DELLE RIVE ANGIOLETTA

DELLE RIVE ANGIOLETTA (1570 - 1651)

popolana pordenonese inquisita

Immagine del soggetto

Registro degli atti dell'Inquisizione di Aquileia e Concordia, 1646 (Udine, Archivio curia arcivescovile).

Nacque a Pordenone probabilmente intorno al 1580. Si sposò a diciassette anni con Giacomo del Gniutto detto “delle Rive”, pescatore sul Noncello, dal quale ebbe tre figli; restò vedova dopo trentadue anni, probabilmente intorno al 1630. Nella sua esistenza praticò numerose attività: fabbricava reti per i pescatori, filava la lana per conto dei mercanti pordenonesi, faceva «bozzolai per vendere», «governa[va] gl’ammalati per mercede», aiutava le donne a partorire, prestava servizio presso una delle famiglie Amalteo. Sembra fosse particolarmente abile nella cura degli ammalati, cui si dedicava utilizzando erbe e sistemi terapeutici empirici e tradizionali. Raccoglieva la camomilla, l’iperico (erba di san Giovanni), l’erba della scrofola; utilizzava oli e polveri che faceva comprare dallo speziale, raddrizzava le ossa. Accompagnava le sue azioni con formule rituali, quasi ad invocare l’intervento divino sui propri gesti. Dopo la morte del marito, la sua condizione economica sembra fosse decisamente peggiorata, tanto da farla inserire nel 1649 e nel 1650 tra i meritevoli della “limosina” del Pio Hospitale di S. Maria. Nel febbraio del 1650 A. venne denunciata a Francesco Loredan, provveditore e capitano di Pordenone, con l’accusa di maleficio ai danni della moglie del cavaliere pretorio. L’ufficiale veneziano istruì nei confronti della vecchia vedova un «processetto» che inviò in seguito all’inquisitore per le diocesi di Aquileia e Concordia, il francescano Giulio Missini (in carica tra 1645 e 1653). Nel settembre dello stesso anno, l’inquisitore avviò il procedimento nei confronti di A. con l’esame di trentasei testi, che si concluse con la incarcerazione sua e della figlia Giustina. In quel mese sfilarono davanti al giudice testimoni di diversa estrazione sociale, popolani, borghesi, il medico Giovanni Pomo, esponenti del clero, che espressero le loro opinioni sulla donna. ... leggi Tratto comune alla maggior parte delle testimonianze era la fama che correva sulla vedova, considerata strega dai concittadini. Nessuno di loro si era però mai recato a denunciarla, quasi a non rompere un ideale circuito di solidarietà in cui anche la strega è inclusa. A., invece, pur consapevole della cattiva fama che la circondava, non si riconosceva nella nomea assegnatale e si reputava anzi buona cristiana. Ancor meno si identificava nella categoria alla quale la voleva ricondurre il giudice di fede; in sette interrogatori, tra settembre e ottobre del 1650, mentre era detenuta nelle carceri patriarcali di Udine, Giulio Missini cercò di arrivare alla confessione della donna di essere strega e di saper intervenire sui malati perché aveva stretto un patto con il diavolo. A. si sentiva lontanissima da tale concezione che assimilava streghe e guaritrici ad inviati del demonio; riaffermò, al contrario, la sua capacità terapeutica come abilità personale, acquisita con l’esperienza e la frequentazione di altre donne. Questo scontro ideale venne risolto dalla morte dell’imputata, il 4 gennaio 1651 per «dolori colici». In carcere restò l’imputata di minor conto, la figlia Giustina, che sarebbe stata rilasciata il 14 febbraio con l’impegno a «vivere da buona christiana, non medicare, né segnare come faceva mia madre».

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Bibliografia

ACAU, 1313/97.

O. LAZZARO, Le amare erbe. Un processo di stregoneria nel Friuli del Seicento: il caso di Angioletta e Giustina Delle Rive, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 20072.

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