PERCOTO CATERINA

PERCOTO CATERINA (1812 - 1887)

scrittrice, letterata

Immagine del soggetto

Caterina Percoto, ritratto dello studio Rovere e Madussi, 1875 ca. (Udine, Civici musei, Fototeca).

È già indizio di una personalità poco arrendevole, poco accomodante, il fastidio manifestato in una lettera del 1866: «Non amo poi niente affatto e schiettamente glielo dico ch’Ella scriva la mia biografia. Che potrebbe dire di me? Nata nel tal’anno, vissuta in campagna fino al tal’altro, educata in convento, poi fatta la prima comparsa nel mondo in una città di provincia, poi di nuovo in campagna, ecc. Tutte cose che non possono per niente interessare il signor pubblico, il quale se crede può leggere i miei scritti. Io l’ho colle biografie! sento che una volta o l’altra romperò una lancia contro questi signori che vogliono mettere in piazza i dolori e le gioie dei poveri diavoli che hanno qualche celebrità». Luigia Codemo, destinataria della lettera, che nel carteggio dà saggio di un entusiasmo quasi indiscreto, così lontana dalla P., che è riservata e dignitosamente cortese, ma anche stanca e comunque poco coinvolta, sarà in parte responsabile di questo mancato avallo. Nella P. è però genuina l’avversione, una sorta di arroccamento, «contro questi signori che vogliono mettere in piazza i dolori e le gioie dei poveri diavoli che hanno qualche celebrità», in una scrittura che pure offre nitidi agganci autobiografici nell’incompiuto Giornale di mia zia ed è ancora più esplicita la chiave privata nelle Memorie del convento, ora in appendice a Le umili operaie. La P. nacque a San Lorenzo di Soleschiano (Udine) il 19 febbraio 1812 da Antonio (casato di antica nobiltà, ma di non solida consistenza patrimoniale) e da Teresa Zaina (di non altrettanto tersa genealogia). Alla morte del padre, nel 1821, la famiglia si trasferì a Udine e, a nove anni, la P. fu affidata all’educandato di S. Chiara: una disciplina e una assenza di calore che non depositarono tracce grate. Le Memorie si svolgono nel recupero degli anni primi con la libera cornice della natura: «Dopo la morte del padre mio, correre a piedi delle colline o sulle sponde del torrente, perdermi nel folto delle biade, vivere di solitudine e di fantastici pensieri, era la sola consolazione ch’io trovassi a quel primo dolore che mi ricordo aver sentito assai profondo. ... leggi Ma questa vita selvaggia e quasi abbandonata non poteva durare». Le Memorie non tacciono i giorni oppressi, la maglia velenosa del sussiego, con urticante ragnatela verbale: «Io che dal lato della madre puzzavo almeno per un quarto di sangue plebeo (mia madre era figlia di un fattore e di una gentildonna che lo aveva sposato in secondi voti) fui accetta con molta difficoltà e in seguito ben mi avvidi che non era possibile che mi perdonassero cotesta macchia originale». Glissano per contro sull’esito di un amore contrastato: per un giovane ebreo, se non è ricostruzione fantastica, sulla base fragilissima di spie interne a uno dei racconti. La P. rinunciò a formarsi una famiglia, a denunciare una autonomia appuntita e non placata. Del 1829 è il rientro a San Lorenzo nell’assillo delle difficoltà: una madre querula da assistere, fratelli (e poi nipoti) da crescere, una economia domestica (anche minuta) da seguire con avvedutezza (e con intelligente apertura alle novità tecniche). Con l’unica risorsa dello studio delle lingue e della lettura: itinerari della mente, un risarcimento risolto nell’interiorità. Del 1847 è l’esperienza (non proficua: la grande città frastorna) di un viaggio a Vienna e risolutivo nel 1848 è il precipitare degli eventi politici: la rivolta e la repressione dura della rivolta. Nel 1852 morì il fratello Costantino, nel 1854 la madre, confinandola nel disagio di