VIRGILI DINO

VIRGILI DINO (1925 - 1983)

insegnante, scrittore, friulanista, amministratore pubblico

Immagine del soggetto

Lo scrittore Dino Virgili.

Nato a Ceresetto di Martignacco (Udine) nel 1925, frequentò, tra il 1937 e il 1941, l’Istituto tecnico Antonio Zanon, ma si diplomò presso l’Istituto magistrale Caterina Percoto, dove ebbe modo di conoscere (e di farsi conoscere da) Giuseppe Marchetti, docente d’eccezione. Il tirocinio era stato precoce nel perimetro ristretto, ma coeso, delle iniziative locali: «La vôs di Martignà», «Strapaese». Sarà poi intensa la collaborazione con «La Patrie dal Friûl», con le riviste della Società filologica friulana (dal 1967 al 1974 dirigerà «Sot la nape») e altre testate. Un impegno profuso anche in campo scolastico: maestro alla scuola Enrico Fruch, nella periferia di Udine, l’attività didattica di V. si allargò ai corsi di cultura friulana organizzati dalla Filologica. Consigliere comunale socialista a Martignacco, V. si spense a Udine nella notte del 16 giugno 1983. Decisivo per la sua vicenda è il 1949, l’anno di “Risultive”. Preceduta da una lunga gestazione sulle pagine di «La Patrie dal Friûl», “Risultive” si costituisce a Fagagna il 9 gennaio 1949 (il 13 febbraio assume, a Moruzzo, l’etichetta-emblema, forse dalla villotta «Aghe aghe risultive…» [Acqua acqua risorgiva…]). L’autonomia friulana, nella prospettiva di Marchetti, è l’idea-perno attorno a cui ruota anche l’istanza letteraria: «Motivo perciò a una decisa affermazione in campo italiano ed europeo della civiltà friulana è oggi la creazione di una condizione pari a quella che ne rese possibili le prime manifestazioni artistico-letterarie, cioè una larga autonomia regionale come atto d’autocoscienza. ... leggi È l’unico fatto che possa salvare ancora il Friuli… Da questa rinascita della coscienza e quindi della civiltà friulana sboccerà una ‘letteratura nazionale’ (in quanto cosciente di sé e identificabile quindi con una manifestazione civile)». Respinto il «dialettalismo» di Zorutti, V. respinge anche la poetica pasoliniana perché per il friulano non sarebbe possibile «inserirsi nell’esperienza d’altrove senza travisare il suo carattere tipico», e prospetta una terza ipotesi: «La nostra tradizione va ricercata dentro di noi stessi, nella nostra essenza, nelle manifestazioni più pure e illese da qualsiasi influenza estranea, che sono l’esile filo che s’affonda alle origini e giunge fino a noi attraverso il tempo: cioè nella produzione popolare, dove il popolo anonimo esprime se stesso impersonalmente in ogni momento, nel pianto e nell’amore, nell’illusione e nell’ironia, istintivamente e perciò poeticamente». Dove sono palesi i risvolti neoromantici: il nesso nazione-popolo, un popolo che si esprime impersonalmente, istintivamente e perciò poeticamente. Il manifesto di “Risultive” «non impone limiti o programmi di scuola: invita soltanto a riascoltare, in continuità evolutiva, le suggestioni della terra e dell’anima friulana, risorgenti dalle radici native della stirpe e dalla preistoria poetica e narrativa popolare e a ricrearle, in innocenza e purezza, nella temperie della lirica e della prosa moderna e nella luce di una chiara coscienza e di un puntuale aggiornamento critico della cultura». Il richiamo al mondo popolare è un dato tipico dell’immediato dopoguerra, «innocenza e purezza» rinviano al mito romantico della creatività spontanea del popolo, pur se la costellazione semantica che individuano e la stessa terminologia sono altrimenti attive nel vocabolario del Pasolini di quegli anni. Una «letteratura tipicamente