CARNELUTTI FRANCESCO

CARNELUTTI FRANCESCO (1879 - 1965)

giurista, uomo di cultura, docente

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Il giurista Francesco Carnelutti.

Nato a Udine il 15 maggio 1879 e morto a Milano l’8 marzo 1965, è stato un eminente uomo, uomo di cultura e giurista friulano. Non solo non sarebbe corretto sottacere, ma anche ingeneroso nascondere quest’ultimo attributo, se è vero che, come Magda, figlia di C., ebbe a sottolineare in una lettera ad Elio Fazzalari, «il più grande orgoglio di mio padre è stato quello di essere friulano» (Fazzalari, 7). Eminente «uomo» tout court – innanzitutto – del quale non può non essere riconosciuto l’«impegno civile… profuso nella nostra città particolarmente durante il periodo, il lungo periodo del suo tramonto [allorché] egli fu vicino alle classi meno agiate portando alla povera gente oltre che la sua parola il suo aiuto morale e materiale» (Pettoello jr.). Antifascista (con Einaudi, Del Vecchio e Marchesi «insegn(ò) a Ginevra nei corsi promossi da un gruppo di svizzeri per consentire a migliaia di giovani sbandati italiani di proseguire gli studi»: Medail), fu un cattolico convinto, a tale punto da portare con sé il suo credo sia, come si dirà subito, nella sua attiva partecipazione al mondo della cultura, sia nel suo essere l’uomo di diritto che, con Giuseppe Capograssi, dette vita, nel 1948, a quell’Unione dei giuristi cattolici italiani che ha il manifestato «scopo di contribuire all’attuazione dei principi dell’etica cristiana nell’esperienza giuridica» (così, nell’art. 2/1 dello statuto dell’associazione). Ma coniugare la capacità di segnalarsi tra gli uomini per la sua dimensione intellettuale e la pratica della virtù dell’umiltà che il cattolicesimo predica come valore fondamentale, dovette essere, per C., tutt’altro che semplice; tanto da fare scrivere, da chi pure ne loda la maestrìa, che in lui «vi [era], nel divino bisogno di ascendere e nella possibilità di rimanere da solo sulla cima, un sentimento di orgogliosa superbia… [che] rappresentò il maggiore ostacolo ad essere capito ed amato in vita, e [che] probabilmente dopo la sua scomparsa ha allargato il solco» che solo studi postumi hanno «cercato di colmare o di ridurre» (P. Rescigno; da non dimenticare peraltro i quattro volumi degli Scritti in suo onore, editi quindici anni prima della sua scomparsa ed il cui impressionante indice degli Autori dice già tutto, nonché, dopo la morte, ma limitandoci a pochissimi esempi: Settimana di studi, 1967; G. Tarello, 1974, 1977; T. Carnacini, 1979; F. C. a trent’anni dalla scomparsa, 1996; F. Galgano, 2009; U. Romagnoli, 2009). E quell’«orgogliosa superbia» appena ricordata, trova effettivamente più di una conferma in lavori dello stesso C., come quando segnala qualcosa che, oggi, in ben pochi si azzarderebbero a scrivere di se stessi: «… anch’io leggo poco, perché sono un lettore esageratamente attivo, anzi reattivo. ... leggi Al punto, qualche volta, da dover interrompere la lettura e mettermi a scrivere, per uno di quegli stati di pressione cerebrale che procurano le maggiori voluttà della vita del pensiero» (Danno e reato, Padova, 1926, 7). In fondo, non poche, tra le predette caratteristiche dell’uomo C. – oltre al fatto che nel 1946 (data del referendum istituzionale che volle l’Italia repubblica) egli aveva già sessantasei anni e oltre all’attività svolta in ausilio del legislatore, di cui subito si dirà –, contribuiscono a spiegare la sua scelta politica in favore della monarchia, che non fu solo quella dei tanti simpatizzanti di allora, ma tale da portarlo ad essere un esponente di non poco conto dell’Unione monarchica italiana nel secondo dopoguerra. Fu a lui che si rivolsero in prima battuta gli uomini di fiducia di Vittorio Emanuele III, a fine aprile 1946, per la redazione del «proclama» di abdicazione che avrebbe dovuto essere letto insieme a «un atto il ‘più semplice possibile’, accompagnato da una lettera personale rivolta a Umberto», poi “re di maggio” (Sale, 55, ricordando però anche come l’atto disposto da C. non piacque al re). Fu, poi, certo, «uomo di cultura». Infatti la sua opera non è ad uso esclusivo dei soli giuristi italiani, bensì «patrimonio