ELLERO PIETRO

ELLERO PIETRO (1833 - 1933)

giurista, amministratore pubblico, docente universitario

Immagine del soggetto

Il giurista Pietro Ellero (Udine, Civici musei, Fototeca).

Nacque a Cordenons (Pordenone) l’8 ottobre 1833, da Sebastiano e Anna Poletti, in una famiglia cattolica e benestante. Studiò diritto e politica presso l’Università di Padova dal 1851 al 1855. Fu per alcuni mesi praticante presso il tribunale di Venezia e poi “ascoltatore” presso la corte d’appello di Udine. Nel biennio 1857-1858 studiò storia a Padova, dove conseguì il titolo di dottore in legge il 23 dicembre 1858. Nel 1858 pubblicò la sua prima opera, Della pena capitale, con la quale prendeva apertamente e decisamente posizione contro la pena di morte. Il lavoro destò nell’autorità austriaca il sospetto di perturbare la tranquillità pubblica, ma il procedimento investigativo fu chiuso con un pieno proscioglimento in meno di un anno; nel 1860 poté uscire una seconda edizione a Venezia, procurando all’autore il riconoscimento della medaglia d’oro del re di Sardegna e la cittadinanza dello Stato sardo. Il libro fu l’inizio di un intenso attivismo abolizionista che indusse E. a fondare nel 1861 il «Giornale per l’abolizione della pena di morte», da lui diretto fino all’estinzione nel 1865. L’impegno abolizionista portò all’attenzione internazionale il nome di E., procurandogli contatti accademici e scientifici in tutta Europa. Nel frattempo, E. continuò l’attività pubblicista nel campo penalista, con Della critica criminale del 1860, e iniziò la carriera accademica tenendo, nel 1860, il corso di filosofia del diritto presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano. Nel 1861 iniziò il magistero presso l’Università di Bologna, dove divenne ordinario di diritto penale nel 1962. A Bologna trascorse tutta la propria carriera accademica, che si concluse nel 1880 con il conferimento del titolo di professore emerito. ... leggi Nel corso degli anni, E. aveva tentato di trasferirsi a Padova e a Roma, ma senza successo. La sua carriera scientifica gli diede comunque considerevoli soddisfazioni: si affermò come penalista a livello internazionale, tanto che versioni spagnole di sue opere divennero testi fondamentali di riferimento nella disciplina. Nel 1868 fondò la rivista «Archivio Giuridico», con l’intento di continuare l’esperienza positiva del «Giornale» in una prospettiva più generale. Nel 1869 però, prostrato per la perdita della moglie, cedette la direzione della nuova rivista al collega Filippo Serafini. La sua carriera accademica si interruppe in giovane età poiché nel 1881 fu nominato membro della Cassazione, carica che tenne fino al 1890, quando fu nominato consigliere di Stato. Parallelamente alla carriera accademica e a quella nella magistratura, E. intraprese quella politica. Nel 1866, in seguito ad un’accesa e combattuta campagna elettorale, fu eletto deputato per il collegio di Pordenone, Aviano e Sacile. Il risultato fu confermato nelle elezioni che si tennero nell’anno successivo. L’esperienza nelle istituzioni politiche però si dimostrò deludente: la corruzione, che tradiva ai suoi occhi tutti gli auspici che avevano accompagnato nel suo cuore il processo di unificazione d’Italia, lo indusse a minacciare le dimissioni e lo portò infine a rassegnarle, pur di non scendere a compromessi con il sistema che si stava realizzando. Si candidò nuovamente nelle elezioni del 1882 presso il collegio di Padova, ma non fu eletto. Tornò alla politica attiva solo nel 1889, quando fu nominato senatore del Regno. Nel corso degli anni fu membro di varie commissioni legislative. Numerose le onorificenze che ricevette: cavaliere e poi ufficiale dell’ordine Mauriziano, commendatore della Corona d’Italia, cittadino e patrizio della Repubblica di San Marino. Morì a Roma il 31 gennaio 1933. Le tre facce dell’attività di E. (docenza, magistratura, politica) sono aspetti diversi di un unico impegno sociale, culturale, politico e civile, il cui senso è però difficile da decifrare. La critica, infatti, ha rimarcato che la sua attività fu caratterizzata da tratti difficilmente conciliabili tra loro e in certi casi perfino contraddittori. Sul piano politico, per esempio, l’impegno abolizionista faceva pensare ad una propensione riformista, ma durante la campagna elettorale del 1866 dovette difendersi dalle accuse di essere un «ministeriale sfegatato», un clericale e, addirittura, «quasi un codino». Ma il giudizio della critica va al fondo dottrinale della sua produzione scientifica, del quale l’attività politica fu forse un’applicazione. Non è possibile abbozzare un’interpretazione e una valutazione del suo pensiero, ma si possono almeno indicare alcuni esempi di tensione teoretica. Circa il fondamento dell’obbligazione giuridica, E. sembra ricondurre la sorgente della norma ad un ordine voluto da Dio, al quale l’uomo deve sottostare: per il dritto, dice, «qualsivoglia fatto arbitrario umano è nulla», in quanto la ragione umana, «ispirata e fissa in quell’Ente che di luce immortale la irradia, proclama: uomini e popoli, fin qui potete e non oltre» (Della filosofia del diritto, 8); inoltre afferma che il diritto necessariamente