friulana» peraltro non è senza sottintesi polemici: uno scarto secco, una orgogliosa distanza rispetto ai sofisticati principi estetici della “Academiuta” casarsese. Scarto e distanza che Pasolini nega, con analoga intransigenza: «In questo bilancio fallimentare, tuttavia, un conto torna: e sono i versi di N.A. Cantarutti, A. Cantoni, e B. Virgili. Checché essi ne dicano, fanno parte del cerchio dell’Academiuta e io li annovero tra i felibri, data la loro giovanissima età, per la tecnica della loro lirica e per i sentimenti espressi pressappoco con lo stesso procedimento che ho descritto a proposito dei giovani poeti casarsesi». “Risultive” come filiazione, ramo minore dell’“Academiuta”. Ma “Risultive” ha programmi che non collimano con le scelte di Pasolini: un friulano non come lingua della (e per la) poesia, non varietà laterale e idioletto geloso, ma lingua a tutto campo, in una veste (di fatto la varietà centrale promossa a koinè) valida per l’intero dominio friulano e abilitata a tutti gli usi e a tutti i registri. V. si cimenta anche nella sfida del romanzo, un romanzo dalla trama sinuosa, densa di eventi e di figure, dettata da un entusiasmo febbrile e sostenuta da una competenza linguistica non comune. L’aghe dapît la cleve. Conte di amôr [Il corso d’acqua ai piedi del declivio. Racconto d’amore] è del 1949, ma la pubblicazione si avvia nel 1951 in «La Patrie dal Friûl», si interrompe nel 1954, per riprendere parzialmente nel 1955 in «Il Friuli» di Leone Comini. Il romanzo compare in volume nel 1957 e in seconda edizione, rivista, nel 1979. È la storia di una famiglia intrecciata con la storia di un intero paese. L’azione si svolge tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. I Batiston, gente fiera che abita ai bordi, non si piega al signorotto locale. Premuta dalle trasformazioni sociali, la famiglia rischia di disperdersi, ma un discendente, un nipote, si reinstalla alla fine nella vecchia casa a perpetuarvi la vita. La maglia narrativa è complessa per i fatti che dipana e per i modelli di scrittura che alterna o sovrappone, per le corde che incrocia. Sergio Sarti, recensendo il libro, ne individua quattro, che si direbbero in frizione, pur se il consuntivo ravvisa un equilibrio, una convergenza, «osservando come il filone familiare-bozzettistico abbia servito da mediatore tra quello realistico da un lato e quello leggendario dall’altro; mentre il filone lirico, rampollante dovunque, ha impedito agli altri di straripare eccessivamente, togliendo ad ognuno di essi i possibili eccessi: a quello realistico, gli eccessi della brutalità, a quello familiare, della volgarità, a quello leggendario, del folclorismo». Una impalcatura comunque composita. In altri termini all’uscita del romanzo si era espresso Marchetti. Una valutazione di accusata autorevolezza e, pur con qualche riserva per «certe contaminazioni di pittura liricheggiante, certe movenze della tecnica narrativa recente», di consenso non generico. Marchetti avverte le lusinghe fuorvianti del sottotitolo: «seppure l’amore – nell’accezione comune – ha larga parte in questo libro, non si può dire che ne costituisca l’orditura: semmai ne costituisce la trama». Ed è perentorio: «L’ordito è un altro: è l’anima del Friuli con le sue più profonde e più remote radici etnico-storiche, con le sue propaggini leggendarie, con le sue barbe folcloristiche, con la sua particolare coloritura e con i diversi aspetti che assume nel volgere dei tempi». Nel mutare delle cose, nel venir meno di una società ancora patriarcale, nel disgregarsi di un mondo di valori, l’acqua additata dal titolo