culturale della nazione» (Tommaseo). Parte non trascurabile del suo lascito, inoltre, è costituita da lavori ben diversi da quelli che i giuristi sono usualmente soliti produrre, tra i quali – li si menzionano per tutti – spiccano le Chiose al Vangelo di Matteo (Roma, 1950) e quell’Interpretazione del Pater Noster (Roma, 1941) da leggere e meditare non come «un libro di preghiere, ma [come] un testo di alto valore teologico… un testo di alta poesia e di… francescano abbandono» (Pettoello). Egli fu scelto, nel 1954, per ricoprire la carica di presidente del Centro di cultura e civiltà della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Tra i suoi titoli si trovano lavori di cultura generale spesso poco conosciuti, come – ma non si tratta che di due tra i molti esempi che si potrebbero portare –: Appunti sul valore della musica (Venezia, 1959); La storia e la fiaba (Roma, 1945). Come giurista, C. fu professore universitario di chiarissima fama ed avvocato di altrettanta statura. La sua carriera si compì tra l’Università (allora “commerciale”) Bocconi di Milano (1909-1912) e, una volta in cattedra, quelle di Catania (1912-1915), di Padova (1915-1935, periodo che, a detta di molti tra coloro che bene lo conobbero, coincise con i vent’anni forse più intensi della sua attività) e della Statale di Milano (1936-1946), per chiudersi, infine, alla Sapienza di Roma, tra il 1947 e il 1949. Nacque ed operò, nel mondo del diritto italiano, quando la specializzazione per singole materie non aveva ancora preso il sopravvento sulla preparazione e sullo studio di un’intera branca del diritto; ed egli appunto fu, ancora, un giurista a tutto tondo, ma riuscendo, in molte sue opere, se non proprio in tutte, a non perdere di vista un meditato approfondimento dell’intera branca stessa. Fu «il maestro che nell’ansia inesausta della ricerca ha travolto le paratie stagne che separano i campi della scienza giuridica: nella sua attività… Egli ha preso le mosse dalla materia degli infortuni traendola dalle secche dell’esegesi, per elevarla alla dignità della indagine dommatica; si è rivolto al diritto commerciale e industriale; poi… al diritto processuale civile; al diritto corporativo del quale ha composto il sistema in linee di severa bellezza; …al processo penale… Mai soddisfatto delle mete raggiunte, ognora inteso a costruire più elevati gradini sull’erta della verità, ha sempre mirato a collegare il particolare con il generale, il contingente con l’immanente, talché le note alle sentenze e i saggi particolari si ricollegano sempre alle sue grandi opere sistematiche…» (Scialoja). Dovendo semplificare (e finendo quindi con l’essere giocoforza superficiali), potrebbe sembrare più “comodo”, forse, sostenere che egli fu maggiormente cultore del “diritto privato”, siccome contrapposto al “diritto pubblico”. Ma questo dato, in fondo, non renderebbe pienamente giustizia alla sapienza di C. Egli, infatti, è oggi noto ai più come studioso del processo civile: non a caso fu titolare della cattedra di diritto processuale civile nei suoi anni padovani e milanesi; e non a caso fu co-fondatore, nel 1924, con il grande Giuseppe Chiovenda, della prestigiosa «Rivista di diritto processuale civile» – dal 1946, solo «Rivista di diritto processuale» – di cui fu pure, a lungo, direttore sia da solo, sia condividendo l’onere e con Chiovenda e con Calamandrei (Denti-Taruffo). Ma i non addetti ai lavori spesso ignorano che tutti i settori del diritto che hanno a che vedere con lo studio delle dinamiche processuali appartengono al “diritto pubblico”. Ciò, non solo per ragioni legate alla tradizione, ma perché il processo – qualunque processo – consiste sempre in un insieme di attività svolte (da una porzione dell’organizzazione pubblica che, non a caso, è sempre e solo statale) nell’interesse, pur esso pubblico, della collettività. Fu cultore del diritto privato, ma anche del diritto pubblico e particolarmente nelle branche (come s’è già detto entrambe pubblicistiche) del diritto processuale civile e del diritto processuale penale, al quale ultimo, da lui stesso definito come la «Cenerentola» del diritto processuale, contribuì a dare una maggior dignità. Tra e per tutti, si vedano: La prova