BARBARO FRANCESCO

BARBARO FRANCESCO (1546 - 1616)

patriarca di Aquileia

Immagine del soggetto

Busto del patriarca Francesco Barbaro nel monumento funebre dei Barbaro nella chiesa udinese di S. Antonio.

Nacque a Venezia nel 1546, primo dei quattro figli di Marcantonio, diplomatico e mecenate delle arti, e di Giustiniana Giustinian. In quell’epoca i Barbaro, già dediti alla mercatura, stavano ritirandosi dai traffici col Levante ed investivano quote crescenti del loro patrimonio nelle proprietà di Terraferma situate intorno alla località di Maser, dove, a partire dagli anni Sessanta, sarebbe stata eretta la splendida villa disegnata dal Palladio e affrescata da Paolo Veronese. Rispetto ad altre famiglie patrizie, i Barbaro erano però solo moderatamente ricchi. La loro straordinaria autorevolezza derivava quindi da una mescolanza di fattori, sapientemente impiegati per promuovere il prestigio del casato: contavano le parentele (specie quella col casato dei Grimani, che avevano dato alla Repubblica di Venezia un doge e ben quattro patriarchi di Aquileia); si celebrava la gloria letteraria, legata al ricordo degli umanisti del Quattrocento Francesco ed Ermolao il Vecchio e il Giovane, ma recentemente rinfrescata da Daniele (1514-1570), zio di F., studioso di Vitruvio e dei padri della Chiesa; c’erano infine le cariche ecclesiastiche ricoperte da alcuni membri della famiglia, fra i quali lo stesso Daniele, elevato nel 1550 alla dignità di “patriarca eletto” di Aquileia. A partire dagli anni Settanta i Barbaro sarebbero divenuti uno dei casati politicamente più importanti, grazie anche all’alleanza matrimoniale contratta nel 1574 con il ricchissimo mercante e ammiraglio veneziano Giacomo Foscarini. ... leggi Come primogenito, il giovane F. non aveva speciali diritti ereditari, perché la tradizione veneziana non conosceva il “maggiorascato”. Ma egli si distinse precocemente per la vivacità delle qualità intellettuali: apprese il latino e divenne partecipe dell’interesse dello zio Daniele per i disegni di macchine e per le opere di Archimede. Non compì tuttavia studi regolari, perché il padre preferì educarlo alle missioni diplomatiche, portandolo con sé in due importantissime ambascerie, come già aveva fatto nel Quattrocento Zaccaria Barbaro con il figlio Ermolao. In Francia, fra il 1562 e il 1564, poté assistere alle prime fasi delle guerre di religione, assimilando dal padre (patrizio di tendenza filocuriale, amico dei gesuiti) un odio profondo per la Riforma protestante, aborrita non solo per la minaccia che arrecava alla religione degli avi, ma anche perché considerata causa di sconvolgimenti dell’assetto politico-sociale. Il B. ebbe altresì modo di essere informato sull’andamento delle ultime sessioni del concilio di Trento, cui partecipò, come patriarca eletto di Aquileia, lo zio Daniele. Passato poi a Costantinopoli, fra il 1568 e il 1573, F. ebbe la sorte di essere imprigionato insieme con il padre durante la guerra di Cipro. I due riuscirono comunque a stabilire, anche in quella precaria situazione, contatti segreti fra la Repubblica e il sultano, preparando così un trattato di pace separata, il cui testo fu portato segretamente nel 1573 a Venezia dallo stesso F. per la ratifica del consiglio dei Dieci. Dopo un simile esordio, la carriera politica del giovane (rimasto celibe, come molti altri patrizi veneziani destinati a ricoprire cariche pubbliche) si prospettava assai promettente. Fu eletto savio agli Ordini ed ebbe quindi modo di adoperarsi insieme con il padre, sopraprovveditore alla sanità, nel soccorso alle popolazioni colpite dalla terribile peste del 1576. Fu poi ambasciatore negli stati dei Savoia dal 1578 al 1581. Il soggiorno a Torino, alla corte del duca Emanuele Filiberto gli diede modo di compiere interessanti riflessioni sulla politica dei principi sabaudi. Fu