ristrettezze ancor più marcate. Ma gli anni che seguirono, sofferti per una salute precaria (scompensi cardiaci, disturbi alla vista, il tormento dell’artrite, che alla fine avrebbe negato l’esercizio stesso della scrittura), furono anche i più movimentati. Nel 1856 la P. fu a Torino, ospite di Marianna Antonini, dove ebbe modo di intrattenersi con Niccolò Tommaseo e di assistere ad alcune sedute del parlamento. Nel viaggio di ritorno sostò a Milano, cementando il rapporto con Carlo Tenca e familiarizzando con Carlo Cattaneo, Teobaldo Ciconi, Ippolito Nievo, ma dove il salotto letterario della contessa Maffei alimentò la sua ritrosia e la sua distanza. Nel 1861 fu a Firenze, dove stabilì altri legami: Gino Capponi e Raffaele Lambruschini, a rincalzare l’opzione pedagogica. Nel 1867 a Udine incontrò Garibaldi. L’anno dopo respinse la direzione del collegio Uccellis, il vecchio Istituto di S. Chiara, ma nel 1871 il ministro Cesare Correnti la nominò ispettrice degli educandati veneti, compito al quale poi si sottrasse. Dei primi anni Settanta è una triste catena di lutti: del dicembre 1871 il cappellano di San Lorenzo Pietro Spitz (nel 1859 era scomparso Pietro Comelli), del gennaio 1873 Francesco Dall’Ongaro, del 1874 Tommaseo. La P. si spense a San Lorenzo il 15 agosto 1887 e fu sepolta a Udine accanto a Zorutti: un gesto simbolicamente rilevato, che non assecondò la volontà della P., più dimessa e coerente con l’arco dei suoi giorni, sgranati a contatto con il mondo contadino. L’esordio, del 30 marzo 1839, è nel cerchio della filologia: una critica severa ad Andrea Maffei, traduttore di alcuni scampoli della Messiade di Klopstock, nella quale «si avverte il carattere forte e quasi altero» (Comelli) della P., ma che mette in luce una robusta competenza linguistica e un sano puntiglio nell’analisi. La vicenda ha sapore di romanzo: a ospitare lo scritto è «La Favilla», ma dell’invio alla rivista triestina, all’insaputa dell’autrice, sarebbe stato responsabile don Pietro Comelli. Un aneddoto poco credibile, tessera di una storiografia che della P. ha impresso una immagine tutta modestia e castigatezza. La P. su Maffei torna ancora (10 aprile 1839) con mano inflessibile, fornendo in seguito di Klopstock anche traduzioni proprie in prosa. A completare il paragrafo dell’esordio (e degli interessi che lo connotano) si aggiunga il Riscontro di un passo dell’Ariosto con una delle «Eroidi» di Ovidio (1 marzo 1840), a dimostrare altra competenza linguistica e una finezza che non trovano spiegazione nel curriculum scolastico e nelle sue angustie. Sulla «Favilla», instauratosi un filo solido di stima e di amicizia, compaiono via via pagine notevoli: da San Giovanni Battista (11 luglio 1841) a Il pazzo (15 marzo 1842), da Adelina (16 marzo 1844) al Martirio di S. Filomena (di Giuseppe Filippini, nella parrocchiale di Tricesimo, 5 luglio 1844), a Lis aganis di Borgnan (1 marzo 1846), primo brano friulano a stampa. E inoltre, memorabili e decisivi nella bibliografia, Il refrattario, La festa dei pastori, Reginetta, Maria, Un episodio dell’anno della fame, Il vecchio Osvaldo, Pre’ Poco (qui Biografia), e un anticipo di Lis cidulis, poi in volume patrocinato dalla rivista. Ma anche il passaggio dalla scrittura a suo modo accademica alla narrativa si colora di leggenda. A sollecitare la P., con caparbietà, è Dall’Ongaro, un po’ scettico che quegli esercizi “seri” fossero dovuti a mano femminile. Le lettere documentano l’opera di persuasione: «Vuole un consiglio amichevole? Lasci stare per un breve intervallo la filologia, le traduzioni e le critiche. Scenda nel suo cuore. Ella deve averlo assai bello e caldo, se io guardo agli occhi suoi che ho sempre presenti. Mi dia qualche frutto della sua meditazione intima! E poi