civile (Roma, 1915); Lezioni di diritto processuale civile (Padova, 1919-1931 – è particolarmente in esse che l’autore si presenterebbe come un «romantico», a fronte del carattere «classico» che avrebbe caratterizzato Calamandrei e Chiovenda, così com’è in quell’«opera, sistematica per eccellenza, che si è affermata l’originalità, la profondità di quella che doveva essere la costruzione di tutta una singolare vita di giurista» (Trabucchi, VII, nella sua veste di «vecchio scolaro», come scrive lui stesso, ibid., X) –; Studi di diritto processuale (Padova, 1936-1939); Sistema di diritto processuale civile (Padova, 1936-1939); Istituzioni del nuovo processo civile italiano (Roma, 1941); nonché, sull’altro “versante”: Lezioni sul processo penale (Roma, 1946-1949); Questioni sul processo penale (Bologna, 1950), cui vanno aggiunte, postume, le riflessioni contenute in Verso la riforma del processo penale (Napoli, 1963). Senza dimenticare il particolare apporto di C. a “sotto-branche” del diritto processuale, anticipando distinzioni vieppiù valide al giorno d’oggi come, ad esempio, in Diritto dell’arbitrato, in Studi di diritto processuale, cit., IV; o in Funzione del processo del lavoro, ibid.; o in Introduzione allo studio del diritto processuale tributario, ibid.; o in Natura del processo di fallimento e Carattere della sentenza di fallimento, ibid. Cionondimeno, C. non trascurò certo il diritto sostanziale, dedicando ad esso – in una pluralità di materie che lascia stupiti e facendo da precursore a quella che di lì a poco sarebbe diventata sempre più specializzazione per sotto-settori – opere celeberrime come, ma non si tratta che di qualche esempio: in diritto penale, Danno e reato, cit., Teoria generale del reato (Padova, 1933), Teoria del falso (Padova, 1935), Lezioni di diritto penale (Milano, 1943); in diritto civile, Studi di diritto civile (Roma, 1916); in diritto commerciale, Studi di diritto commerciale (Roma, 1917), e particolarmente, quanto ai titoli di credito, Teoria giuridica della circolazione (Padova, 1933), tornando sull’argomento – quattro anni dopo e affermando di avere tenuto nel debito conto le critiche che aveva registrato il primo volume – con Teoria cambiaria (Padova, 1937); in diritto del lavoro, Infortuni sul lavoro (Roma, 1913-1914); Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro (Padova, 1928); in diritto industriale, Studi di diritto industriale (Roma, 1916), con riguardo alla quale materia è opportuno sottolineare come fu proprio l’insegnamento del diritto industriale in quel di Milano che lo portò, come conseguenza quasi inevitabile, ad occuparsi di diritto commerciale, materia di cui fu titolare, una volta in cattedra, a Catania (Gabrieli). Fu dunque cultore sia di diritto processuale, sia di diritto sostanziale, ma anche, e con grande cura ed attenzione, di Teoria generale del diritto, cui dedicò, nel 1940, un corposo volume dall’omonimo titolo, dopo avere già “tastato il terreno”, con Discorsi intorno al diritto (Padova, 1937) e con Metodologia del diritto (Padova, 1939). Si tratta di un’opera definita, da chi coltiva questi temi, come la «più vicina al cuore e all’Intelletto del Maestro» (Scialoja, XIII), «… sconvolgente per fantasia costruttiva e novità terminologiche» (Irti, 236), dalla quale emerge l’«audace volontà carneluttiana di stabilire le fondazioni della scienza giuridica ‘al di là dal diritto’, in una teoria generale della realtà comune a tutti i campi del sapere» (ibid., 238) e che, rispetto a molti degli odierni lavori sul medesimo tema, si caratterizza per un indice singolarmente semplice e lineare: «Introduzione; Dei comandi giuridici; Delle situazioni giuridiche; Dei fatti giuridici…» pur non mancando, ancora una volta, l’emersione di quella punta di autostima che C. non si perita quasi mai di tenere celata: «… Direi che m’è importato piuttosto che scrivere una teoria generale mostrare come potrebbe essere scritta…» (Teoria generale, cit., 1). Per tentare di catalogarne la posizione all’interno del mondo dei giuristi, si può dire che se, per un verso, al «tramonto, egli contemplò la caducità del diritto [la Morte del diritto è del 1953] ed invocò le leggi della morale, della carità, dell’amore, nella