STRINGHER BONALDO

STRINGHER BONALDO (1854 - 1930)

economista, docente universitario, direttore generale della Banca d’Italia

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L'economista Bonaldo Stringher.

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La sede centrale della Banca d'Italia a Roma, di cui Bonaldo Stringher fu direttore dal 1900 al 1928.

Nacque a Udine il 18 dicembre 1854 da Marco e Giovanna Trevisan. Il padre, esponente della piccola borghesia cittadina (prima «libraio», poi «agente commerciale», quindi «amministratore»), aveva combattuto per la difesa di Venezia nel 1848 e nutriva sentimenti patriottici, comuni invero ad altri esponenti della famiglia, come i fratelli Luigi e Pietro, rispettivamente impegnati nelle campagne militari del 1860-1862 e nella repressione contro il brigantaggio meridionale. L’animo del giovane S. fu segnato da questi sentimenti, che radicarono in lui un profondo legame tra la “piccola patria” del Friuli e la più grande patria italiana. Dopo la scuola elementare e gli studi triennali presso la locale scuola tecnica, portati a termine il 20 agosto 1868 con «onorevole menzione», si iscrisse al regio Istituto tecnico di Udine, aperto nel 1866 per volontà di Quintino Sella, dove fu allievo di Giovanni Marinelli per la geografia e di Luigi Rameri per le discipline economiche e giuridiche. Conseguì il diploma nel 1871 e, nonostante le ristrettezze finanziarie, si iscrisse alla Scuola superiore di commercio di Venezia, fondata nel 1868, auspice Luigi Luzzatti, e diretta da Francesco Ferrara. Essa comprendeva tre indirizzi: uno magistrale, della durata variabile di quattro o cinque anni, che preparava all’insegnamento; il secondo consolare, di cinque anni, per quanti intendevano seguire la carriera diplomatica; l’ultimo commerciale, di tre anni. S. optò per il terzo indirizzo ed ebbe come docenti studiosi di notevole prestigio, quali lo stesso Ferrara per l’economia politica, Rinaldo Fulin per la storia del commercio, Antonio Biliotti per la computisteria (nel 1873-1874 la cattedra passò a Fabio Besta, che assunse anche la supplenza di istituzioni di commercio, materia denominata “Banco”), Luigi Bodio per la geografia e la statistica (S. lo ebbe come professore solo nel 1871, quando per gli studenti del primo anno Bodio teneva il corso di geografia commerciale). Nel 1874 completò gli studi universitari con esiti lusinghieri: dieci in statistica e merceologia; nove e tre quarti in inglese; nove e mezzo in tedesco, letteratura italiana, diritto industriale e storia del commercio; otto e tre quarti in economia politica; otto in istituzioni di commercio. ... leggi Tornato a Udine, nella primavera del 1875 fu chiamato a Roma da Bodio, che, avendone apprezzato le doti intellettuali e la forte tempra morale, lo volle con sé alla Giunta di statistica, allora in fase di organizzazione. Iniziò così per S., dopo Udine e Venezia, una «terza scuola», nel senso che negli angusti locali degli uffici di via della Stamperia, in cui si trovò a operare, seppe trarre profitto dal libero accesso ai libri della biblioteca ministeriale, dagli insegnamenti di Bodio (che ammoniva a essere unicamente solleciti della verità), dai lavori affidatigli nell’ambito di un programma che conferiva alla statistica il compito di verificare, al di là delle teorie, come stessero effettivamente le cose, il che sarebbe dovuto essere propedeutico (così si diceva) a qualsivoglia nuovo dettato legislativo. S. fece una carriera rapidissima: assunto nel 1875 come impiegato straordinario con lo stipendio di lire 92 mensili, vinse poco dopo un concorso per l’avanzamento a vicesegretario; nel 1877 e nel 1879 ottenne due ulteriori promozioni; nel 1881 divenne segretario. L’anno successivo lasciò la Direzione di statistica, per passare a quella di commercio, guidata da Carlo Ferraris. Nel 1884 Vittorio Ellena, titolare della Direzione delle gabelle, gli affidò l’ufficio di segretario della Commissione per la legislazione doganale presso il