ritornerà ai suoi soliti studii…» (2 marzo 1840); «Io voglio altri argomenti da lei – non critici – lasci la critica ai nostri cuori indurati – ma ascolti ne’ suoi scritti la ingenua voce del suo…» (5 maggio 1840); «Lasciate parlare il cuore, e l’ingegno sarà più bello, e darete alla letteratura qualche pagina, che i letterati uomini e le donne letterate non sanno dare…» (12 novembre 1841); «Datevi al descrittivo: al dialogo: non vi sgomenti la difficoltà di quest’ultimo; non ricercate; lasciate correr la penna: studiate i caratteri sul vero: spargete un fiore sulle sventure della vita, per contrapporre qualche cosa d’italiano, alle amare parodie che fanno de’ veri dolori gli ultramontani. Su Caterinuccia! Non farete voi nulla per amor mio?» (11 gennaio 1842). Un assedio di ingiunzioni, una catena folta di nodi affettivi e di suggerimenti: di psicologia e di progetto culturale. Nel 1869, nella premessa ai propri Racconti, Dall’Ongaro avrebbe fornito dell’episodio un ragguaglio circostanziato, con una P. renitente e scontrosa: «Ringraziando la mia incognita collaboratrice de’ suoi eruditi articoli di critica letteraria, osai pregarla a mutar qualche volta registro; e, poiché aveva l’onore di appartenere al sesso gentile, volesse mandarci qualche scritto da donna. Tre mesi di silenzio punirono l’indiscreto consiglio. Poi, sollecitata a rispondere, mi fece significare che non sapeva indovinare che cosa io intendessi per uno scritto da donna. Invece di scriverle una dissertazione, scrissi e le mandai stampato il racconto sovraccennato [I Complimenti di Ceppo], dicendole, nel miglior modo ch’io seppi, ch’io le davo in mano l’orditura di una tela ch’ella saprebbe tessere e ricamare meglio di me. Nata contessa, e vivendo alla buona cogli abitanti della sua terra, avrebbe potuto, meglio d’ogni altro, descrivere i mille aspetti della natura, i costumi, le tradizioni, le vicende, gli affetti dì quei campagnoli. Dopo un silenzio più lungo, la contessa Caterina Percoto mi mandò il manoscritto della sua prima novella Lis Cidulis…». Pur con qualche strappo alla verità della cronaca, il resoconto regge. E regge la sintesi che definisce a contrasto: «Noi scrivemmo a prova racconti e novelle, dipingendo ciascuno le proprie impressioni, e commentando i fatti cotidiani di cui eravamo testimoni, o che ci arrivavano, comunque fosse, all’orecchio. Io ritraeva più spesso la città co’ suoi vizi; essa la campagna e le sue modeste virtù». Dove «vizi» (la città) e «modeste virtù» (la campagna) addensano pressanti principi di poetica. All’azione di Dall’Ongaro si affianca (su altro fronte, non meno cruciale) il magistero di Tommaseo, nei suoi modi sbrigativi e a volte inclementi: «Oggi è il dì di S. Giovanni, bel Santo, che in carcere dava udienza a Erode re: e intorno a lui certamente in Friuli corrono tradizioni che voi dovete raccogliere. Raccoglietele tutte e anco frammenti di canti…» (24 giugno 1856). E la P.: «In Carnia e qui, cercai indarno finora qualche tradizione popolare sul Battista. Il popolo è ritroso e interrogato, non risponde; vivendo peraltro con lui viene la volta che racconta da se…» (s.d., ma settembre 1856), dove è in solare evidenza un metodo di rilevamento (e una scelta di vita). Ancora Tommaseo: «Finché si vive, si sta bene, com’è vero Dio, il quale, quando ha a finire davvero, ci ammazza. Credetelo a me che non ho luce né d’occhi né di speranze, e poca di mente; e pure dico così, perché cosi è. Raccogliete tradizioni e proverbi e frammenti di canti; e scrivete anco in dialetto cose che il popolo possa leggere…» (6 novembre 1856). Dove, proprio in punta, affiora il nesso cardine: il dialetto, con ovvia intenzione didascalica, come mezzo per arrivare al «popolo». Esiste in merito una lettera della P. magnifica