulano del Rinascimento, ma anche in assoluto uno dei più importanti pittori ad affresco della prima metà del Cinquecento. Stando al Vasari, egli sarebbe morto a Ferrara nel 1540, a cinquantasei anni di età. Tuttavia, una volta accertato dagli studiosi che le esequie dell’artista ebbero luogo in realtà il 14 gennaio 1539, tale data è stata automaticamente arretrata al 1483, anno in cui nacquero due tra i più famosi personaggi del Cinquecento europeo: Martin Lutero e Raffaello. E come, secondo la credenza popolare, eventi straordinari accompagnavano la nascita o la scomparsa di uomini illustri, così alla morte del S., «pittore tra i maggiori de’ quali si pregi quest’arte», come attesta lo storico udinese Francesco Palladio degli Olivi, si sarebbe vista nel cielo friulano una cometa, indizio di «una grande e inaudita siccità che seguì nel paese». Contrariamente a Paolo Pino, che ci tramanda il ritratto di un P. con «buona cognizion de littere» ed esperto nella musica, Francesco Sansovino lo ricorda come «huomo rozzo et aspro ne’ costumi», ma nella pittura «di così vivo spirito e di tanta invenzione», che fece paura più volte a Tiziano, sospettato di essere il mandante del suo avvelenamento. Se la morte, avvenuta comunque per «gravissimo affanno di petto», non mancò di suscitare clamore, l’ingresso dell’artista nella storia è affidato all’invettiva rivolta a un certo Mio da Marostica, colpevole di avere introdotto una palla nella chiesa di S. Giuliano: «che vegna el canchero a quella bestia che ha portà la balla in Chiesa». Dal momento che l’ingiuriato reagì schiaffeggiando il pittore «in maxillam sinistram», l’episodio fu seguito da una denuncia presentata al podestà di Pordenone nel maggio del 1504 dal padre dell’artista, un «magister murarius» di nome Angelo, originario di Corticelle nel Bresciano. ... leggi Lo stesso maestro Angelo nell’ottobre successivo garantiva la dote della futura moglie del figlio, a quella data già insignito del titolo di maestro. In quel momento la città di Pordenone era ancora sotto il dominio austriaco, mentre la maggior parte del Friuli, venuto meno il governo patriarcale, sin dal 1420 aveva fatto atto di dedizione alla Repubblica di Venezia. Il 20 aprile 1508, perseguendo quella politica di espansione in terraferma che di lì a poco avrebbe spinto le principali potenze europee ad allearsi nella lega di Cambrai, le truppe veneziane, guidate da Bartolomeo d’Alviano, conquistarono Pordenone. Da questo momento al 1516, anno della cessazione delle ostilità, la cittadina friulana passò più volte dai Tedeschi ai Veneziani. Ai disagi delle occupazioni e dei saccheggi si aggiunsero carestia e peste che a più riprese, e in particolare nel 1511, anno di terremoti e rivolte popolari, colpirono duramente la regione. Stando al Vasari, proprio per «campar la vita» da tali calamità, il P. si sarebbe trattenuto molti mesi in «contado» e lavorando per gli abitanti del luogo (in questo caso lo Spilimberghese), si sarebbe impratichito nella difficile arte dell’affresco: un’arte nella quale egli probabilmente si era cimentato ben prima del 1506, anno in cui firma e data il trittico ad affresco della parrocchiale di Valeriano raffigurante San Michele arcangelo tra i santi Valeriano e Giovanni Battista. I tre santi si muovono con relativa libertà all’interno di una struttura architettonica tripartita, probabilmente esemplata sui modelli diffusi in Friuli dai numerosi lapicidi lombardi che vi operavano. Il senso di verità della scena è ulteriormente accresciuto dalla lancia di san Michele, la cui estremità superiore deborda (come del resto uno degli arti del demonio ai suoi piedi) oltre i limiti della cornice prospettica, mentre l’abbigliamento di san Valeriano, vivacemente colorato e curato nei dettagli, sembra quasi voler rispecchiare la moda del tempo. Di grande intensità, il suo bellissimo volto, sebbene costruito secondo