vigorosa maturità… propugnò il Primato del diritto [lo scritto è del 1935]…» (Fazzalari, 23). Per altro verso, nella dicotomia tra le correnti in voga all’epoca, degli “imperativisti” e dei “normativisti”, C. si schierò decisamente con i primi, cioè con coloro che concepirono la “prescrizione” «come un comando, ossia un imperativo, che promana necessariamente da un’autorità avente il potere di comandare e crea nel destinatario l’obbligo coercibile di tenere una data condotta ‘commissiva’ o ‘omissiva’ (terminologia desunta da F. Carnelutti… e forse preferibile agli aggettivi ‘positiva’ e ‘negativa’)…» (Pugliese, Diritto, facendo riferimento alla Teoria generale, cit., di C.), contrapponendosi ai secondi per i quali la norma è «l’enunciazione di criteri di giudizio con cui valutare la condotta dei soggetti da essa in astratto contemplati, o come – aspetto sottolineato da H. Kelsen – la determinazione dei presupposti di validità di altre norme da essa dipendenti» (ibid.). «La teoria carneluttiana muove… dalla identità… tra leggi naturali e leggi giuridiche: e, dunque, dal postulato di un ordine eterno, che, a mano a mano, si rivela allo sguardo degli uomini. Il concetto giuridico assume così l’incontrovertibile e necessario valore di una scoperta naturalistica: ‘invenzione’ di una realtà, che l’uomo non crea, ma trova dinanzi a sè come oggetto del conoscere. I diritti storici sono tentativi, ora più ora meno felici, di raggiungere la perfezione dell’ordine eterno… Di qui i motivi dominanti dell’opera carneluttiana…: il ‘naturalismo’, da un lato, onde la figura del giurista è assimilata a quella del botanico o del fisico; il ‘misticismo’, dall’altro, che ricollega l’ordine dei rapporti sociali a fonti divine». Il tutto, ovviamente, non poteva che contrapporsi al cosiddetto «storicismo» che «doveva certo ombrarsi dinanzi all’audace volontà carneluttiana di stabilire le fondazioni della scienza giuridica ‘di là dal diritto’, in una teoria generale della realtà comune a tutti i campi del sapere» (Irti, 237-238, ma anche Coccopalmerio). Processo, sostanza, teoria… ma anche pratica e concretezza, sotto più di un punto di vista e da angolature diverse. Nel 1926 C. fu, dopo Giuseppe Chiovenda (nel 1920) e Lodovico Mortara (nel 1923), autore di un proprio Progetto per il Codice di procedura civile… (più ispirato alla visione di Mortara che a quella di Chiovenda). Non se ne fece nulla di ufficiale, ma il Nostro sarà comunque, qualche anno più tardi, con Piero Calamandrei e Enrico Redenti, uno degli ispiratori del Codice entrato in vigore nel 1940 (alla fine, invece, risultato più vicino all’ispirazione di Chiovenda che a quella di Mortara): sul quale, infatti, in fase di “istruttoria”, scrisse le sue osservazioni Intorno al progetto preliminare del codice di procedura civile (Milano, 1937). Sul fronte della pratica dell’avvocatura e per descriverne la grandezza nella veste di patrocinatore, basta ricordare, per un verso, come uno studio legale Carnelutti, «fondato nel 1899», esista ancora oggi, con eredi del Maestro tra i soci che hanno riunificato sotto la stessa ditta i due originari studi di Roma e Milano di cui C. fu fondatore e titolare; per altro verso, come la sua regione di nascita abbia voluto intitolargli la Scuola forense, costituita dai consigli degli ordini degli avvocati di Udine, Trieste, Gorizia e Tolmezzo, ed infine rilevare come venne affidata a lui la redazione della voce Avvocati e procuratori, nell’Enciclopedia del diritto (Milano, IV, 1959). Per collegarne la dimensione all’epoca in cui si trovò ad operare, è sufficiente citare solo alcuni celeberrimi “casi” del tempo, che lo videro protagonista nei relativi processi. Fu patrocinatore delle ragioni della signora Canella nel celebre caso del disperso nella prima guerra mondiale, più noto come lo “smemorato di Collegno”, nonché difensore, dopo la seconda guerra mondiale, di Rodolfo Graziani (maresciallo d’Italia, viceré d’Etiopia, capo di Stato maggiore dell’esercito, governatore della Libia e ministro della Difesa nazionale nella RSI); del filosofo, saggista ed intellettuale della destra italiana Julius Evola, assolto, nel 1951, dall’accusa di apologia del fascismo e di essere