Ministero delle finanze. Nel frattempo aveva cominciato a pubblicare qualche suo scritto nell’«Archivio di statistica», il periodico fondato nel 1876 da Teodoro Pateras, con la collaborazione di Cesare Correnti, Paolo Boselli e Luigi Bodio. Tra il 1878 e il 1880 vi uscirono alcune sue recensioni (da segnalare quelle alla Seconda relazione sull’andamento del credito popolare in Italia, di Luigi Luzzatti, e al volume di Victor Böhmert, La partecipazione al profitto); una nota sul Progresso del commercio della Gran Bretagna con l’estero dal 1856 al 1877, che, movendo da un saggio di William Newmarch appena uscito nel «Journal of the Statistical Society» di Londra, ragguagliava sulla tendenza della bilancia commerciale inglese al deficit strutturale; gli Appunti di statistica comparata delle banche di emissione, che prendevano in esame la circolazione nei vari Stati, anticipando un più ampio lavoro monografico Sulla estinzione del corso forzoso agli Stati Uniti, che sarebbe uscito nel 1879 per i tipi del Ministero di agricoltura, industria e commercio (collana “Annali”) e sul quale si sarebbero appuntati gli strali della «Rassegna settimanale» di Franchetti e Sonnino – il cui vero obiettivo, però, era non S., ma il governo e, in particolare, il liberismo di Salvatore Majorana Calatabiano. S. tenne conto delle osservazioni e recensì favorevolmente uno studio di Gerolamo Boccardo, Le Banche e il corso forzato (1879), che prendeva le distanze dalle tesi di Majorana. Del pari con favore recensì un successivo lavoro di Boccardo, Sul riordinamento delle banche in Italia (1881), limitandosi tuttavia ad apprezzarne la validità scientifica, senza sbilanciarsi sul piano politico. Stava infatti entrando in una fase delicata e cruciale della sua carriera, essendo stato coinvolto nella stesura della relazione accompagnatoria del progetto di legge Magliani sull’abolizione del corso forzoso (1880), incarico che gli avrebbe spianato la strada al segretariato della commissione permanente, con compiti consultivi e di controllo sulle operazioni per il ritorno alla convertibilità, disposta dalla legge 7 aprile 1881, n. 133. Quasi contemporaneamente Luzzatti, incaricato dal governo di guidare la delegazione italiana alla conferenza monetaria internazionale di Parigi, in vista di un accordo sul regime bimetallico, chiese e ottenne che S. ne fosse il segretario. Il nuovo incarico consentì a S. di fare esperienze non solo monetarie, bensì pure, in interconnessione con la multiforme attività di Luzzatti (del quale divenne una sorta di braccio destro), cooperative, fiscali, sociali, previdenziali, doganali e commerciali. La sua posizione si rafforzò ulteriormente nel 1883, quando divenne segretario (col compito di redigerne la relazione finale) della commissione presieduta da Marco Minghetti allo scopo di studiare il problema dell’Unione monetaria latina, la cui convenzione scadeva nel 1885 e il cui rinnovo era alquanto controverso soprattutto a causa della vexata quaestio della liquidazione degli scudi d’argento. Le trattative parigine che mantennero in vita l’Unione furono condotte, per l’Italia, da Luzzatti, che volle essere accompagnato da S. La “missione” italiana riscosse successo e l’immagine pubblica di S. acquisì nuovo smalto. Della successiva crisi economica, bancaria, finanziaria e monetaria (speculazione edilizia, scandalo della Banca romana, caduta del Credito mobiliare e della Banca generale, guerra commerciale con la Francia, ecc.), che destabilizzò il Paese tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, S. fu attento osservatore e analista, riuscendo a trarne fruttuosi insegnamenti. Nel frattempo, mentre si muoveva sullo scenario nazionale e internazionale, sia pure nella «defilata posizione di segretario» (nel marzo 1884 era però stato promosso caposezione e trasferito al Ministero delle finanze, dove nell’ambito della Direzione generale delle gabelle era stato costituito un Ufficio di legislazione e di statistica delle dogane), non dimenticava il suo