altresì testimone della venuta di Carlo Borromeo a Torino, in occasione della traslazione della Sindone da Chambery. In questa occasione egli espresse una sincera pietà, incentrata sulla meditazione sulla passione di Cristo, che rimase sempre un tratto distintivo della sua religiosità. Non cessò però di indagare sui rapporti tra religione e politica, con riferimento alla politica ecclesiastica dei principi sabaudi: in particolare il B. approvò la scelta di Emanuele Filiberto di sostenere i gesuiti nella loro opera di difesa dell’ortodossia contro la diffusione delle dottrine calviniste. Il B. ammirava l’assolutismo sabaudo e auspicava che anche Venezia fosse guidata da un governo forte, espressione del patriziato di orientamento filocuriale. Queste sue aspirazioni erano però in contrasto con le nuove tendenze della vita pubblica veneziana: così nel 1581 egli fu arrestato sotto l’accusa di avere fornito al vecchio patriarca di Aquileia Giovanni Grimani (allora in rotta con la Repubblica per una vertenza giurisdizionale intorno al feudo di Taiedo presso San Vito) informazioni riservate sulle decisioni dei consigli veneziani. Dopo alcuni mesi di detenzione fu però liberato e prosciolto da ogni accusa. Questo incidente non interruppe l’ascesa del B. nella vita pubblica: nel 1584-85 egli fu eletto per due volte alla carica di savio di Terraferma. Ma proprio in quel momento si realizzarono le condizioni per l’ingresso in una ancor più prestigiosa carriera ecclesiastica. Infatti le relazioni tra la Repubblica e il patriarcato di Aquileia erano nettamente migliorate dopo l’elezione del nuovo papa Sisto V, ben disposto verso Venezia: fu quindi possibile avviare le consultazioni per la nomina di un coadiutore del vecchio patriarca Giovanni Grimani, ormai più che ottantenne. La Repubblica, che godeva di diritti di giuspatronato, affidò la scelta allo stesso patriarca Grimani, coll’ovvia condizione che la nomina avvenisse nell’ambito del patriziato veneziano (si voleva infatti evitare il pericolo di ingerenze degli Asburgo, che pretendevano la divisione della diocesi e la creazione di un vescovato di Gorizia, o in alternativa chiedevano la nomina di un patriarca a loro favorevole, facendosi forti della sovranità sulla maggior parte della diocesi e del possesso di Aquileia). Il Grimani propose alla Santa Sede la candidatura del nipote Antonio Grimani, abate di Sesto; ma Sisto V la respinse per la giovane età del candidato. Il Grimani ripiegò allora sulla candidatura di un figlio di Marcantonio Barbaro: la scelta cadde su F., che fu prontamente nominato da Sisto V, incurante delle proteste austriache. Il B. era in quel momento ancora un laico: ricevette quindi rapidamente gli ordini minori e maggiori e fu consacrato arcivescovo di Tiro nel marzo del 1586. La condizione di uomo politico passato improvvisamente alla carriera ecclesiastica non era insolita nel Cinquecento veneziano; ma il B., consapevole della dignità del suo nuovo ruolo, si preparò scrupolosamente con l’aiuto dei gesuiti veneti (fra cui il celebre padre Antonio Possevino). Il suo ingresso nel governo della diocesi avvenne gradualmente: nominato nel 1587 vicario generale del Grimani, preferì nei primi anni risiedere nel palazzo patriarcale di San Vito al Tagliamento. San Vito, però, non apparteneva alla diocesi aquileiese, bensì a quella confinante di Concordia. Il B. propose uno scambio di pievi al vescovo Matteo Sanudo, al fine di poter osservare l’obbligo della residenza a San Vito; ma la sua proposta fu respinta. Con molta riluttanza, dunque, egli si acconciò a risiedere a Udine, città con la quale non ebbe mai buoni rapporti. Particolarmente rovinoso fu, a questo riguardo, il processo inquisitoriale avviato nel 1590 dal B. contro le clarisse del convento di S. Chiara, provenienti dalle maggiori famiglie della nobiltà udinese e