trionfa contro la «bruta forza» e «attua quasi a malgrado de’ perversi o fiacchi voleri umani l’ordine provvidenziale nella storia» (ibid., 11); crede «che la società perché voluta da Dio, sia per esso fornita di diritti e di doveri» (Della pena capitale, 9); ritiene che i patti sociali «deggiono rinvenire il fondamento giuridico in un principio indefettibile. Si può cioè stipulare patti che sieno giusti, ma tali sono perché all’eterna giustizia uniformansi, non perché patti soltanto. Avvegnaché il diritto sorge non dalla convenzione, ma dalla giustizia su cui ella s’adagia» (ibid., 17). Sorprendentemente rispetto a queste premesse, però, subito dopo avvalla un’esplicita tesi volontarista: «all’uomo individuo, come tale considerato e come socio, [la legge] non può comandare la virtù; non può allo spirito immortale imporre un giogo» (ibid., 31). La conciliazione di queste due tendenze opposte è tentata con risultati poco convincenti in La questione sociale, dove E. propone una ripresa di Rousseau che cerca di superare le obiezioni classiche contro l’irrealtà dello stato di natura introducendo una distinzione tra l’origine storica della società nel patto sociale, coerente con il volontarismo, e la fondazione giuridica della società, dipendente da un ordine eterno e, quindi, non volontaristica. Dal punto di vista politico, E. sostiene ripetutamente che quattro siano i pilastri fondamentali e irrinunciabili della società: proprietà, famiglia, stato e culto. Sostiene che sono istituzioni «sacre», depreca il «giacobinismo» e le continue violazioni del «principio d’autorità» e delle «abitudini» (La questione sociale, 9), ma poi non sa dare ragioni a favore delle quattro istituzioni, se non intricate e poco attendibili dimostrazioni storiografiche che non offrono alcuna prova razionale. Inoltre, quando in L’eclissi dell’idealità vuole difendere questi principi dall’attacco del materialismo e del positivismo, ammette lo scacco della ragione, dopo una veloce e fragile ricognizione degli esiti della metafisica, che a lui paiono fallimentari. In religione si dice seguace di quella cattolica e della necessità del suo riconoscimento politico; è contrario agli attacchi portati dalle sette e dal protestantesimo; ma allo stesso tempo mantiene un tono fortemente anti-clericale ed antiromano, auspicando una Chiesa dal basso, e sostenendo il basso clero contro la gerarchia; il suo è un cristianesimo ridotto a sentimento di fratellanza universale e spogliato di tutti gli elementi soprannaturali, che reputa al pari di superstizioni; aderisce al cattolicesimo perché vede in esso l’erede vivente della religione romana, che ne ha assorbito e mantenuto alcuni aspetti formali e sociali: è verso la religione romana, con i suoi risvolti civici e politici, che si concentra il suo vero interesse; ma, ancora una volta, gli argomenti sono dubbie ricostruzioni storiche, che stentano a trovare un sostegno razionale. “Liberale conservatore”, “socialista conservativo”, “antisocialista”, “incunabolo del socialismo giuridico”, “caposcuola del giuspostivismo”: queste alcune delle etichette con cui è stato definito. “Liberale conservatore” è forse quella meno parziale, in quanto meglio dà conto della sua adesione ad una concezione volontarista dell’uomo, pur nel tentativo di collocarsi nella tradizione per rispondere ad un sentire che non riesce a trovare piena fondazione filosofica. Si può dire che il cuore di E. fosse conservatore, ma che, a causa di una certa refrattarietà alla metafisica, non riuscisse a fondare razionalmente le posizioni che voleva sostenere, finendo per abbracciare principi ad esse contrari. Il suo sentire, d’altra parte, lo fa un osservatore acuto e attento del suo tempo. Al di là della forma ampollosa e retorica della sua prosa, per questo criticata in patria e all’estero, E. suscita interesse soprattutto per le sue analisi dei mali della politica della sua epoca, che sono divenuti evidenti in quelle successive. Lui era stato un ardente sostenitore del Risorgimento, che intendeva come rinascita della tradizione civica, comunale, religiosa, culturale e artistica italiana; in La tirannide borghese, tuttavia, esprime la delusione per il risultato che si è effettivamente raggiunto. La soggezione culturale al mondo anglosassone e il conseguente trionfo di principi utilitaristici che pongono il risultato economico come fine ultimo dell’azione sono riconosciuti da E. come le radici della corruzione politica, del settarismo, della conflittualità sociale, dello scempio delle istituzioni, della crisi di rappresentatività che caratterizzano la società borghese e che sono premesse che conducono necessariamente a una svolta socialista. La scoperta di questo nesso tra capitalismo borghese e socialismo, che si fonda sull’assunto, comune alle due posizioni, della riduzione dell’azione dell’uomo alla ricerca dell’utile, è l’eredità più interessante e vitale del giurista. Che non abbia colto che la radice del primato dell’utile sta proprio in quel volontarismo a cui lui stesso aderiva spiega forse perché si sia stupito nel rendersi conto che il Risorgimento aveva gettato le premesse di quella che lui chiamava tirannide borghese.