Friuli, col quale aveva mantenuto costanti rapporti: dapprima con gli amici, gli ex professori e i condiscepoli dell’Istituto tecnico, in un secondo momento, a mano a mano che crescevano la sua visibilità pubblica e le responsabilità nell’amministrazione centrale dello Stato, anche con i notabili locali, cercando in pari tempo di far conoscere le condizioni economiche e sociali della sua terra d’origine, con particolare riguardo al fenomeno migratorio, alla piaga della sottoalimentazione e alle esigenze del credito popolare, non tanto nella versione delle casse rurali di matrice wollemborghiana, quanto piuttosto in quella delle banche popolari luzzattiane. Non a caso nel 1885 partecipò alla fondazione della Banca popolare di Udine (denominata Banca cooperativa udinese), sottoscrivendo dieci azioni a nome proprio e altre venti a nome di Carlo Giacomelli, figlio del podestà insediato da Sella nel 1866. Aumentavano intanto le sue responsabilità, come prova il fatto che Agostino Magliani gli affidasse (estate-autunno 1885) il compito di redigere la relazione illustrativa di una nuova proposta di manovra fiscale (il cosiddetto “omnibus”), lavoro che S. portò a termine non solo sotto il profilo tecnico, ma anche sotto quello scientifico, tanto che la monografia che ne trasse gli giovò per il conseguimento della libera docenza in scienza delle finanze e diritto finanziario (1888), cui fece seguito l’incarico di legislazione comparata, presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma, tenuto fino al 1893-1894 con l’appoggio di Angelo Messedaglia, maestro e amico di Luzzatti, e di Antonio De Viti de Marco. Ancora a S. ci si rivolse per affiancare Vittorio Ellena (estate 1886) nella stesura della parte industriale della relazione che avrebbe fatto da supporto alla tariffa protezionistica del 1887 e per coordinare il lavoro redazionale del «Bollettino di legislazione e statistica doganale e commerciale». Ciò consentì un’ulteriore promozione (febbraio 1887) a capodivisione, cui nel 1891, alla vigilia della scadenza dei trattati di commercio con i principali Stati d’Europa, seguirono: la nomina a segretario generale (con diritto di voto) della commissione negoziale, con l’aggiunta dell’obbligo di occuparsi personalmente delle categorie V, VI, VII e VIII della tariffa doganale; l’attribuzione dei poteri di ministro plenipotenziario nelle trattative commerciali con la Germania, l’Austria-Ungheria e la Svizzera; la nomina a ispettore generale del Ministero delle finanze. Il primo settembre 1892 venne trasferito al Tesoro, preludio di un’altra nomina, quella a direttore generale (23 novembre 1893), decisa da Giovanni Giolitti nel contesto degli eventi che, dopo le risultanze dell’inchiesta Finali sulla Banca romana, lo avevano indotto a varare la riforma del sistema dell’emissione, dando vita alla Banca d’Italia (legge 10 agosto 1893, n. 440). Negli intenti di Giolitti, prossimo alle dimissioni, S. avrebbe dovuto assicurare la continuità tecnica della politica bancaria appena avviata, il che effettivamente avvenne, pur essendo diverse le linee d’azione dei due ministri del Tesoro, Sonnino (dicembre 1893-maggio 1896) e Luzzatti (luglio 1896-giugno 1898), con i quali (esclusa la breve parentesi di Giuseppe Colombo) dovette in seguito rapportarsi. Seppe infatti trovare soluzioni attuative, organizzative e istituzionali adeguate agli aggiustamenti, modifiche e ritocchi apportati alla legge bancaria del 1893, come pure al complesso delle manovre finanziarie governative, ottenendo risultati di grande rilievo, in materia ad esempio di rimpatrio degli spezzati d’argento, di pagamento dei dazi in oro, di “affidavit” per l’incasso in oro. S. mantenne la carica di direttore generale del Tesoro, pleno iure, fino al giugno 1898, quando, su proposta di Luzzatti, venne nominato consigliere di Stato, ufficio che rappresentava un trampolino di lancio verso maggiori responsabilità. A parte gli innumerevoli incarichi in commissioni economico-finanziarie attribuitigli