friulana, sospettate di professare segretamente l’eresia più radicale, l’anabattismo antitrinitario. Il processo fu trasferito al Sant’Ufficio di Venezia; ma le monache furono difese dal governo veneziano e vennero infine assolte con grave scorno del B., che per due anni non ritenne più opportuno recarsi a Udine. Una nuova occasione per impegnarsi a favore della sua diocesi gli fu però offerta, nel 1592, dal nuovo pontefice Clemente VIII, che aveva a cuore la difficile situazione politico-religiosa dei domini asburgici dell’Austria interna (Stiria, Carinzia, Carniola), sottoposti alla duplice minaccia dei Turchi e della Riforma protestante. La Santa Sede volle riorganizzare l’istituzione ecclesiastica in quei territori con lo strumento delle visite apostoliche: in questo contesto anche il B. fu incaricato di una missione, che però avrebbe dovuto riguardare, contro ogni consuetudine, quei territori che erano compresi nella sua stessa diocesi, come il Goriziano e parti della Stiria, Carinzia e Carniola. Il successo di questa grande visita apostolica, intrapresa e realizzata dal B. fra il 1593 e il 1594 con sincero zelo pastorale e ferma energia, non può quindi far dimenticare che solo l’autorità apostolica aveva consentito al prelato veneziano di esercitare le sue funzioni di visitatore in terra austriaca, aggirando l’opposizione della reggenza di Graz, che governava l’Austria interna nella minorità dell’arciduca Ferdinando. Merito indubbio del B. (divenuto patriarca dopo la morte del Grimani, avvenuta il 2 ottobre 1593) fu quello di saper sfruttare le prospettive aperte dalla crisi politico-religiosa dell’Austria interna, additando agli ambienti cattolici della reggenza di Graz i vantaggi di un’iniziativa di energica re staurazione del cattolicesimo. Questa prospettiva fu illustrata sia nella Relazione della visita apostolica in Carniola, Stiria e Carinzia fatta da Francesco Barbaro patriarca eletto d’A – quileia l’anno 1593 e presen tata a papa Clemente VIII (pubblicata a cura di V. Joppi a Udine nel 1862), sia nelle lettere indirizzate al maggiore esperto di questioni germaniche della curia romana, monsignor Minuccio Minucci (oggi conservate nella Biblioteca civica di Udine). In un primo tempo la reggenza di Graz, divisa fra l’orientamento cattolico intransigente della arciduchessa Maria di Baviera e le scelte più moderate o filoprotestanti di alcuni consiglieri, diede poco ascolto ai suggerimenti del B. Ma le relazioni tra gli Asburgo e il patriarca migliorarono quando l’arciduca Ferdinando II (il futuro imperatore della guerra dei Trent’Anni) raggiunse la maggiore età ed assunse il governo dell’Austria interna. Difatti, nel 1597 i due si incontrarono a Lubiana e il nuovo arciduca promise al patriarca la propria collaborazione per i comuni obiettivi, cioè, anzitutto, per la lotta contro gli eretici. In effetti nel 1598 Ferdinando assunse misure severe contro i luterani dei suoi domini, cacciando i predicatori e costringendo molti dei suoi sudditi all’esilio. In questa situazione il B. poté finalmente celebrare a Gorizia, nel 1602, un sinodo per il clero della parte austriaca della diocesi, i cui Decreta furono pubblicati a Udine in quello stesso anno. Ma fu questo il canto del cigno dell’autorità patriarcale nei territori austriaci. Infatti, una volta superata la fase più critica della lotta contro la Riforma, l’arciduca manifestò la tendenza a esautorare il patriarca, privilegiando forze ecclesiastiche più direttamente legate a casa d’Austria, come i gesuiti dei vari collegi istituiti nell’Austria interna (fra i quali quello di Gorizia, eretto nel 1615), i frati cappuccini ed il vescovo di Lubiana. Le relazioni fra la parte veneta e quella austriaca della diocesi furono interrotte, alla fine del 1615, dallo scoppio della guerra di Gradisca, provocando una paralisi dell’organizzazione