ZUTTIONI GIOVANNI

ZUTTIONI GIOVANNI (1837 - 1901)

ecclesiastico, poeta

Immagine del soggetto

Il sacerdote Giovanni Zuttioni.

Nacque il 20 ottobre 1837 a Varmo (Udine). Sacerdote, fu cooperatore a Santo Stefano Udinese, a Gradiscutta di Varmo, cappellano a San Martino di Codroipo, dal 1885 pievano e vicario foraneo di Varmo, dove morì il 12 luglio 1901. «Di spirito grandemente caritatevole, tanto da morire poverissimo, doveva essere un tipico esempio di eccellente parroco di campagna, lavoratore instancabile (suo ‘hobby’ la falegnameria, oltre che la calligrafia)» (D’Aronco). Proverbiale la sua socievolezza: «era un tipo ameno, e molto volentieri si lasciava andare a qualche buona presa per il bavero», pur se la «sua penna era talvolta tagliente e spietata» (Pilosio). Postumo (e dovuto alla iniziativa di un gruppo di amici) il volume che raccoglie i suoi versi. Un volume che, schiacciando la cronologia, ridistribuisce per temi, collocando in punta, quasi a sigillo, la commemorazione del re Umberto. La commemorazione, pur non tacendo il dolore, esprime una condanna netta dei tempi moderni che, con il disprezzo della religione, hanno reso possibile l’attentato, riassumendo così (e in modi non generici) la personalità di Z. Ma importa il repertorio linguistico, che affianca, senza gerarchie, friulano (un friulano modellato sul canone scritto) e italiano, concedendo spazio anche al latino e al veneto, quest’ultimo in chiave ridente («Se mi podessi, Viscera…» [Se io potessi, cuore mio…]). All’interno del corpus si scorgono i materiali di due almanacchi (per il 1871 e il 1877), per i quali è ovvio il rinvio al paradigma Zorutti, una filigrana che i lettori (come Egiziano Pugnetti) avvertivano (e apprezzavano). Non si appiattiscono tuttavia su Zorutti le scelte metriche: dalla combinazione di endecasillabi e settenari alla sesta rima, dalla quartina di ottonari (e di settenari) ai soli ottonari a rima baciata, dall’ode che gioca sulla memoria del Cinque maggio manzoniano, profanandola, alla saffica, dal sonetto alla terzina. ... leggi E compatto è l’insieme delle dodici epistole in terza rima (un filone collaudato), che si distendono tra il 6 giugno 1876 e il 22 gennaio 1890, indirizzate a Giuseppe Francesconi, dove emerge limpida (e pur sempre topica) la funzione della scrittura: «E come col parlare allarga il cuore / colui che geme per la sorte ria, / sfogando coll’amico il suo dolore; // così fo scribacchiando in pöesia, / e misurando i versi col compasso / io caccio lungi la malinconia». La scrittura è sollecitata dal contingente, nei confronti del quale Z. reagisce con passione: contro la teoria evoluzionista, contro la massoneria, contro le sedute spiritiche, contro la politica di Crispi. Z. risponde a un «sonetto blasfemo» di Filippo Turati, «immondo animale», irride l’istanza del popolo sovrano, falsa e crudele, quando l’occhio scorra dal «puar brazzent» [povero bracciante], dall’«afamat mendich» [affamato mendico] ai «richs» [ricchi], al «fals filantropo» [falso filantropo]. Del progresso disegna un ritratto deforme: «Il progres l’ha mandât dutt in malore…»; e in sintesi corrosiva: «E fin lis oçhis vuelin dì la so / par secondà la mode di cumò» [E perfino le oche vogliono dire la loro / per assecondare la moda di adesso]. Ma a fare ressa sono i testi più propriamente d’occasione: per prime messe, ingressi di parroci, anniversari, matrimoni. La poesia come dovere, nella logica dell’intrattenimento: «Chell del pöete l’è un mistîr di çhan / e plui voltis a l’ann vöe, o no vöe / a la so pive al devi dà di man…» [Quello del poeta è un mestiere da cane / e più volte all’anno voglia o non voglia / alla sua piva deve mettere mano…]. Non mancano però scampoli meno scontati, come la povertà della alimentazione, la dieta di necessità frugale: «Mi voress del bon vin e del bon rost; / ma ’o devi mangià cocis e radrich, / e bevi l’aghe fresçhe in lug di most / […] / ma mi confuarti con chell mud di dì; / che il lov al viv a çhar e il gneur a fen» [Mi servirebbe del buon vino e del buon arrosto; / ma sono costretto a mangiare zucche e radicchio, / e a bere l’acqua fresca invece del mosto / […] / ma mi conforto con quel modo di dire; / che il lupo vive di carne e la lepre di fieno]. Le maglie del registro burlesco sono ad ogni modo palesi: sonetti contro le mosche, contro le pulci, contro la miseria, la lista intasata di malanni («Fiere, dolôr di