stato l’ispiratore ed il “cattivo maestro” del gruppo Fasci di azione rivoluzionaria; di Piero Piccioni (figlio di Attilio, già ministro di Grazia e giustizia e degli Esteri, nonché segretario della DC), assolto, nel 1957, dall’imputazione di omicidio colposo per avere quantomeno contribuito a lasciare morire, sulla spiaggia di Tor Vaianica, la giovane Wilma Montesi, dopo un “festino” finito male; di Giovanni Fenaroli, condannato all’ergastolo, nel 1961, come mandante dell’omicidio della moglie, Maria Martirano, materialmente eseguito da Raoul Ghiani, ecc. (si veda: C., Controvento…). C. trovò nella professione un logico, naturale completamento della sua opera di studioso, quando non, addirittura, gli spunti che gli consentirono di approfondire i suoi studi, se, già nel 1935 (con un’osservazione che valeva allora, come vale oggi) «prendeva… di mira l’astrattezza del modo con cui s’insegna la giurisprudenza all’Università. Il tono è quello beffardo e impertinente usato da Molière per il Malato immaginario. Anche se, paradossalmente C. rovescia le parti e dal confronto con il medico ‘vivo’ trae lo spunto per stigmatizzare il giurista ‘immaginario’ o, come diremmo noi oggi più precisamente, ‘virtuale’ allevato in Facoltà… ‘Se non vi hanno provveduto da sé [diceva e poi scriveva Carnelutti] i nostri discenti diventano dottori senza aver mai veduto un caso vivo del diritto. Noi insegniamo loro qualcosa che somiglia alla fisiologia o alla patologia: comincio ad essere meno certo che vi sia tra i nostri insegnamenti uno che corrisponda al concetto dell’anatomia: in ogni modo alla clinica è fuor di questione che non si pensa nemmeno’» (Gentile, Clinica del diritto, riportando brani del discorso di C. sul Primato del diritto, cit., tenuto nel corso dell’adunanza solenne dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, nel 1935). Per C., una «sentenza e una difesa, a guardarle dal di fuori, son fatte su per giù allo stesso modo; una difesa non è altro, in fondo, che un progetto che il difensore non fa per sé, sebbene per il giudice; e bisogna farglielo preferire a un progetto diverso… In due parole, per il difensore la questione non è tanto di capire quanto di far capire…» (Arte del diritto, Padova, 1949, 65). «Un codice somiglia dunque a una partitura? […] Invece di sorridere, bisogna riflettere. Le note musicali, al profano che le osserva, non dicono nulla. Ma anche di un articolo del codice è la stessa cosa. Un uomo non è che una storia. Il fratello affonda il pugnale nel petto del fratello. E prima? E dopo? Chi era l’uccisore? E chi l’ucciso? Due storie. ‘Chi uccide un uomo’ implica tutto il problema del passato. E come la nozione del delitto implica il problema del passato, così la nozione della pena apre il problema del futuro…» (Arte del diritto, cit., 56 s.). «Il pericolo… è quello di scambiare i concetti con i fenomeni; ed è determinato da ciò che i maestri di diritto… i fenomeni non li hanno sottomano. Allora si corre il rischio di credere… che il contratto… sia un’astrazione. No, perdio! Diritto è un parlamento, un tribunale… una casa di pena, due uomini che contrattano, che litigano, che si uccidono. Bisogna toglier dalla mente dei giovani che si tratti di qualcosa che sta racchiuso nelle formule misteriose dei codici e non si vede e non si tocca. Io mi ricordo che difficoltà e che delusione è stata questa per me, quand’ero sui banchi della università; e avevo la impressione di trovarmi fra le nuvole. No, dico. Noi non abbiamo da fare con la realtà meno che i medici o gli ingegneri…» (Sistema di diritto processuale civile, cit., I, V). In definitiva, C. non fu un grande professore universitario che praticò – come spesso accade ancora oggi – “anche” l’avvocatura, ma uno studioso che vide nel diritto un insieme di studio, ricerca, insegnamento, pratica, opera nelle e per le istituzioni…: che vide, cioè, nel diritto un’arte, praticandolo come tale. Non fu «processualista, nè privatista, nè commercialista, [fu] tutto» (Pera, riportando il pensiero di Allara): elogio, questo, che C. però rifiutò… ma alla sua maniera: «qualche tempo fa [disse] anche il regnante pontefice mi disse qualcosa di simile ed io risposi ‘Non mi tenti, Santità’» (ibid.).