nella arcata ariosa del suo dipanarsi: «Quando mi giunse la sua gentilissima dai 16 Luglio stavo leggendo un raccontino di Emilio Souvestre, Les Dix travailleurs de la mere vert d’Eau – e pensavo come sarebbe bello ed utile se qualcuno dei nostri ad’imitazione di quel simpatico scrittore francese raccogliesse il meraviglioso che sta nelle tradizioni popolari per poi restituirlo al popolo in maniera che servisse ad educarlo. Io credo che gran parte di que’ pregiudizj e di quelle ubbie che sono adesso una piaga della nostra povera gente di campagna in origine derivino da quel bisogno di poesia che ha in generale l’anima umana e in modo particolare la nazione nostra. Impossessarsi di questa poesia per diradare le tenebre dell’ignoranza e con mano dilicata e coll’umile affetto del cuore piuttosto che col rigore dei ragionamenti svolgere quei germi di bene che la natura ha seminato nell’anima forse rozza ma semplice ed ancora intera delle nostre plebi mi parebbe opera altamente sapiente e patriottica…». Dall’Ongaro e Tommaseo sono referenti formidabili, ma la carriera intellettuale della P. si modella a contatto con la realtà aspra della storia. L’insurrezione del 1848 da Udine si dirama alle fortezze di Osoppo e Palmanova. Comandante di Palmanova, inadeguato al compito, è il generale Carlo Zucchi che, il 16 aprile, attacca gli austriaci a Visco. Nella notte tra il 16 e il 17 gli austriaci incendiano Jalmicco (e frazioni adiacenti): è la ritorsione e i bagliori si scorgono dal castello di Udine. La denuncia della P., A Jalmicco nel 1848 (Non una sillaba più del vero), non è elusiva, con l’anafora e la deissi a gremire, in una litania protratta di brutalità: «Dalla finestra della mia camera io ho veduto le fiamme che consumavano questo villaggio e tutte le sostanze dei suoi poveri abitanti; qua e là in diversi punti ho veduto contemporaneamente gl’incendi di altri villaggi ridotti per la stessa colpa alla stessa deplorabile condizione. Udivo le grida efferate e il briaco urlare dei soldati lanciati al saccheggio. Udivo poi più dappresso, sotto le mie finestre, i gemiti dei tapini sfuggiti alla strage con la sola vita e coi bambini in collo, e venuti a cercar ricovero nella mia villetta; udivo dalla lor bocca la narrazione degli orrori di quella notte spaventosa…». Le istanze politiche hanno uno scatto vertiginoso: non si prestano a equivoci racconti come La donna di Osopo e La coltrice nuziale. La coltrice, che dall’incendio di Jalmicco discende, ha ragionamenti non generici sulla famiglia contadina, sulla condizione infelice dei «sottani», e il profilo delle due protagoniste, con i loro sogni, con le loro aspirazioni, morde. Dopo gli anticipi in rivista i racconti italiani furono riuniti in volume nel 1858. Lo precedette una trattativa estenuante e non senza compromessi tra il tergiversare dell’editore Le Monnier, preoccupato per il blocco della censura austriaca (l’indice esclude A Jalmicco), la prudenza di Tommaseo e i più grintosi propositi di Prospero Antonini e della stessa P., ma dei tre tomi previsti solo il primo sarà stampato. Capitale per le fortune critiche la premessa di Tommaseo, che valuta e inquadra: «E anco qui la gentildonna, per divinazione di poeta, si fece più popolo che molti scrittori del popolo stesso non degnino: e non potendo al dialetto toscano, attinse al proprio dialetto, ch’ella scrive con garbo d’artista; e col linguaggio de’ libri lo contemperò come meglio sapeva, meglio però che assai celebrati non sappiano. Sentì per istinto come nel fondo di tutti i dialetti italiani è un che di comune alla nazione tutta; come pensando il friulano pretto ella fosse men lontana dal vero toscano di que’ tanti che toscaneggiano per grammatica, e sfiorettano non co’ Fioretti di San