è «l’elemento che, sotto le onde e le ghiaie, nasconde e conserva le tracce materiali – quasi archeologiche – di un passato estremamente restio a cessare. Quell’acqua è l’allegoria dell’anima friulana in senso, diciamo, trascendentale: anima collettiva e perenne». In effetti l’acqua è presenza non fortuita, metafora protratta, pur se dichiarata, non allusiva: «il flum al è la storie di duc’ nò e nò lu vin tal sanc, e dentri de nestre vite al busine cul so torgul e al cjante cul so celest di cîl daviart» [il fiume è la storia di tutti noi e noi lo abbiamo nel sangue, e dentro la nostra vita rimbomba col suo torbido e canta col suo celeste di cielo aperto]. La critica, pur con sensibilità difformi, è unanime nel riconoscere il rilievo del romanzo: per «uno slancio verso un recupero totale del passato, alle soglie di una nuova storia» (Ciceri), per la volontà di «raccogliere tutta l’esperienza della memoria e il tono spirituale della friulanità» (Michelutti), a dispetto di «un carattere sostanzialmente rapsodico» (Faggin). Pure questo bisogno di friulanità intera, di saggio compiuto, senza vuoti, di enciclopedia storica e antropologica (anche «una ‘charitas patriae’ che induce a presentare un Friuli dolcemente manierato, come su carta patinata»: Ciceri), produce qualche scompenso. In una geografia e in un contesto definito si cala il tema della “terra”, il trauma dei flussi migratori, affiora una nuova coscienza sociale. Il racconto assorbe il patrimonio condiviso dei proverbi (e delle cantilene, filastrocche, leggende). Un manifesto della friulanità, pur se l’archivio popolare è un cardine dello statuto di “Risultive”. Imbriglia spezzoni di letteratura culta, anche se anonima, versi delle origini immessi nella ferialità viva, nelle abitudini quotidiane: «E la sere, te lune di scrèe, scjarnetis e serenadis, sot i balcons in rôse di mai: ‘Pirùz miò doz inculurît / quant jo cj viôt, dut stoi ardît!…’» [E la sera, nella luna nuova, fiorite e serenate, sotto i balconi in fiore di maggio: “Pirùz mio dolce colorito / quando io ti vedo, tutto sto ardito…”]. Ma il connettivo dei proverbi costringe a un confronto, di necessità impietoso, con il precedente di Verga e dei suoi Malavoglia, dove la saggezza popolare si fa anello strutturante, risolvendosi in splendida invenzione linguistica. Il tòpos verghiano della casa, la sua austera “religio” si stempera e pacifica, e il romanzo richiama in punta, nei modi del racconto orale, il tocco rosa promesso dal sottotitolo: «Tal Prât dai fruz, Loris j disè a Luisa che j voleve ben, un ben di vite… E il flum, cul non di un ucel cjantarin, vieri e simpri resint come i Batistons, al cjantave e al cjantave, cumò, lì dapît e dentri dal cûr, come cjampanis legris di Pasche, quan’che Crist al risurìs dai muarz te lûs dolze dal mont. …e biele finide» [Nel Prato dei bambini, Loris disse a Luisa che le voleva bene, un bene di vita… E il fiume, col nome di un uccello canterino, vecchio e sempre nuovo come i Batiston, cantava e cantava, adesso, lì in basso e dentro il cuore, come campane allegre di Pasqua, quando Cristo risorge dai morti nella luce dolce del mondo. …e bella finita]. Postumo, ma già predisposto dall’autore, esce nel 1984 Paisanis. Elzevîrs e contis [Paesane. Elzeviri e racconti], per qualche aspetto incunabolo del romanzo, una scelta di brani che copre gli anni 1945-1965. A margine del volume Andreina Ciceri, che in L’aghe dapît la cleve aveva apprezzato lo «struggente lirismo», osserva che V. «realistico non è, perché non è un vero prosatore, ma un lirico, e le sue immagini non sono plastiche, ma