nel corso del 1899, in occasione delle elezioni politiche del 1900 accettò la candidatura a deputato nel collegio di Gemona-Tarcento. Fu eletto al primo scrutinio e venne subito nominato sottosegretario al Tesoro nel governo Saracco. Ciò sembrò aprirgli una promettente carriera politica, ma la morte di Giuseppe Marchiori, direttore generale della Banca d’Italia, fece di lui il candidato naturale alla successione. S. accettò la carica e il primo dicembre 1900 tenne il discorso d’investitura davanti al consiglio superiore. Sarebbe rimasto alla guida dell’Istituto fino al dicembre 1930: per ventotto anni come direttore generale e per due (dal 1928) come governatore. Succedendo a Marchiori, i cui contenziosi amministrativi e legali con il Tesoro avevano segnato l’ultimo scorcio del secolo XIX, il nuovo direttore generale mostrò di avvertire la necessità e insieme l’urgenza di conciliare gli interessi privati della Banca con il suo ruolo pubblico, anteponendo questo a quelli. Lo dichiarò senza mezzi termini nella sua prima relazione annuale agli azionisti, il 26 marzo 1901, affrontando il cruciale tema dell’«inseparabile interesse dell’economia nazionale e della Banca», che andava perseguito attraverso il risanamento della seconda e nell’«osservanza scrupolosa delle leggi». Un simile impegno non avrebbe dovuto comportare alcuna rinuncia alla «piena autonomia» dell’Istituto, che costituiva un «fattore essenziale nell’esercizio del credito». Autonomia e osservanza delle leggi e degli statuti sarebbero anzi dovute procedere di pari passo. E quanto alle legittime esigenze di profitto degli azionisti, occorreva marginalizzarle. Infatti, la politica dei dividendi aziendali, almeno fino al 1907-1908, venne connotandosi in termini di grande parsimonia, alla luce anche dei molti problemi correlati col raggiungimento e il mantenimento dell’equilibrio tra costi e ricavi. L’Istituto doveva assolvere compiti impegnativi: dal riassetto patrimoniale ai non facili rapporti con le banche miste, dall’assunzione dell’ufficio di «supremo regolatore del credito», e insieme di «moderatore dei cambi esteri e di approvvigionamento di divise», alla stabile acquisizione di un proprio formale e sostanziale profilo di moderna banca di emissione. E che cosa dovesse intendersi per moderna (o «vera») banca di emissione S. non solo precisò con la sua concreta azione direttiva, ma sintetizzò in un breve testo del 1913, nel quale, dopo essersi richiamato agli “specimina” classici delle banche di Francia e d’Inghilterra, «nutrite» e quasi «sostenute dalla ricchezza nazionale», e dopo avervi contrapposto le banche di emissione che in altri Paesi, «per conservare il cambio con l’estero favorevole, e per barattare i biglietti nella valuta metallica legale», dovevano esse stesse provvedere a «migliorare e risanare l’ambiente economico», insisteva sull’obbligo di «moltiplicare i fondi di riserva liquidi, ordinari e straordinari», il che non si sarebbe potuto fare se non «distribuendo il meno possibile di benefici netti». Se poi fosse stato di spettanza pubblica il partecipare agli utili, lo Stato non avrebbe avuto che un’alternativa: o piegare «come un volgare azionista alla brama di incassare per l’erario qualche compenso maggiore», oppure saper resistere a simili «cupidigie, illuminato da un’alta visione» dell’utile generale. Nella prima ipotesi, si sarebbe rivelato uno Stato «scadente»; nella seconda, uno Stato «degno di assurgere alla prosperità». Di conseguenza, un’amministrazione «saggia e prudente» avrebbe dovuto «cingersi di riserve straordinarie» tali da «preparare gli ammortamenti per tutte le perdite e per tutti gli imbarazzi», mentre un governo «sapiente» avrebbe dovuto «gloriarsi» di banchieri capaci di farsi guidare dalla «coscienza del pubblico bene». Non erano solo parole, queste, e S. lo provò nei primi tre anni di direzione, quando, «realizzata una buona frazione delle immobilizzazioni, alleggerita l’azienda del Credito fondiario, rafforzate le riserve, moderatamente