Francesco (più friulani anch’essi e più milanesi e più siciliani di quel che paia), ma col Boccaccio e col Bembo. Non già che qualche o improprietà di linguaggio mezzo erudito o affettazioncella di stile quasi accademico non dia fuori anche qui, ma non frequente così come in altri: e la verità del sentire infondendosi nella schiettezza del dire, è qui tanto più notabile quanto men ricercata bellezza». Tommaseo ragiona dei racconti italiani, dei quali non tace le mende fortuite, ma la censura («Non già che qualche o improprietà di linguaggio mezzo erudito o affettazioncella di stile quasi accademico…») è sfumata, nello schermo delle attenuazioni, mentre per il friulano, «ch’ella scrive con garbo d’artista», il riconoscimento è pieno e senza ombre. Italiano e friulano, negli anelli posteriori della vicenda, si apriranno a forbice, ma in Tommaseo la dicotomia si neutralizza con quella singolare idea di una parentela sotterranea fra i dialetti: idea che è di Cattaneo – e anche di Pacifico Valussi. Alla edizione di Firenze segue, nel 1863, quella di Genova per il periodico «La donna e la famiglia». Editore della P. diventerà poi la milanese Libreria di educazione e di istruzione Paolo Carrara, a dire di un pubblico largo, non soffocato nell’ambito municipale. Lo scorcio conclusivo della scrittura, nell’intersecarsi dei recuperi e delle riprese, si caratterizza per la fascia giovane alla quale si indirizza, con conclamati sottintesi educativi. L’edizione fiorentina non accoglie testi friulani. Li accolgono i due tomi genovesi, distinguendo “leggende” (quattro), “tradizioni” (sette) e “racconti” (quattro), per un totale di quindici segmenti. Il canone peraltro, con un indice di venti titoli, si fissa nel 1928 con gli Scritti friulani allestiti da Bindo Chiurlo, che riassetta la grafia, estirpando incertezze e perplessità, istituendo così una misura “classica”. Il catalogo si espanderà ulteriormente, anche con lacerti di consistenza minima, in un ventaglio più mobile, per merito di D’Aronco e Giacomini. Le pagine friulane si esauriscono di regola nell’universo contadino, salvaguardato in una sua gelosa autonomia, in frizione implicita con la “città”. Il modulo è formalmente enunciativo, adotta una paratassi a bocconi brevi e insiste su una apparentemente neutra determinazione topografica e temporale: sulla immediata identificabilità dei luoghi e quindi sulla iterabilità dei comportamenti, in una sottile strategia persuasiva, che non si esprime con precetti astratti, norme di vita teoriche. Si pensi al ritratto della nuora (La brûd), che si avvale di coordinate riconoscibili, che si cala in una quotidianità tramata di gesti grigi, di sacrificio muto, di subordinazione: un contegno rispettoso per istinto, spontaneo e irriflesso, non frutto di conquista o volontà. Si pensi ancora al ritratto della mugnaia (La mulinarie), che a sedici anni, in seguito a una grande e “romantica” disgrazia (il crollo di un mulino, malandato per l’incuria del padrone, e la morte del padre, nella furia degli elementi), si fa carico del mulino, della madre, dei fratelli, si sposa, resta vedova con cinque figli, provvede ai figli, per morire ottantenne dopo avere perseverato a prendersi cura di tutti. Ma il canovaccio rischia di suonare caricaturale. “Racconti” e “tradizioni” collimano nel raccomandare una vita operosa: stento e sudore subiti senza ribellismi, un destino nel solco della rinuncia. San Marc [San Marco] peraltro abbandona il perimetro dei campi e adotta come quinta una “città”, per suo statuto corrotta, agiata e perciò imbastardita, molle nei costumi e immemore dei doveri, e una “ruralità” interna nella figura dei due “schiavoni”. Conclamata è l’apologia di un regime frugale, e anzi agro, una parsimonia che ha la benedizione