pittoriche». Un laboratorio comunque di privilegio, che consente di sondare la scrittura di V.: dagli indugi assaporati sul paesaggio («Tal gno paîs, dapît la cleve, la cjase domenicâl cul morâr e il soreli su lis ramis, tal curtîl, e il zuc daûr cui ciprès in cuc, e la strade cui pôi su l’aghe, dilunc i roncs, si slàrgjn sun chê grande viarture dal plan…» [Nel mio paese, ai piedi del pendio, la casa padronale con il gelso e il sole sui rami, nel cortile, e la collina dietro con i cipressi tesi verso l’alto, e la strada con i pioppi sull’acqua, lungo i terrazzi, si allargano su quella grande apertura del piano…]), al rigore delle terminologie tecniche, esibite con bravura (nel campo dell’edilizia: «Titon al sfurducje jenfri lis armaduris, si strissine sot i trè- gars, si strizze in curtiel fra lis pontis e lis pòis…» [Titon si apre un varco tra le armature, si trascina sotto le putrelle, si comprime di taglio fra i puntelli e gli appoggi…]), al tempo inghiottito, fissato nella sua fatica, ma anche nei suoi incanti, nel fascino non inerte – eredità favolosa – dei suoi cantastorie («A’ jerin sudôrs di sanc: lavorâ come discjadenâz e lâ a durmî cun dôs fuéis di lidric e un zobar di polente… Ma nancje di meti la ligrie, lis fiestis, il vivi d’in chê volte… La sere, d’unviâr, al bastave un vieli contestòriis sentât tal miez…» [Erano sudori di sangue: lavorare come scatenati e andare a dormire con due foglie di radicchio e un tozzo di polenta… Ma nemmeno da mettere l’allegria, le feste, il vivere di quel tempo… La sera, d’inverno, bastava un vecchio contastorie seduto nel mezzo…]). Si aggiunga l’indulgenza per il diminutivo, che assicura (e insieme svela) l’idillio: «cuarpesel sutilin» [corpicino sottilino], «pradissìt» [praticello], «bocjute» [boccuccia], «fameute» [famigliola], «frarut» [fraticello], «gleseute» [chiesina], «omenut» [omino]. Nella compattezza solida del vocabolario si stacca qualche raro prestito adattato: «dreturis» [rettilinei], «inclustris» [chiostri], «spiete mortâl» [attesa mortale], «sugjstion» [suggestione], «telefòn» [telefono]. Ma importano maggiormente le increspature traslate: «un sgrisul di aghe tal vert» [un brivido di acqua nel verde], «magredis ineâz te lune» [magredi annegati nella luna], «Tai vôi ’e veve pardabon il ridi da l’aghe li dabas: l’aghe ’e rideve smalitant di lusignis» [Negli occhi aveva davvero il ridere dell’acqua lì sotto: l’acqua rideva guizzando scintille], «E alore il cûr di lui al cjantà a mut come un mandolâr flurît di colp te bavesele di marz» [E allora il cuore di lui cantò silenzioso come un mandorlo fiorito all’improvviso nella brezzolina di marzo]. Ci muoviamo già nel perimetro della poesia e quella di V., a dispetto di «ridondanze» e «allentamenti della tensione», resta «una delle voci più significative della poesia ladina del dopoguerra» (Faggin). V. ha stampato i suoi versi in ordine sparso, con abbondanza (a riprova bastino gli Indici della Filologica), aderendo anche alla prassi della traduzione, una prassi coltivata da “Risultive” (e prima, ma con altra strategia, dall’“Academiuta”), ma è quasi severa la selezione allestita nel 1964 con Furlanis, un titolo memore del Delirio d’amore di Ermes di Colloredo: «Mi baste di finì di meti ad un / Cheste furlane par savè fà viars» [Mi basta finire di sistemare / questa “furlane” per sapere fare versi], dove il termine assume accezione media di componimento friulano. La raccolta, soprattutto in avvio, è nel cerchio della leggerezza, di una innocenza gioiosa, con «cjant», canto, e «frut», bambino, ragazzo, a fungere da parole chiave. In filigrana