modalità tecniche ancora tipicamente quattrocentesche, rivela un interesse dell’artista per i nuovi orizzonti culturali dischiusi di recente in Friuli dall’arrivo di opere di Vittore Carpaccio a Udine e di Cima da Conegliano a Gemona. Il progressivo allontanamento dalla lezione tolmezzina emerge con ancora maggiore evidenza nel ciclo di affreschi nella chiesa di S. Lorenzo a Vacile. Ai Padri della Chiesa seduti entro elaborate cattedre gotiche, il giovane P. sostituisce qui personaggi liberamente disposti su nuvole. Tuttavia, mentre le figure di san Girolamo e di san Gregorio nelle vele di sinistra sono concepite ancora in maniera fortemente disegnativa e delimitate da una marcata linea di contorno in terra rossa, quelle di destra presentano un’evidente modificazione della condotta pittorica. I pesanti contorni si attenuano fino a sparire del tutto, i panneggi delle vesti perdono spigolosità ed i colori coprenti cedono il posto a delicate velature, che si sovrappongono per trasparenza. Anche a livello iconografico si notano dei cambiamenti. Nella seconda metà della volta gli angeli sono raffigurati privi di ali, come pure i putti accanto ai Padri della Chiesa, rivolti ora uno verso l’altro. Nell’assoluto silenzio dei documenti non è possibile stabilire se tale divario implichi una pausa nell’esecuzione dei lavori oppure sia il frutto di una rapida maturazione dell’artista durante l’esecuzione dei lavori stessi. La data 1505 incisa nella mensa d’altare originaria, riapparsa dopo il terremoto del 1976, lascia comunque supporre che almeno la prima parte della decorazione sia più o meno contemporanea al trittico di Valeriano, come parrebbe confermare la stretta somiglianza tra il san Valeriano del trittico sopra citato e il Cristo giudice di Vacile, costruito a punta di pennello, mediante trapassi di toni svarianti dal bruno e dal giallo al rosa tenue dei carnati. Per le vele di destra, pur senza escludere la possibilità di un intervallo nell’esecuzione del ciclo, si potrebbe pensare a più approfonditi contatti con il mondo lagunare, come evidenzia più di un particolare degli affreschi parietali, raffiguranti episodi della vita di san Sebastiano e di san Lorenzo, titolare della chiesa. La scena principale, relativa all’episodio di San Lorenzo che presenta i poveri all’imperatore, è impostata con sicuro senso dello spazio e piena padronanza prospettica entro un vano limitato lateralmente da finti pilastri e definito in profondità dalle direttrici visive del pavimento quadrettato. Al suo interno i personaggi si adunano in dinamici raggruppamenti che anticipano i futuri sviluppi del linguaggio pordenoniano, mentre la figura del cosiddetto dicitore sulla sinistra, sporgendo oltre la cornice, funziona da raccordo tra lo spazio fittizio della scena e quello reale, dove si trova l’osservatore. Se altri particolari, come il gruppo di donne sulla destra (una delle quali porge una ciambella a un bimbo), dimostrano la conoscenza da parte dell’artista di stampe e/o invenzioni mantegnesche, gli apostoli affrescati sulla parete di fondo e su quelle oblique del coro tradiscono un’evidente meditazione sulle conquiste tonali dell’ultimo Bellini: pur nella rovina delle superfici, si possono isolare particolari di grande intensità espressiva e, nel libero disporsi delle figure nello spazio, effetti di verità accresciuti dall’utilizzo di una tecnica pittorica decisamente moderna. Opere successive, come la pala con Madonna e santi della parrocchiale di Vallenoncello, pur nel permanere di residui schematismi riconducibili all’influsso di Pellegrino da San Daniele o del vicentino Bartolomeo Montagna (dei cui modi si era fatto portavoce in Friuli all’inizio del secolo il conterraneo Pietro da Vicenza), evidenzia l’ulteriore sviluppo del linguaggio del P. e il progressivo aggiornamento sugli esiti della pittura veneziana coeva. Databile al 1512-14 nella