celeste. Attila, emblema dell’invasore, è presente nel patrimonio popolare, per quanto il repertorio friulano non trattenga che schegge, cocci di una realtà che si può ipotizzare in origine più ampia, ma non offre traccia di una specifica leggenda di san Marco, pur se la P. la dice di provenienza carnica. La brevità si sposa con una straordinaria nitidezza formale. La stampa di Genova mette a fronte una redazione italiana, servile e insieme autosufficiente, alternativa. Peraltro, nel rendere note “leggende”, “tradizioni” e “racconti”, la P. oscilla tra friulano e italiano: a volte l’italiano si affianca al friulano, altre volte lo surroga, in una veste multipla in rapporto al pubblico da guadagnare, pur se nella stesura italiana è palpabile lo scarto dalla semplicità rustica, per la quale Tommaseo ha evocato spiriti attici: «Freschezza e squisitezze del tutto greche». In una lettera alla Codemo, del 1865, la P. così compendiava il proprio sistema, se sistema si può considerare: «Io non saprei farmi come lei una tela, mettermi per iscopo un punto etc. Mio Dio! Sa Ella come lavora la povera Percoto? Immagino un fatto, prendo sempre dal vero i personaggi che fingo attori, li metto in un paese a me noto, e poi tiro via a correre colla penna come se si trattasse di fare un racconto in conversazione. Ecco tutta l’arte mia e la prego a non ridere né di me né di quelli che mi lodano». Dove in filigrana si scorge uno dei consigli di Dall’Ongaro: «lasciate correr la penna: studiate i caratteri sul vero». Ma gli autografi (e lo stesso copialettere) sono segnati dal fibrillare delle varianti: anche il friulano conosce una ragnatela di esitazioni non sempre decantate. Una officina impacciata e smarrita, un groviglio che smentisce (o ridimensiona) la supposta (e anzi asserita) felicità nativa: l’appagata e tranquilla sicurezza dell’istinto, in antitesi con un italiano informe e affastellato, sciatto e inamabile. Per la critica locale un assioma. Come per Bonini: un italiano «povero» o «adorno academicamente», «qualche volta anzi ci si avverte il dialetto friulano travestito», perché la P. «pensava in friulano, di cui conosceva i più riposti segreti, le più lievi sfumature, e il friulano sapeva elevare, artista fine com’era, alle forme più elette; tanto più che trattava unicamente di ciò che conosceva a fondo, di ciò che sentiva nell’intimo». Con taglio non diverso Chiurlo: «le novelle italiane, anche per la forma, appaiono scritti friulani stesi per isbaglio in lingua, ché lingua e stile sono, da un lato, dominati dal pregiudizio scolastico, così che si caricano ingenuamente per via di frasi accademiche fuor di tono, e persino di qualche ‘lascivia del parlar toscano’; dall’altro si mostrano tutti intrisi di forme friulane e come blandamente corsi da un ritmo sintattico dialettale: cosa questa di cui le va data lode quando, qua e là, riesce ad una fusione dei due elementi; biasimo nella maggior parte dei casi, quando porta a dissonanze», mentre i brani friulani «vanno senza dubbio tra le sue cose migliori, e sono, in ogni modo, i soli perfetti». E Marchetti, in un argomentare peraltro più duttile, rileva «le mende grammaticali e stilistiche derivanti dallo sforzo d’esprimere in italiano – e spesso con affettazioni e vezzi toscani – cose concepite e mentalmente ordinate in sintassi friulana», mentre da «questi difetti vanno pressoché immuni le brevi composizioni friulane», «che sono veri modelli di buona lingua». Ma il giudizio brusco sull’italiano elide la storia degli usi scritti, prescindendo da una fluidità consentita e in atto. A metà Ottocento (e anche oltre) l’univoco (ma flessibile e morbido) paradigma instaurato dalla edizione ultima dei Promessi sposi, la cosiddetta Quarantana, non archivia immediatamente