si scorge l’antigrafo pasoliniano. Come il bordone delle campane: «Sunàit, cjampanis, / sunàit ancjemò…» [Suonate, campane, / suonate ancora…]. O la sagoma della donna incinta: «Une femine insinte ’e sflanchine / sul amont parsot i pôi de strade / ineâz tal sanc a slas dai cîl…» [Una donna incinta ànsima / sul tramonto sotto i pioppi della strada / immersi nel sangue diffuso del cielo…], che ricalca Il nini muàrt [Il fanciullo morto] di Pasolini: «Sera imbarlumida, tal fossàl / a crès l’aga, na fèmina plena / a ciamina pal ciamp…» [Sera luminosa, nel fosso / cresce l’acqua, una donna incinta / cammina per il campo…]. Dove alla sottile e inquieta partitura analogica risponde un dettato più esplicito e carico (nel lessico e nella macchia di colore: da «sflanchine» a «sanc a slas»), definendo personalità in antitesi, autonomie marcate. A conferma si possono allineare il Plàit di setemane sante [Pianto di settimana santa], nella cadenza dei giorni, e La domènia uliva [La domenica uliva], nel suo impianto di specialissima sacra rappresentazione, Friûl pal mont [Friuli per il mondo] e Viers Pordenon e il mont [Verso Pordenone e il mondo], dove alla fissità raggelata di Pasolini («A son restàs ta li vitrinis / i fis a vuardà cui vuj clars / in ta la lus da li cusinis…» [Sono restati nei vetri delle credenze / i figli a guardare con gli occhi chiari / nella luce delle cucine…]) risponde la dinamica aperta, narrativamente assaporata, di V. («A San Bortolomio cu lis sisilis / ’o butarìn sul cjâr i nestris fruz / e un sac di strafaniz e un Crist di len… / Il Friûl no je tiare plui par nô: / nestris paris a’ san lis stradis vieris!…» [A San Bartolomeo con le rondini / butteremo sul carro i nostri bambini / e un sacco di cianfrusaglie e un Cristo di legno… / Il Friuli non è terra più per noi: / nostri padri sanno le strade antiche!…]). Una proiezione nel futuro che ha sapore di esorcismo, trovando il suo sigillo nell’ottativo, nel vettore caparbio della fedeltà («Ma in chê dì, me, Signôr, fami murî / achì sul pat di cjase a tradiment, / e sapulîmi sot dal gno morâr / in tal curtîl, cun tune crôs di stecs… / Cemût cjantâ, lontan di te, paîs!» [Ma in quel giorno, me, Signore, / fammi morire qui sulla soglia di casa all’improvviso, / e seppellitemi ai piedi del mio gelso / nel cortile, con una croce di stecchi… / Come cantare, lontano da te, paese!]). V. è felice soprattutto nel disegno breve, come Viarte di zitât [Primavera di città]: «Nasebon a colp di bagnât e di viole / te androne in ombrene di lindis: / come un cuel fresc di femine. / Une vôs curte di frute ’e cjante / tal balcon spalancât di soreli, / glotude dal clocâ di un bareglòt pai clas. / Mi soven di un lontan amôr di viarte…» [Profumo improvviso di bagnato e di viola / nel vicolo in ombra di gronde: / come una gola fresca di donna. / Una voce breve di fanciulla canta / nella finestra spalancata di sole, / sommersa dal chiocco di un barroccio nei sassi. / Mi ricordo di un lontano amore di primavera…], con l’impressiva sequenza nominale, una allitterazione insistita (vistosa in «glotude dal clocâ di un bareglòt pai clas»), con una sensualità appena accennata («un cuel fresc di femine», «Une vôs curte di frute»), e in clausola il ripristino del registro verbale ammiccante e sospeso: «Mi soven di un lontan amôr di viarte…». Un tratto di Furlanis riunisce alcune cartoline di viaggio: «Sere viole di Fiesule / daûr i ciprès de cleve / ’e ven dal grîs d’arint dai ulivârs…» [Sera violacea di Fiesole / dietro i cipressi del declivio / viene dal grigio argenteo degli ulivi…]. Una vena ripresa in una “plaquette” postuma, Un cûr di guzle, con dedica a Alojz Gradnik, «sotto il simbolo della ‘guzla’ per un canto di amore fraterno». La “guzla”, strumento musicale a corde serbo e croato, asseconda un viaggio lungo la non ancora ex Jugoslavia e i versi sono disseminati di toponimi: con il fascino del talismano e del vincolo segreto. La laboriosità assidua di V. si misura anche in altri generi di scrittura: nel radiodramma (Un sul cjanton [Uno all’angolo], del 1958), in una attività critica attenta – notevole la scoperta di poeti come Rino Bressan e Pacifico Campana –, ma anche in una ricerca che non si può non qualificare “civile”. Come Pai nestris fogolârs [Per i nostri focolari], scrupolosa rassegna dei versi della Resistenza e dei prigionieri di guerra, degli internati: in particolare di Antonio Deluisa e Otmar Muzzolini. Di taglio più propriamente storico è La fossa di Palmanova, che documenta la repressione (tremenda) antipartigiana nella pianura: un montaggio asciutto di materiali d’archivio, sentenze e interrogatori. Nel segno di una appassionata volontà pedagogica. Volontà pedagogica che del resto connota l’intero percorso di V., anche con contributi specifici. Come La bielestele. Là che si nàs… [Il pianeta Venere. Dove si nasce…], «un esemplare libro per la Scuola elementare» (Nazzi). Ma anche La flôr. Letteratura ladina del Friuli, l’antologia edita nel 1968 e riedita, con un aggiornamento, nel 1978, è in origine impostata in funzione didattica. La flôr, il fiore, una cernita, scandita in periodi (con qualche abuso nelle prime fasi, quando si annettono all’ambito della friulanità monumenti che le sono estranei, come il cosiddetto Indovinello veronese o la Canzone di Auliver): motivi e reliquie delle origini (sec. VIII-XIII), i primitivi (sec. XIII-XIV), i rinascimentali (sec. XV-XVI), i secentisti (sec. XVII), Ermes di Colloredo (1622-1692), i popolareschi e colti del Settecento, Pietro Zorutti (1792-1867), Caterina Percoto (1812-1887), zoruttiani e percotiani (sec. XIX), e un più largo e articolato spazio per il Novecento. Ogni blocco è corredato da una premessa critica (alcuni capitoli di storia letteraria compaiono, tra 1964 e 1968, in «Sot la nape»), i testi sono forniti di traduzione (e le note illustrano lemmi o passi problematici), utile, quando non necessaria. Un po’ precipitata peraltro, in difetto di conoscenze certe, l’omologazione grafica, che uniforma un corpus eterogeneo per coordinate storiche e geografiche. Ancora connesso con l’orizzonte scolastico è, postumo come volume, un vorticoso scioglilingua, affiancato da una filiera di giudizi sulla realtà linguistica della regione attraverso i secoli, a partire dall’antichità, Dislèelenghis, «par provis di lei, di dî-su e di scrivi» [per esercizi di lettura, di dizione e di scrittura]. Le finalità didattiche si direbbero anguste per quanto i Dislèelenghis assemblano: per gli strati diversi della lingua che coinvolgono e per il carattere prezioso e intellettualistico della scrittura. E sono comunque fungibili ad altro livello per il loro manierismo acceso. Un gioco battente, un trionfo delle omofonie: «Ah cjâr frut, al coste cjâr un cjâr di cjâr di cjare in Cjargne» [Ah caro bambino, costa caro un carro di carne di capra in Carnia], «File ’e file in file» [Filomena fila a veglia], «– Us dói dòi ûs sul ùs, come ch’al è ûs, uso? – Se t’ûs!» [– Vi do due uova, sull’uscio, com’è uso, volete? – Se vuoi!]. Un attestato di competenza linguistica formidabile.

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Bibliografia

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