ampliata la circolazione, riordinata l’organizzazione interna, resa più razionale la compilazione dei bilanci», riuscì a far accettare il primato di fatto della Banca d’Italia nell’ambito del triopolio di emissione, procedendo decisamente sulla via del risanamento. Bisognava nondimeno accelerare la liquidazione delle partite ancora immobilizzate, il che avvenne nei tre anni successivi, mediante la vendita in blocco di un cospicuo stock di immobili e di fondi rustici, e realizzando notevoli accantonamenti non disgiunti da un consistente ulteriore incremento delle riserve auree. La Banca d’Italia si preparava così a chiudere la fase pionieristica della sua attività e ad avviarne una nuova, grazie anche ad alcune significative modifiche apportate nel dicembre 1907, su pressione e con il personale contributo di S., all’Atto bancario del 1893, modifiche intese a rendere più elastica la circolazione in rapporto sia alle reali condizioni economiche del Paese, sia alle mutevoli congiunture dei mercati internazionali, sia alla loro influenza sul mercato interno. Inoltre, vennero apportati ritocchi di qualche rilievo in materia di carico fiscale e di cambi, di regime dello sconto a saggio di favore e a saggio ridotto. Non vennero invece accolte due riforme, alle quali pure S. teneva molto: la possibilità di effettuare operazioni di riporto e una maggiore flessibilità nella raccolta dei depositi in conto corrente, da lui ritenuta particolarmente utile sotto il profilo aziendale, e che comunque fu riconosciuta alla Banca d’Italia nel luglio 1909. Con questi e altri aggiustamenti l’Istituto di via Nazionale, sotto la guida di S., poté cominciare «a operare come centro autonomo di decisioni, destinatario di sempre più ampie deleghe da parte del governo per l’espletamento di compiti in campo monetario, per interventi sul cambio, per assicurare la stabilità del sistema finanziario e per diversi altri compiti di analisi, progettuali e di consulenza» (Bonelli, 1994, 293). Il primo periodo della direzione stringheriana fu agevolato dal favorevole andamento dei conti con l’estero, al cui equilibrio concorsero in modo determinante le rimesse nette degli emigrati, in media più che raddoppiate nell’ultimo decennio dell’Ottocento, e il turismo d’élite. D’ostacolo riuscirono invece alcuni concomitanti fattori: dalla natura fortemente segmentata del mercato italiano del credito, aggravata dal tratto distintivo che ciascun settore comunicava poco con gli altri, all’invalsa abitudine di ricorrere alla manovra del tasso di sconto non tanto per regolare il mercato monetario, e quindi l’andamento dei prezzi, quanto piuttosto per rivedere i cosiddetti tassi di favore. Obiettivo, quest’ultimo, che diviene intelligibile nel quadro dei rapporti di concorrenza esistenti fra gli istituti di emissione e vari altri intermediari finanziari, visto che la Banca d’Italia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia svolgevano, in aggiunta all’attività emittente, anche una normale attività di intermediazione, offrendo crediti non solo alle banche ordinarie, ma pure alle imprese non finanziarie, e persino alle famiglie. D’altro canto, i tre istituti dovevano fronteggiare la concorrenza che le aziende di credito ordinario muovevano loro con i tassi attivi sulle operazioni istituzionali di credito bancario, e più ancora per mezzo di operazioni vietate al triopolio dalla legge, sul tipo delle aperture di credito allo scoperto e dei riporti attivi. Per ciò che riguarda il tasso di sconto, va nondimeno rilevato che S. inclinò a farvi ricorso per moderare le fluttuazioni del cambio, rifuggendo dai dogmatismi teorici e dalle modellistiche semplificate e rarefatte. Preferì semmai valutare tutte le informazioni disponibili, e dunque anche gli elementi qualitativi, come l’andamento congiunturale agricolo e industriale del Paese. Ond’è che in varie circostanze poté dichiarare «di aver rinunciato a più sensibili aumenti di tasso – già decisi per altri motivi – o di averne rinviato l’attuazione