il modello composito della prima edizione, la cosiddetta Ventisettana, che autorizza una escursione anche notevole tra piega letteraria e cadenza dialettale, e che conserva il favore di intellettuali come Cattaneo (o Valussi): è con questo modello (e con una sua vulgata media, magari più accomodante) che la prosa della P. va vagliata. Si osservi ad ogni modo, spia di una personalità vigile e non conformista, una delle Lettere a Marina: «E con lo Spizzi ogni mattina io facevo la mia solita passeggiata sui prati di Soleschiano in riva al torrente dov’erano gli avamposti, e ci trattenevamo ore ed ore a discorrere coi soldati ivi accampati. Che vuoi ch’io ti dica? Noi gente di campagna, avvezzi più che altro a trattare col povero popolo, ci trovavamo con essi più a nostro agio. Ci pareva di passare in rassegna le diverse stirpi della Penisola, le quali, lì riunite nell’esercito, ci davano un’idea dell’Italia futura. E la lingua? Guai a me se il senatore Lambruschini sapesse che io osavo trovar bello quel gergo militare inventato nell’esercito per la necessità d’intendersi, e che mi pareva di vedere in esso quasi un’embrione di quella nuova lingua fusa, che sarà per l’Italia avvenire la sola moneta corrente!». Lo stralcio è splendido per l’atmosfera che evoca (avamposti dell’esercito italiano accampati sulle sponde di un torrente, scambi che si svolgono senza impacci, interminabili, nell’agosto del 1866), per la colloquialità del registro (non ingenuo: il gesto realizza già, nel cerchio basso, non sofisticato, una solida compattezza), ed è splendido per l’acume delle osservazioni: il ruolo dell’esercito nel processo di unificazione linguistica. È «la necessità d’intendersi» il fattore primo, un “gergo” ovviamente remoto da ogni lindore grammaticale, «per l’Italia avvenire la sola moneta corrente». Un aneddoto (e una tesi) che ha il sapore della vita vissuta, ma sono significative le consonanze con idee che Valussi ha elaborato e ribadirà: una lingua nazionale che, pur in debito con il toscano, è tutta da inventare, con il contributo (e lo sbocco imprevedibile) dei dialetti. È in questa luce che va situata l’opera della P., la «contessa contadina», come vuole il fortunato ossimoro di Pacifico Valussi, che pure rischia di alimentare lo stereotipo, proiezione di un mito deviante. Nella P. la fuga dalla città, la campagna intesa come rifugio e risorsa, perimetro comunque più integro e genuino, è opzione consapevole. Consapevole e sofferta: ha il costo di una solitudine vera, che certo non nega il reticolo fitto delle amicizie. Intensa è anche la collaborazione alle riviste: «Le serate delle famiglie», «Le ore casalinghe», «La donna e la famiglia», «Pensieri di donna», «Il giornale delle fanciulle», «La ricamatrice», «La bora», «La concordia», «Il crepuscolo», «Il diritto», «Il fischietto», «Il fuggilozio», «La grinta», «L’istitutore», «Il pungolo», «Il mondo letterario», «La nuova antologia», «Rivista contemporanea», «Il Caffè Pedrocchi», «Giunta domenicale del Friuli», «Il giornale di Trieste», «Rivista europea», in un inventario che schiaccia la trama (o la saltuarietà) dei legami, la convergenza (o la discontinuità) del progetto culturale. Una solitudine greve, ma, pur con malcontenti, con la non taciuta aspirazione a evadere, anche perseguita. La P. intraprende viaggi (a Vienna, Venezia, Torino, Milano, Firenze, forse anche a Roma) e il treno, nuovo mezzo di trasporto, entra nella vita e nell’immaginario. Ma i viaggi non saldano e anzi suffragano fratture e polarità, sancendo e in qualche modo esaltando il contrasto (di diverso avviso Vecchiet che – non senza finezza e puntiglio –, batte su una dinamica non inceppata tra città e campagna, ma il progresso tecnico – o sue singole ricadute – non è