resa plastica delle figure, campite sullo sfondo di un’architettura in rovina, essa rivela i persistenti legami del P. con quel filone di gusto che affonda le proprie radici nell’arte di Antonello da Messina e di Alvise Vivarini. Ciò parrebbe confermare che nella pittura da cavalletto l’incertezza dell’artista tra maniera antica e moderna si protrae di qualche tempo rispetto ai risultati raggiunti nell’affresco: particolarmente significativo è a questo proposito il confronto con gli affreschi della parrocchiale di Villanova che, risalenti nel 1514, riflettono forse il momento di maggior accostamento dell’artista a Giorgione. La sintesi di queste esperienze confluisce nella cosiddetta pala della Misericordia, eseguita per il duomo di Pordenone nel 1515-16. Al gruppo della Sacra Famiglia, riunito eccentricamente sulla destra, si contrappone a sinistra la colossale figura di san Cristoforo, che fa leva sulla lunga pertica per guadare il fiume. Ne scaturisce un motivo di tensione, raccolto e amplificato, dal retrostante paesaggio, che accende d’intonazione del tutto particolare quel «giorgionismo contaminato di tizianesco», per usare un’espressione del Longhi, che caratterizza la produzione del P. in quegli anni: dalla Madonna della Loggia di Udine (dove alcuni studiosi hanno riconosciuto un influsso raffaellesco) alla decorazione della volta della parrocchiale di Travesio (raffigurante san Pietro accolto in cielo da Cristo Giudice, mentre le sottostanti lunette ospitano episodi della vita del santo) e ancora dal ciclo di affreschi della parrocchiale di Rorai Grande (che in base agli accordi contrattuali doveva essere ultimato entro l’estate del 1517) al colossale san Cristoforo affrescato all’esterno della parrocchiale di San Martino al Tagliamento (per il quale l’artista ricevette un pagamento nel 1518). Tra il 1515 e il 1518 molto probabilmente si colloca anche l’esecuzione del bellissimo San Rocco affrescato su uno dei pilastri del duomo di Pordenone, nel quale si riconosce per tradizione l’autoritratto dell’artista. La figura del santo, che rivolge con fierezza lo sguardo verso lo spettatore ed esibisce quasi con orgoglio la piaga agli astanti, è campita contro una finta architettura fortemente scorciata, che presenta un’obliqua trabeazione al di sopra della quale vediamo i resti di una statua classica e una volta decorata con motivi a grottesche. Certo, rispetto agli affreschi di Travesio pressappoco coevi, che si caratterizzano per l’estrema rarefazione del tessuto pittorico, il San Rocco del duomo di Pordenone si distingue per il maggior grado di compiutezza e per la verità quasi fotografica dell’immagine: non si deve tuttavia dimenticare che esso era stato concepito come una sorta di pala d’altare e che, contrariamente al ciclo di affreschi di Travesio, doveva essere osservato da una distanza ravvicinata. Anteriormente al 1520 si colloca anche la decorazione del cosiddetto studiolo del Pordenone, un piccolo ambiente ubicato all’interno di un palazzo cinquecentesco che sorge in prossimità del duomo di Pordenone. Essa è costituita da una serie di scenette mitologiche, rese in maniera sapida e vivace, ricche di riferimenti al mondo antico e ambientate sullo sfondo di una veduta urbana, avente chiara attinenza con la città natale dell’artista. Dopo il folgorante incontro con la cultura figurativa toscoromana, di cui sono clamorosa espressione la decorazione della cappella Malchiostro nel duomo di Treviso e ancora di più le concitate Scene di Passione affrescate in quello di Cremona, che gli valsero l’appellativo di «pictor modernus», nel 1522 il P. si stabilì nuovamente in Friuli. Nel dicembre dell’anno precedente, approfittando di una pausa dei lavori a Cremona, aveva ultimato e consegnato ai committenti la pala della parrocchiale di Torre, raffigurante la Madonna con il Bambino tra i santi Ilario, Taziano, Antonio abate e