per non pregiudicare ulteriormente l’attività produttiva interna. Viceversa, salvo improbabili smentite, non si danno, nel periodo considerato, casi di riduzioni dello sconto esclusivamente intese a promuovere una ripresa generale degli affari» (Ciocca, 214). L’interesse per i problemi produttivi fu sempre vivo in S., che ben sapeva come una banca moderna dovesse assecondare lo sviluppo economico. Uno dei piani sui quali meglio tale interesse si manifestò fu quello dei rapporti con le banche miste. In Italia tali banche, pur non proponendosi come obiettivo principale di acquisire e gestire strategicamente partecipazioni industriali, non si limitarono a fornire in via diretta mezzi finanziari alle imprese, ma cercarono di sostenerle in vari modi, ora supportandole nei processi di concentrazione o favorendole con l’assistenza tecnica e commerciale, ora fornendo aiuto alle aziende clienti sul piano della «scelta e del collocamento, specie all’estero, dei singoli tipi di produzione». Ciò si verificò meno nei comparti tradizionali dell’industria e più in quelli recenti o recentissimi: energia elettrica, metallurgia, chimica, in cui maggiore era l’intensità di capitale. Un altro pilastro della loro attività fu il collocamento di valori mobiliari tra il pubblico, come approdo di relazioni d’affari già avviate, e talora premessa di relazioni nuove. Operando su tale terreno, le banche miste non arretrarono dinanzi all’uso dello strumento speculativo, il che, se da un lato valse a dare «una fisionomia nuova al mercato italiano dei valori mobiliari, sino ad allora caratterizzato dall’assoluta preponderanza dei titoli di Stato o garantiti dallo Stato» (Bonelli, 1971, 18), dall’altro lato consentì a operatori senza scrupoli, specialmente fra il 1905 e il 1907, spregiudicate manovre borsistiche sulle principali piazze del Paese, con perdite assai rilevanti non solo per molti risparmiatori, ma anche per vari istituti di credito. È significativo il caso della Società bancaria italiana: verso la fine del 1907, nel pieno di una crisi economica di portata internazionale, che aveva visto la contrazione dei flussi finanziari da Parigi e da Londra, e che aveva bloccato numerosi progetti d’investimento in corso, questo istituto venne a trovarsi in condizioni di illiquidità e poté salvarsi dal tracollo solo per intervento di S., il quale, tramite la costituzione di un consorzio a partecipazione prevalentemente bancaria, le consentì di tenere aperti gli sportelli, onde evitare contraccolpi negativi sull’intero sistema bancario nazionale. Di analogo strumento consortile si giovò, sempre nel 1907, per promuovere una più selezionata politica di difesa dei valori azionari, resa necessaria dalle condizioni del mercato mobiliare, in cui, anche per la condotta divenuta più cauta delle banche, stava emergendo una tendenza al ribasso dei corsi. È da notare che si ebbe allora, come altre volte in seguito, una forte assunzione di responsabilità da parte non solo dell’Istituto di via Nazionale, ma pure delle autorità di governo, a supporto sia delle banche miste, sia di industrie pericolanti, il che legittimerebbe più di un interrogativo sull’effettiva natura del capitalismo italiano dell’epoca, e insieme sulle sue reali potenzialità, ove fosse mancato il sostegno della mano pubblica. V’è ancora un versante dell’azione di S. nel primo Novecento che qui merita ricordare, ed è quello della politica di rientro del debito pubblico, il cui momento più alto coincise con la «grande conversione» della rendita del 1906. Il ruolo in essa svolto dal direttore generale della Banca d’Italia fu di assoluto primo piano, sia per ciò che attiene alla preparazione della manovra, sia per ciò che si riferisce alla sua pratica attuazione. Già tra il 1896 e il 1898 S. aveva collaborato con Luzzatti, ministro del Tesoro nel terzo, quarto e quinto governo Rudinì, per attuare delle conversioni capaci di incidere tanto sul valore del debito quanto sulla spesa per interessi, e quindi sul bilancio