incompatibile con una ideologia moderata). Adelina, dopo l’esperienza di Vienna (I gamberi), Cati, dopo l’esperienza di Baden (La coltrice nuziale), Angelina, pur costretta alla rinuncia di Firenze (La matrigna), dopo l’evasione, trovano conforto nella nicchia del contado, che è altro rispetto al vuoto e alla menzogna della «società dei Signori». L’antitesi è secca. Per la P. quello rurale è un mondo sano e sono ripetute le censure di chi, dalla campagna, si trasferisce in città e abbandona i modi semplici delle proprie origini. Esemplari in tal senso gli appunti sui giovani di Fielis, una borgata carnica, che dalla città in cui si sono trasferiti a esercitare il mestiere di sarti tornano trasformati, con i «vizi della società»: il «tristo costume» dell’emigrare (Lis cidulis). Il vecchio Osvaldo del racconto omonimo per contro: «Amava con passione il suo paese dal quale non era mai uscito, quindi la sua anima era ancora vergine e piena di poesia come la superba natura che ci stava d’intorno…». La difficoltà di percepire “città” e “campagna” nella loro interdipendenza, nella dialettica inscindibile del nesso economico, la difficoltà di una analisi appunto economica, è un limite. Ma, a dispetto delle grettezze pedagogiche, della volontà di costruire maschere ideali (il mezzadro docile e arrendevole, il fattore perspicace, il proprietario illuminato, e via via), nella P. l’adesione all’orizzonte contadino non è artefatta: come la preferenza accordata alle veglie nelle stalle (cornice di privilegio per l’intervento educativo), in sintonia con il Novelliere campagnuolo di Nievo («Nella stalla trovomi più daccosto alla natura, madre d’ogni poesia, e se bambina e rozza ancora, tuttavia non degenere; nel salon me ne sento così lontano da rabbrividire al solo pensarvi…»). Ma con una sensibilità che va oltre. La novella I gamberi, che interessa per tanti aspetti, descrive una scena di canto, riferendo una sequenza di villotte, dove importa notare il dispositivo «a catena»: «le quartine non hanno senso isolate, procedono e hanno senso nel gioco delle riprese e dei rilanci» (Gri). La villotta non si risolve nei quattro ottonari, con rima obbligata nelle sedi pari (la P. però recupera anche la villotta singola), ma si protrae nella «disfida», immergendosi nella interazione sociale. L’urgenza didascalica non si sfalda, ma la figura della P. si arricchisce e si fa più complessa. Dei «rituali comunitari» la P. coglie forme e valori, riconoscendo che i «linguaggi concreti, costruiti attraverso simboli concreti» della cultura popolare «non sono affatto primitivi o inferiori; sono diversi e del tutto analoghi, quanto a potenza espressiva, rispetto al linguaggio fatto di parole proprio del mondo della scrittura» (Gri). Con la capacità di inserirsi in questi rituali e di modificarli: come nel caso di Il licôf, un pasto che il padrone offre ai suoi coloni a S. Martino, sigillando il ciclo dei lavori (e dei relativi conti), «un rituale di congedo e di riaffermazione della gerarchia» (Gri). Nel racconto la protagonista, “alter ego” della scrittrice, non solo siede a tavola con i suoi contadini, ma a tavola siedono i capifamiglia e con loro le donne di casa. Con un doppio strappo: per il ceto di appartenenza della protagonista e per gli stessi beneficiari, per il diritto di sedere a tavola esteso alle donne. Una «osservazione partecipante» non comune, lucida e persuasiva, pur se nell’ideologia della P. «l’immensa muraglia che il destino ha posto tra il ricco e il povero» (Un episodio dell’anno della fame) resta un dato di natura: una divaricazione da addolcire, da smussare, da armonizzare, ma irrefutabile.

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Bibliografia

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