diocesana destinata a protrarsi nel tempo. Deve essere del resto rilevato che il B., pur cercando di venire incontro alle necessità pastorali della parte austriaca della diocesi, privilegiò sempre gli interessi veneti e quelli del suo casato: invitato dalla Santa Sede a indicare un coadiutore con diritto di successione, egli fece cadere la scelta sul fratello Ermolao, che però non si distinse per particolari meriti, né come coadiutore (nominato dalla Santa Sede nel concistoro del 12 febbraio del 1596), né come patriarca (dal 1616 al 1622). Questa obiettiva convergenza di interessi con Venezia non risparmiò al patriarca B. duri contrasti con le magistrature repubblicane, come accadde nel 1598, a causa di questioni giurisdizionali connesse alle misure di sanità assunte nella peste di Cividale. Non venne però pregiudicato, almeno fino al primo Seicento, quel sostanziale accordo con la Serenissima che permise di avviare la riorganizzazione del governo ecclesiastico della parte veneta della diocesi secondo i dettami tridentini, sia pure con alcuni decenni di ritardo rispetto ad altre diocesi venete. Infatti il patriarca Giovanni Grimani aveva demandato l’applicazione dei decreti conciliari ai suoi vicari generali, Iacopo Maracco e Paolo Bisanti, non provvisti dell’autorità necessaria per superare una miriade di resistenze e di opposizioni locali. Invece il B., potente a Venezia per amicizie e parentele e assai stimato dalla Santa Sede e dall’Inquisizione romana, poté forgiare una serie di istituzioni, destinate a incidere per secoli sulla vita della Chiesa nella Patria del Friuli. Durante gli anni della sua residenza in Friuli, fra il 1593 e il 1605, il B. convocò il clero nei sinodi diocesani di San Daniele (1595), Cividale (1600) e Udine (1605), nel corso dei quali fu emanato un fondamentale corpus di norme ecclesiastiche, destinato a costituire un modello per il clero friulano lungo tutta l’età moderna (con possibili riflessi anche sull’arte sacra, recentemente segnalati da M. Hochmann). A Udine il B. riorganizzò nel 1595 la cura d’anime, ancora incentrata su un’unica pieve, che venne suddivisa in otto parrocchie. Per sua iniziativa fu inoltre eretto fra il 1597 e il 1600 il palazzo patriarcale, simbolo della rinnovata presenza del prelato nella sua diocesi. A Udine, a Cividale e a Gemona il B. si batté per la riforma dei monasteri femminili; ancora a Udine favorì la nascita della casa delle Zitelle, esemplata sull’analoga istituzione veneziana. Le maggiori città e “terre” friulane, però, rappresentavano solo una piccola parte della realtà diocesana: la riuscita del disegno riformatore del B. richiedeva che le direttive patriarcali venissero applicate in tutta la diocesi, e quindi anche nelle aree più periferiche, da un clero formato ex novo secondo la nuova disciplina tridentina, o gradualmente educato ad applicarla. Con notevole sforzo economico ed organizzativo il B. riuscì ad aprire a Udine nel 1601 il seminario patriarcale (mentre un altro, più piccolo, ebbe breve vita a Cividale). Il numero degli allievi fu però sempre inadeguato alle necessità pastorali. L’altra via, anch’essa perseguita con tenacia, fu quella di accrescere i controlli sul clero dedito alla cura d’anime, specialmente nelle aree più periferiche, fornendogli al tempo stesso sussidi, direttive e istruzioni che colmassero gradualmente le sue gravi lacune. A tale fine il patriarca visitò personalmente o fece visitare dai suoi collaboratori (fra cui si distinsero i luogotenenti patriarcali G. B. Scarsaborsa e Agostino Bruno) tutta quanta la diocesi; istituì inoltre nel 1595, sul modello borromeiano, la rete dei vicariati foranei, imponendo con successo la convocazione delle congregazioni dei casi di coscienza per la preparazione dei sacerdoti all’esercizio della confessione. L’atto più solenne del suo patriarcato