Giovanni Battista. Gravemente mutilata nella parte superiore e attualmente priva di cimasa e predella, l’opera costituisce una straordinaria testimonianza della raggiunta maturità dell’artista: vi appaiono infatti mirabilmente fusi in un insieme unitario elementi propri della cultura pittorica lagunare con altri derivati da un’attenta meditazione sulle opere di Raffaello del tempo romano; è probabile infatti che, in occasione del suo soggiorno di lavoro ad Alviano nel 1518 circa, egli si sia spinto sino nella Capitale. In ogni caso, a distanza di qualche tempo dal rientro in patria, nel 1524 il pittore portava a compimento la decorazione delle portelle dell’organo del duomo di Spilimbergo. Le quattro grandi tele raffigurano esternamente l’Assunzione della Vergine e all’interno la Caduta di Simon mago e la Conversione di Saulo. La scena principale, la quale si configura come un abilissimo esercizio retorico ispirato allo stile tragico dell’ultimo Raffaello, si svolge entro un quadriportico di ispirazione classica, attraverso il quale la Vergine è assunta in cielo, frammista a nuvole e vivaci angioletti, che fungono da raccordo tra lo spazio celeste e quello terrestre, dove si svolge la scena. Nelle portelle interne, e più precisamente in quella di sinistra, il primo simoniaco della storia è raffigurato mentre precipita a capofitto verso il basso, alla presenza di san Pietro e dell’imperatore Nerone; in quella di destra invece, forzando il punto di vista dal basso e impostando diagonalmente la composizione, l’artista ci mostra la rovinosa caduta di Saulo che, abbacinato dalla luce divina sta per trasformarsi da fiero persecutore dei cristiani in un “miles Christi”. Se l’uso di una tempera grassa, stesa sul supporto senza preparazione, consente al pittore una velocità di delineazione simile all’affresco ed una sprezzatura nella resa delle magniloquenti figure, che fanno dell’insieme il corrispettivo della maniera moderna esibita a Cremona, negli scomparti della cantoria, illustranti Storie della Vergine, prevale un’intonazione più intimistica, in sintonia con gli esiti raggiunti in alcune opere pressappoco coeve come gli affreschi nella chiesa di S. Maria dei Battuti a Valeriano o quelli nella parrocchiale di Pinzano, realizzati tra il 1524 e il 1527. In particolare nella parrocchiale di Pinzano, oltre a un’immagine della Madonna con il Bambino affrescata sul lato destro della navata, nel 1527 dipinse la cappella di S. Sebastiano. L’episodio principale del ciclo, sviluppato sulla parete orientale, raffigura San Sebastiano tra i santi Rocco, Stefano, Nicola di Bari (o Biagio) e Michele arcangelo. Con abile scelta, che mira a isolarne la statuaria figura, san Sebastiano è impostato contro un pilastro (reggente parte di un’archeggiatura in rovina) ed è sovrastato da un angelo reggicorona, le cui ali inarcate fungono da contrappunto alla curvatura della parete. Sul fondo, illuminato da una luce aranciata, si apre un’ampia e rasserenante visione di monti lontani. In questi stessi anni il pittore riprese inoltre i lavori nella parrocchiale di Travesio, di cui circa un decennio prima aveva decorato la volta. Gli episodi raffigurati sulle pareti laterali e su quelle oblique del coro (l’Adorazione dei Magi e l’Ultima cena a sinistra; la Conversione di Saulo e la sua Decollazione a destra) convergono verso il Cristo morto in grembo alla Madre, dipinto sulla parete di fondo. Essenziale e tragico, il gruppo è collocato all’interno di un vano a emiciclo in cui si aprono delle finte nicchie, mentre nella calotta absidale illuminata da una luce dorata volteggiano degli angioletti. La scena più impressionante del ciclo, che si caratterizza per la levigatezza delle superfici (ottenuta mescolando alla calcina polvere di marmo) e per l’utilizzo di un colore quasi smaltato, è costituita dalla decapitazione di san Paolo, impostata a canocchiale sul lato