ROBORTELLO FRANCESCO

ROBORTELLO FRANCESCO (1516 - 1567)

docente di retorica, umanista

Nacque a Udine il 9 settembre 1516 dal notaio Andrea, cancelliere al Monte di pietà, in una famiglia nobile originaria di Ceneda. Studiò all’Università di Bologna sotto la direzione dell’umanista Romolo Amaseo. All’età di ventun anni iniziò ad insegnare nello Studio di Lucca, dando letture e commenti di autori greci e latini, che raccolse nelle Variorum locorum annotationes tam in Graecis, quam Latinis authoribus, stampate a Venezia nel 1543, riprese l’anno seguente a Parigi e riedite, con l’aggiunta di un secondo libro, nel 1548. Nel 1543 venne chiamato da Cosimo I de’ Medici all’Università di Pisa, dove per sei anni si dedicò all’insegnamento della retorica aristotelica e ciceroniana e quindi all’interpretazione della Poetica di Aristotele. Risalgono a questo periodo il trattatello De historica facultate, sul discorso storiografico, pubblicato assieme al De rhetorica facultate e ad altre sue dissertazioni e commenti, e l’edizione commentata della Poetica di Aristotele, dedicata al duca Cosimo, In librum Aristotelis de arte poetica explicationes, comprendente anche la parafrasi dell’Ars poetica di Orazio e cinque trattatelli sulla satira, l’epigramma, la commedia, la facezia e l’elegia. Queste opere, raccolte in due volumi dati alle stampe a Firenze nel 1548 dal tipografo ducale Lorenzo Torrentino, ne consacrarono la fama. Nel 1549 venne chiamato dal senato veneziano a succedere a Giovanni Battista Egnazio ad una cattedra di lettere greche e latine, a cui concorrevano anche Francesco Luisini e Bernardino Partenio. Nello stesso anno sposò a Udine Camilla Belloni, figlia del notaio e storico Antonio, amico del padre, il cui epistolario costituisce un’importante fonte documentale sulla sua vita. ... leggi A Venezia, dove rimase per tre anni, oltre a continuare ad insegnare retorica, seguendo un metodo innovativo che incontrò il favore degli studenti, iniziò ad interessarsi anche alla filosofia politica e all’etica aristoteliche. Nel 1552 diede alle stampe a Venezia, oltre alla dissertazione In libros politicos Aristotelis, l’edizione del testo greco delle Tragedie di Eschilo, con le relative annotazioni, e l’editio princeps del testo greco del trattato Sulle milizie di Eliano, del quale fornì anche una versione latina. Nello stesso anno si trasferì all’Università di Padova, dove insegnò anche filosofia morale e politica. Risalgono al primo periodo padovano l’editio princeps annotata del trattato Del sublime attribuito a Longino, stampata da Giovanni Oporino a Basilea nel 1554, e il trattatello sul modo di emendare i testi antichi, De arte sive ratione corrigendi antiquorum libros, stampato da Innocenzo Olmo a Padova nel 1557 al seguito del De convenientia supputationis Livianae cum marmoribus quæ in Capitolio sunt. Dopo una parentesi di quattro anni all’Università di Bologna, dal 1557 al 1561, durante la quale compose, oltre ad un’orazione funebre per Carlo V, il De vita et victu populi Romani (1559) e il De artificio dicendi (1560), dedicato alla retorica, entrambi editi a Bologna da Giovambattista e Alessandro Benassi e Giovanni Rossi, il R., richiamato d’autorità dal senato veneziano, ritornò definitivamente a Padova. Il periodo padovano è caratterizzato da una violenta disputa scientifico-accademica con il collega e rivale Carlo Sigonio, modenese, sorta fin dal 1553 su questioni relative alle antichità romane, che si protrasse con alterne vicende per una decina d’anni e che culminò con alcuni violenti libelli che i due accademici si scagliarono l’un contro l’altro nel 1562. L’intervento delle autorità e la decisione del Sigonio di trasferirsi a Bologna nel 1563, misero fine alla controversia. Il 18 marzo 1567 F. R. morì di pleurite a Padova. Venne sepolto, a spese dell’Università, nel chiostro del noviziato della chiesa di S. Antonio, dove il monumento funebre con il suo busto marmoreo reca un elogio voluto dagli studenti patavini della Nazione Germanica. Postume vennero pubblicate due lettere, che confermano il suo interesse per argomenti affrontati e trattati fin dall’inizio della sua carriera, l’una sul modo di apprendere l’eloquenza (Padova, 1568), l’altra sul metodo per scrivere la storia, risalente al 1552 e pubblicata a cura di E. Cicogna (Venezia, 1843), il quale menziona anche alcuni opuscoli manoscritti consultati nella biblioteca dei conti Donà delle Rose (conservati ora al Museo Correr di Venezia). Di lui restano anche un Discorso in materia delli luoghi topici (manoscritti conservati alla Vaticana e alla Biblioteca nazionale francese), un Methodus perquirendi artificii in scriptis poëtarum antiquorum (conservato alla Biblioteca nazionale francese) e una discreta produzione in versi greci e latini a carattere prevalentemente encomiastico. «Franciscus Robortellus Utinensis», così firmava le sue opere, è una delle personalità di maggior rilievo dell’umanesimo cinquecentesco italiano, che soffrì tuttavia di una reputazione e di una ricezione contrastate. Liruti gli dedicò un amplissimo profilo biografico, imprescindibile per qualunque ricerca sull’autore, anche perché contribuisce ad elucidare aspetti controversi della sua vita e della sua personalità. L’importanza storica del R. è legata innanzitutto alla sua edizione commentata della Poetica, primo commento, integrale e sistematico, del trattato aristotelico, che con interpretazioni originali ed innovative rendeva accessibile un’opera