fu il concilio provinciale celebrato a Udine, nel 1596, al quale intervennero (per l’ultima volta) quasi tutti i vescovi della vastissima provincia ecclesiastica aquileiese: i decreti conciliari furono approvati dalla Santa Sede e pubblicati a Udine nel 1598. La decisione più importante assunta dal concilio riguardò il rito liturgico “patriarchino”, che fu soppresso dal B. per compiacere la Santa Sede, secondo il desiderio comunicatogli ufficiosamente dal cardinal nipote Cinzio Aldobrandini. In questa occasione, dunque, il patriarca non seguì il modello di Carlo Borromeo, che aveva efficacemente difeso il rito ambrosiano dagli attacchi della curia. Questa decisione è stata spesso deplorata dalla storiografia friulana, in quanto essa avrebbe privato il patriarcato di un suo forte elemento di identità. Notevole incidenza ebbero però anche altre scelte del B., assunte sempre alla luce delle generali preoccupazioni politico-ecclesiastiche e pastorali della Chiesa della Controriforma, e tuttavia destinate a incidere oggettivamente sulla vita sociale e religiosa della Patria del Friuli. Il “disciplinamento” del clero e quello dei fedeli (perseguito soprattutto attraverso l’obbligo di predicazione dei parroci e l’introduzione della dottrina cristiana) avviò un vasto processo di acculturazione, destinato a protrarsi per secoli; esso comportò fra l’altro una lotta severa nei confronti delle credenze popolari, come quella dei “benandanti”. Meno certe sono invece le conseguenze che le riforme del B. poterono avere sul piano linguistico. Nella relazione della visita “ad limina” del 1598 il patriarca riconobbe esplicitamente il friulano come una delle quattro lingue parlate nella diocesi. Mentre però vi sono evidenti tracce di un suo interessamento per la formazione di un clero di lingua “schiava”, non risulta che egli abbia avvertito la necessità di promuovere l’uso del friulano, essendosi limitato a raccomandare ai parroci l’insegnamento e la predicazione nella lingua del popolo. Il peggioramento delle condizioni di salute e i nuovi gravissimi contrasti giurisdizionali con la Repubblica rallentarono lo sforzo riformatore del B. dopo il 1605. Nel 1606-07, pur bloccato nel palazzo patriarcale dal riacutizzarsi della gotta, il patriarca manovrò segretamente contro la Repubblica di Venezia e contro il suo consultore Paolo Sarpi nella crisi dell’Interdetto. Rientrato nel 1608 a Venezia, coll’intenzione di restarvi pochi giorni, il B. vi fu poi trattenuto negli anni seguenti dal riacutizzarsi della malattia e dal peggioramento delle relazioni con la Serenissima, con la quale entrò in contrasto, nel 1612, a proposito della sovranità su San Daniele e su San Vito, rivendicata dal B. in base ai patti veneto-patriarcali del 1445, ma negatagli dai consultori della Repubblica Paolo Sarpi e Servilio Treo. Le tesi avverse al patriarca furono sostenute con particolare tenacia dall’avvocato sandanielese Giusto Carga, che fu poi assassinato nel 1614 da un nobile friulano, Cecchino di Caporiacco, ritenuto molto vicino al patriarca. Ne seguì un clamoroso processo, che nocque sicuramente al prestigio del B., anche se la sua corresponsabilità nell’omicidio non poté essere in alcun modo provata. In questo periodo travagliato il B. compì solo due brevi apparizioni in Friuli, nell’estate del 1613 e tra l’agosto e il dicembre 1615. Morì a Venezia il 6 aprile 1616.

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Bibliografia

I dispacci del B. dalla Savoia sono conservati all’Archivio di stato di Venezia. Carteggi mss del B. relativi agli anni del patriarcato sono conservati, in originale o in copia, all’Archivio Segreto Vaticano, alla Biblioteca Apostolica Vaticana, alla BNMV, alla BCU e soprattutto all’ACAU, dove si custodisce anche la maggior parte della documentazione sulla sua azione di governo della diocesi.