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Bibliografia

P. ELLERO, Della pena capitale, Venezia, Tip. del Commercio, 1858; ID., Della filosofia del diritto. Prelazione alla Accademia scientifica Letteraria di Milano nel dì 9 febbraio 1861, Milano, Tip. F. Vallardi, 1861; ID., La questione sociale, Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1874; ID., Opuscoli criminali, Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1874; ID., Trattati criminali, Bologna, Zanichelli, 1875; ID., La riforma civile, Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1879; ID., La tirannide borghese, Bologna, Zanichelli, 1879; ID., La sovranità popolare, Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1886; ID., L’eclissi dell’idealità, Bologna, Zanichelli, 1901.

T. TESSITORI, Storia del movimento cattolico in Friuli 1858-1917, Udine, Del Bianco, 1964; N. DELL’ERBA, Pietro Ellero e la ‘dottrina della classe politica’, in Il positivismo e la cultura italiana, a cura di E.R. PAPA, Milano, F. Angeli, 1985, 299-305; C. VANO, Ellero, Pietro, in DBI, 42 (1993), 512-520; Pietro Ellero un grande pordenonese nella cultura giuridica, sociale e politica dell’Ottocento. Atti del convegno di Pordenone 26 novembre 2005, a cura di A. CASETTA, Pordenone, Comune di Pordenone, 2007.

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