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Bibliografia

Bibliografie (parziali) di F. Carnelutti in: Scritti giuridici in onore di Francesco Cargnelutti, I, Padova, CEDAM, 1950, XVII s.; F. P. GABRIELI, C. F., in Novv. Dig. it., II, Torino, UTET, 1964, 959, cui vanno aggiunti, se non altro perché citati nel presente testo, ma non nei predetti volumi: F. CARNELUTTI, Avvocati e procuratori, in Enciclopedia del diritto, IV, Milano, Giuffrè, 1959, 644 ss.; ID., Appunti sul valore della musica, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 1959; ID., Il primato del diritto, «Atti Ist. Ve.» (Parte generale), 94 (1934-1935), 99-113; ID., Controvento. Contiene sette arringhe in difesa di Piccioni, Fenaroli, Farinacci, Graziani, lo sconosciuto di Collegno, Marcianò, Evola, Napoli, Morano, 1962; ID., Verso la riforma del processo penale, Napoli, Morano, 1963.

Scritti giuridici in onore di F. C., I-IV, Padova, CEDAM, 1950 (nei quali, tra gli altri, SCIALOJA, I, XIII s.); F.P. GABRIELI, C. F., in Novissimo Digesto italiano, II (Az-Cas), Torino, UTET, 1964, 959; Settimana di studi giuridici in onore di F. C., a cura di N. MANGINI, Firenze, Sansoni, 1967; N. IRTI, Problemi di metodo nel pensiero di Francesco Ferrara, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1 (1972), 229-241; G. TARELLO, Profili di giuristi italiani contemporanei: Francesco Carnelutti e il progetto del 1926, in Materiali per una storia della cultura giuridica, IV, Bologna, il Mulino, 1974, 497-524; ID., Carnelutti, Francesco, in DBI, 20 (1977), 452-456; T. CARNACINI, Il centenario della nascita di F. C., «Riv. ... leggi dir. proc.», (1979), 15 s.; G. TRABUCCHI, Presentazione, in F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, ristampa anastatica, I, Padova, CEDAM, 1986, VII-X; V. DENTI - M. TARUFFO, La rivista di diritto processuale civile, in Riviste giuridiche italiane (1865-1945), «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 16 (1987), 631-664; D. COCCOPALMERIO, F. C. Il realismo giuridico italiano, Napoli, E. S. I., 1989; Francesco Carnelutti a trent’anni dalla scomparsa. Atti del convegno (Udine, 18 novembre 1995), Udine, Forum, 1996 (nel quale, tra gli altri, E. FAZZALARI, Saluto, 7; F. TOMMASEO, Saluto, 15; M. PETTOELLO JR., Saluto, 17-18; E. FAZZALARI, F. C. teorico generale, 23-28; P. RESCIGNO, F. C. e il diritto privato, 47-57; G. PERA, F. C. giuslavorista, 103-106); C. MEDAIL, Einaudi: amaro prezzo della libertà, «Il Corriere della Sera», 10 agosto 2000; G. PUGLIESE, Diritto, Parte II, § 15, sub a), in Enciclopedia delle scienze sociali, III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1993, 34-77; G. SALE, Dalla monarchia alla repubblica. Santa Sede, cattolici italiani e referendum (1943-1946), Milano, Jaka Book, 2003; F. GALGANO, Ritratti di giuristi italiani: F. C., «Contratto e impresa», 3 (2009), 765 ss.; U. ROMAGNOLI, F. C., giurista del lavoro, «Lavoro e diritto», 3 (2009), 373-401; F. GENTILE, Clinica del diritto, in www.filosofiadeldiritto.it/materiale%20per%20nuovi%20numeri/quarto%20c odicillo.htm.

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