F. BARBARO, Lettera pastorale, Udine, Natolini, 1592; Constitutiones promulgatae ab ill.mo et rev.mo d. Francisco Barbaro, Dei et Apostolicae sedis gratia Arciepiscopo Tyri, Coadiutore Aquileiense et Visitatore apostolico. In publica congregatione Goritiae habita post peractam comitatus Goritiae et capitaneatus Gradiscae visitationem, Udine, Natolini, 1592; Relazione della visita apostolica in Carniola, Stiria e Carinzia fatta da Francesco Barbaro patriarca eletto d’Aquileia l’anno 1593 e presentata a papa Clemente VIII, a cura di V. JOPPI, Udine, Seitz, 1862; Constitutiones sinodales editae ab ill.mo et rev.mo d. Francisco Barbaro Patriarcha Aquileiae etc., in sinodo dioecesana Aquileiensi habita in terra patriarchali Sancti Danielis, Venetiis, apud Ioan. Antonium Rapazetum, 1596; Concilium provinciale Aquileiense primum. Celebratum anno Domini 1596, Udine, Natolini, 1598; Decreta edita in sinodo dioecesana secunda Aquileiensi habita in civitate Foriiulii anno a Christi nativitate MDC, die II maii, Udine, Natolini, 1600; Decreta promulgata ab ill.mo et rev.mo domino Francisco Barbaro patriarcha Aquileiae et Principe in dioecesana sinodo Goritiae habita nationis Germanicae et Sclavonicae dioecesis Aquileiensis anno Domini MDCII, die XXV iunii, Udine, Natolini, 1602; Instructio pertinens ad structuram, instaurationem, ornatum, supellectilem et cultum templorum, aediumve, sacrarumque rerum dioecesis Aquileiensis. ... leggi Illustrissimi et reverendissimi d. Francisci Barbari Patriarchae Aquileiae et Principis iussu edita, Udine, Natolini, 1605.

DHGE, VI, 588-590; G. BENZONI, Barbaro, Francesco, in DBI, 6 (1964), 104-106; G. TREBBI, Francesco Barbaro, patrizio veneto e patriarca di Aquileia, Udine, Casamassima, 1984 (con rimandi alla bibliografia meno recente); P. SARPI, Venezia, il patriarcato di Aquileia e le “giurisdizioni nelle terre patriarcali del Friuli” (1420-1620), a cura di C. PIN, Udine, Deputazione di storia patria per il Friuli, 1985; M. HOCHMANN, Peintres et commanditaires à Venise, 1540-1628, Rome, École française de Rome, 1992, 276-279; G. TREBBI, La politica ecclesiastica del patriarca di Aquileia Francesco Barbaro, in Katholische Reform und Gegenreformation in Innerösterreich 1564-1628, a cura di F. DOLINAR - M. LIEBMANN - H. RUMPLER, Graz-Ljubljana-Wien, Styria Verlag, 1994, 295-306; M. ROMANELLO, Le spose del principe. Una storia di donne: la Casa secolare delle zitelle in Udine, 1595-1995, Milano, F. Angeli, 1995, 37-50, 111-112; G. TREBBI, Il patriarca Francesco Barbaro e la Patria del Friuli, in Il patriarcato di Aquileia tra Riforma e Controriforma, a cura di A. DE CILLIA - G. FORNASIR, Udine, Deputazione di storia patria per il Friuli, 1996, 61-94; ID., Il Friuli dal 1420 al 1797. La storia politica e sociale, Udine, Casamassima, 1998, 225-260; ID., Alle origini dell’arcidiocesi di Gorizia: il dibattito al tempo di Francesco Barbaro, in: L’arcidiocesi di Gorizia dall’istituzione alla fine dell’impero asburgico (1751-1918), a cura di J. VETRIH, Gorizia, Forum, 2002, 3-25; P. SARPI, Consulti, a cura di C. PIN, Pisa, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001, I/1-2, indice.

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