fondamentale della cultura antica. Altrettanto innovativa era la proposta di codificazione di cinque generi letterari assenti nella Poetica, che, assieme alla parafrasi dell’Ars poetica oraziana, accompagna l’opera principale sia nel volume stampato nel 1548 a Firenze che nella riedizione di Basilea del 1555. Dalla sua interpretazione inaugurale, volta a comprendere nella sua autenticità ed integralità la Poetica, divergono tuttavia su questioni cruciali, quali il fine della Poesia o la catarsi, commenti ed interpretazioni, anche contemporanei, che tenderanno ad imporsi quali punti di riferimento fondamentali nel successivo dibattito tardo rinascimentale e poi secentesco sulla letteratura. Già nel 1550 Vincenzo Maggi criticava l’interpretazione del R., scatenando la prima delle polemiche scientifico-accademiche nelle quali rimarrà quasi costantemente invischiata la sua carriera. Per F. R., che nella Poetica non trovava nemmeno accenni a finalità educative o edificanti della Poesia, il fine principale di essa era il diletto, mentre l’utilità morale costituiva solo un fine secondario, possibile, ma accessorio; per Maggi invece, seguito dai successivi interpreti, con l’eccezione di Castelvetro, la Poesia, dilettando, doveva insegnare ed incitare alla virtù. Questa posizione moralistica, profondamente impregnata dal precetto oraziano dell’“utile dulci”, cioè del diletto subordinato al fine educativo o edificante, del tutto estranea alla concezione aristotelica, diventerà il cardine della poetica controriformistica. Nel mutato clima culturale e ideologico la sua interpretazione della Poetica, ancora relativamente aperta e volta alla comprensione e all’elucidazione del testo aristotelico, viene delegittimata e subisce una progressiva emarginazione. Con l’eccezione di alcuni isolati riconoscimenti – Segni, Castelvetro, Torelli o più tardi, in Francia, Corneille –, R. infatti non è presente nel successivo dibattito sulla poetica, se non per essere esplicitamente criticato proprio su questo punto, ad esempio, da Alessandro Piccolomini. Anche quando le sue interpretazioni furono prese in considerazione o adottate, come dimostra l’esempio secentesco francese della Querelle du Cid, vennero poi eliminate dal dibattito in quanto non conformi alla poetica normalizzata prima controriformistica e poi classicista che si stava definendo e costituendo. Considerazioni analoghe potrebbero valere per l’altra operazione pionieristica da lui compiuta nel campo della poetica con l’edizione del trattato Del Sublime, che dovrà attendere più di un secolo per essere riscoperto e apprezzato. Maggiore fortuna e riconoscimenti godettero gli altri suoi lavori, in particolare i trattatelli sui generi letterari, da cui trassero ispirazione Sansovino, Torelli e Lope de Vega (Nuova arte di far commedie, 1609), il De historica facultate, che propone un’originale codificazione del discorso storiografico rifacendosi a Luciano e a Sesto Empirico, le cui idee vennero riprese da Speroni e da Patrizi, e il trattatello sull’emendazione dei testi antichi, primo manuale teorico di critica del testo, che vennero più volte riproposti e citati fino a tutto il Seicento, come anche le annotazioni ed i commenti ai testi di Orazio, Cicerone o Catullo. Tuttavia, nelle grandi opere storico-biografiche della seconda metà del Seicento e del Settecento, sia francesi sia italiane (Moreri, 1674; Baillet, 1685; Nicéron, 1741; Muratori, 1732), emerge un ritratto incentrato sulla vita ed il carattere del R. decisamente negativo. Riprendendo critiche ed accuse relative a fatti e comportamenti che autori precedenti gli avevano attribuito, riconducibili alle sue contese con Maggi, Egnazio, Paolo Manuzio e soprattutto con Sigonio, queste biografie lo presentano come una personalità arrogante, polemica e vanagloriosa. Questi ritratti sono in realtà basati su una leggenda biografica a suo tempo criticata e smontata dal Liruti che esamina anche le tappe della costruzione e diffusione. All’origine della leggenda negativa è lo stesso Sigonio, le cui accuse infamanti volte a screditarlo vengono riprese nel Musaeum Historicum et Physicum di Giovanni Imperiali (Venezia, 1640), tramite fondamentale nella propagazione europea di quest’immagine negativa. Fondata su un’indubbia vena polemica, ben evidente nei suoi scritti, e su risentimenti e gelosie di colleghi, questa reputazione negativa è frutto anche dell’oscuramento subito dalla sua opera, contribuendo a sua volta a mantenerla in ombra. Delegittimata o resa comunque insignificante l’opera, la cui mancata fortuna è dovuta fondamentalmente al profondo cambiamento storico e culturale iniziato a metà del Cinquecento, rimaneva sul proscenio un accademico che si vantava, senza ragione, di essere fra i migliori, giustificando così l’accusa di vanagloria. In altri termini, la leggenda secentesca negativa dipende anche dal giudizio cinquecentesco che, dato su basi ideologiche controriformistiche, ha contribuito a lasciare ai margini del dibattito critico e teorico la sua opera. All’ampia e accurata ricostruzione biografica del Liruti, che restituisce un ritratto equilibrato più vicino alla realtà, si è affiancata da qualche tempo una rivalutazione dell’opera che riconosce nell’umanista friulano uno dei più importanti ed illustri rappresentanti del movimento umanistico e rinascimentale europeo.

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Bibliografia

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