obliquo di destra. I due alabardieri addossati alla parete di sostegno dell’ampio fornice, a causa della caduta delle rifiniture a secco, hanno assunto ora parvenze quasi spettrali; davanti a loro, con il busto in torsione, per esibire il volto bendato ai riguardanti, sta la monumentale figura del Santo inginocchiato a mani giunte, mentre in posizione arretrata sulla destra si staglia plastica la figura del carnefice, che con la spada sguainata sta per procedere alla sua esecuzione. Sempre nel 1527, assunte o condotte a termine diverse altre imprese (tra cui la pala di san Gottardo del Museo civico di Pordenone, la Fuga in Egitto di Blessano e il polittico di Varmo), il P. si impegna a decorare la cantoria dell’organo del duomo di Udine. I sette scomparti, raffiguranti episodi della vita dei santi Ermacora e Fortunato, sono dipinti con una tecnica del tutto inconsueta: il colore appare steso sia a corpo sia a macchia, con effetti di straordinaria liquidità e trasparenza. Inoltre le scene, estremamente semplificate dal punto di vista formale, si caratterizzano per la semplicità di eloquio e per i sorprendenti effetti luministici nelle ambientazioni notturne. Sempre a Udine, reduce da Cortemaggiore e Piacenza (dove, allo scadere del terzo decennio del secolo, era stato chiamato a dipingere rispettivamente nella chiesa dei francescani ed in quella di S. Maria di Campagna), l’artista affrescò la facciata di palazzo Tinghi con scene ispirate alla Gigantomachia: un tema allusivo alle vicende politiche e militari legate a Carlo V, illustrato in quegli stessi anni da Perin del Vaga in palazzo Doria a Genova e da Giulio Romano in quello Te a Mantova. Durante gli ultimi anni della sua permanenza in Friuli, scandita da contrasti con il fratello Baldassarre, dalle terze nozze con Elisabetta Frescolini e da quelle della figlia Graziosa con il pittore Pomponio Amalteo, l’artista attese a diversi dipinti, tra cui l’Apparizione di Cristo alla Maddalena del Museo archeologico nazionale di Cividale e la Trinità del duomo di San Daniele del Friuli. Nella prima di tali opere, probabilmente anteriore al 1534, le figure di Cristo e della Maddalena sembrano muoversi in uno spazio irreale, caratterizzato dal bellissimo inserto del paesaggio sul fondo: in un rapporto di gesti antitetici e di colori dissonanti, che tuttavia si ricompone in un risultato finale unitario. Per quanto riguarda la pala di San Daniele, giudicata dal di Maniago la più «dotta» pittura lasciata dal P. in Friuli (ante 1535), vanno sottolineati l’inserimento diagonale della croce e l’espressione dell’elevato mistero in termini di grandiosa, ma al tempo stesso composta tragicità. Nel 1535, anno del suo definitivo trasferimento a Venezia, il P. stava attendendo all’esecuzione della pala di S. Marco, destinata al duomo della città natale e rimasta incompiuta: si tratta di un’opera abbastanza singolare che, nel moto concitato dei corpi e nella particolarissima intonazione cromatica, riflette l’indirizzo manieristico delle ricerche dell’artista nella fase finale di attività. Le stesse caratteristiche si ritrovano anche nelle “portelle” dell’organo del duomo di Valvasone: trasportate dall’artista a Venezia e quivi rimaste incompiute a causa della morte improvvisa, avvenuta a Ferrara nel gennaio del 1539, esse furono ultimate dal genero Pomponio Amalteo circa dieci anni dopo.

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Bibliografia

C. FURLAN, Il Pordenone. L’opera completa. Milano, Electa, 1988; C.E. COHEN, The art of Giovanni Antonio da Pordenone between dialect and language, I-II, Cambridge, Cambridge University Press, 1996; C. FURLAN, Il Pordenone e Giovanni da Udine: artisti friulani e «universali», in Arte in Friuli. Dal Quattrocento al Settecento, a cura di P. PASTRES, Udine, Società filologica friulana, 2008, 171-179.

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