çhâv, dissenterie, / inzirli, mal mazzuch, gastro enterite, / dolôr di dintg, ingomit, polmonite, / moroidis, rafredôr, mâl de l’urtie…» [Febbre, emicrania, dissenteria, / vertigine, epilessia, gastroenterite, / mal di denti, vomito, polmonite, / emorroidi, raffreddore, orticaria…]), a incrociare lemmi di vario livello tecnico, entro l’alveo di un genere che ha le sue avvisaglie nel Cinquecento e il suo vertice in Ermes di Colloredo. Una cultura che non cancella le sue fonti e anzi le esibisce: «Umile però sempre in tanta gloria» (da Petrarca), «Ce biele improvisade! / No m’ e’ saress spietade…» [Che bella improvvisata! / Non me la sarei aspettata…] (da Zorutti). E una versione in sesta rima dal milanese di Tommaso Grossi, La plôe d’âur [La pioggia d’oro], un poemetto per la verità arruffato. Ma anche nell’esercizio apparentemente libero agisce un giudizio sul presente, e basti l’analogia tra i dibattiti accesi dell’Olimpo e il moderno parlamento, che non è di Grossi: «Nass un infiar, un çhiass, un battibui, / come se il cil al ’vess di sprofondà; / cui l’ul che Febo no ’l feveli plui, / cui berle di lassâlu fevelà: / e il president, in miezz a chell bordell, / i’ pete a sghinghinà cu ’l campanell» [Scoppia un inferno, un chiasso, un frastuono, / come se il cielo dovesse sprofondare; / chi vuole che Febo non parli più, / chi grida di lasciarlo parlare: / e il presidente, in mezzo a quel bordello, / si precipita a suonare il campanello]. Una mitologia sgangherata, con in coda una morale: «Paure us fasaran fuarz e potenz; / a invidie i gran’ riccons us movaran; / i sapienz us faràn strasecolà; / ma nome i generôs san fassi amà» [Paura vi faranno forti e potenti; / a invidia i grandi ricconi vi muoveranno; / i sapienti vi faranno trasecolare; / ma solo i generosi sanno farsi amare]. Tra gli “auctores” ha comunque ruolo di privilegio Zorutti, la cui presenza è palpabile negli scorci meteorologici: «Siroc e’ s’ingusiss, / il cil e’ si scuriss, / al tone tramontan, / al lampe da lontan / […] / E’ sçhàmpin dug dai çhamps // in miezz a tons e lamps; / ’o sint a businà; / nus capite ançhe ca. / Sintit ce orror di tons!… // Siaraiso chei balcons? / Addio panolis, vin! / Chest an no vendemìn» [Scirocco soffoca, / il cielo si oscura, / tuona a settentrione, / lampeggia lontano / […] / Scappano tutti dai campi // in mezzo a tuoni e lampi; / sento rombare; / capita anche qua. / Sentite che orrore di tuoni!… // Chiudete quelle finestre? / Addio pannocchie, vino! / Quest’anno non vendemmiamo]. Ma non nella traccia, peraltro rassegnata, della fatica e del sudore: «Sedis oris di lavôr / cun ’ste sorte di calôr / ’o soi dutt in t’un sudôr…» [Sedici ore di lavoro / con questa sorta di calura / sono tutto in un sudore…]. E non nel taglio dei precetti: «Vivit, us visi, con economie / e co’ lis spesis misurait l’entrade / […] // Dopo dutt quant sperait te’ Providenze / che dutt par nestri ben e’ disporà…» [Vivete, vi avverto, con economia / e con le spese misurate l’entrata / […] // Dopo tutto confidate nella Provvidenza / che tutto disporrà per il nostro bene…]. La lingua è sciolta, anche se annette italianismi secchi («empio», «gaudio», «giubileo», «zelo») o con ritocchi leggeri («miserabil epoche», «natìe favele», «sette infernâl»), bilanciati da tessere più sanguigne («i trisg ce bordo, / ce rabie che varàn» [i malvagi che rovello, / che rabbia avranno], un «fefautt» non documentato dai repertori – «çhantand in ton di fefautt» [cantando in tono di f.] –, «chei pedoi che nassin là sul paur» [quei pidocchi che nascono là sul possidente]). È severo il giudizio di D’Aronco: «autore di modesto valore», «ci diede quasi sempre delle prose in rima, dettate da avvenimenti d’occasione, quali le nozze, e i fatterelli contenenti una conclusione ammonitrice». Ma come documento di costume Z. è ricco di interesse.

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Bibliografia

Poesie friulane ed italiane, a cura di L. B., con il discorso funebre di D. Pancini, Udine, Tip. del Crociato, 1903.

DBF, 875; L. PILOSIO, Antenati e genitori dell’«Avanti cul brun!», «Avanti cul brun! Lunari di Titute Lalele pal 1961», Udine, Avanti cul brun!… Editôr, 1960, 261-262; R. CIUTTO, Leterature furlane dal Lemene al Stele, in Tisana, a cura di L. CICERI, Udine, SFF, 1978, 169; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 111-112.

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