pubblico. Poi, nel 1902, c’era stato il consolidamento di una parte del debito redimibile, ossia dei titoli a media scadenza, in rendita 3, 5 per cento. Si era trattato, però, di un volume molto modesto di debito e quasi di una sorta di “ballon d’essai” inteso a saggiare le reazioni del mercato. Non così tre anni dopo, quando la conversione interessò uno stock di titoli di circa 8 miliardi di lire correnti, equivalenti, per intenderci, al 55, 6 per cento del prodotto interno lordo. I portatori di rendita vennero posti in condizione di optare tra il rimborso alla pari e il cambio dei vecchi consolidati 5 per cento lordo e 4 per cento netto con titoli di nuova emissione fruttanti l’interesse annuo del 3, 75 per cento, fino al dicembre 1911, e del 3, 5 per cento, fino al 1920, esenti da ogni imposta presente o futura e non soggetti a conversione. Globalmente le richieste di rimborso furono modestissime, essendo stata l’opzione esercitata solo dal 6 per mille del capitale nominale. Ebbene, fu a S. che nel marzo 1906 il governo diede l’incarico di trattare con i Rothschild, a Parigi; e fu sempre a lui che nel giugno dello stesso anno vennero conferiti i pieni poteri per la costituzione di un Consorzio internazionale anglo-franco-tedesco che funzionasse da “paracadute” e desse copertura alle domande di rimborso all’estero (secondo una valutazione attendibile, lo stock di debito pubblico in mani non italiane era allora meno di un decimo del totale); e fu ancora lui che si adoperò per la rapida costituzione, attorno alla Banca d’Italia, di un sindacato nazionale di garanzia, cui si associarono altri gruppi stranieri minoritari. Certo, la «grande conversione» fu possibile perché, a partire dal 1899, era stato raggiunto il pareggio di bilancio e si registravano anzi dei modesti surplus; perché, a fronte di entrate crescenti, le spese effettive dello Stato erano rimaste grosso modo invariate; perché il prodotto interno lordo era aumentato al tasso medio annuo del 3,5 per cento in termini reali (4,5 per cento in termini monetari); perché le riserve delle banche di emissione italiane avevano nel 1906 una consistenza maggiore di quelle della stessa Banca d’Inghilterra; e dunque, perché la posizione dell’Italia sul mercato internazionale dei capitali era decisamente migliorata rispetto a quella di dieci anni prima. Tutto ciò è verissimo, ma altrettanto vero è che ad attualizzare le favorevoli potenzialità di un tale quadro economico occorse, o piuttosto fu essenziale, l’opera di singoli uomini, la loro specifica condotta: di S., come si è detto, e di altri, da Luigi Luzzatti a Otto Joel, da Angelo Majorana a Emilio Padoa. Per limitarci a S., non sembra una sopravvalutazione affermare che in tale circostanza egli seppe dar luogo a un innesto fruttuoso dell’azione dello Stato nel tessuto produttivo del Paese e ciò, come scrisse un’autorevole testata economica dell’epoca («L’Economista d’Italia», 3 ottobre 1906), gli riuscì senza sforzo, bastandogli agire in coerenza con quel che era: un «uomo di grande valore morale e intellettuale, un grande lavoratore e un grande galantuomo». La prima guerra mondiale modificò gli schemi operativi e teorici di riferimento, costringendo S. a sperimentarne di nuovi, sia in occasione dei provvedimenti con i quali fronteggiò la congiuntura dell’agosto 1914 (in primis la moratoria), sia con la creazione del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali, sia con l’aiuto al Tesoro per il collocamento dei «prestiti nazionali», per non dire dei finanziamenti erogati alle imprese fornitrici del cliente-Stato, o del contributo alla organizzazione dell’Istituto nazionale per i cambi con l’estero. Fra il gennaio e il giugno 1919 subentrò a Francesco Saverio Nitti come ministro del Tesoro nel governo guidato da Vittorio Emanuele Orlando e, in tale veste, dopo la decisione statunitense di sospendere la collaborazione finanziaria, fu lui a decretare la fine del monopolio del commercio dei cambi. Tornato alla Banca d’Italia, dovette misurarsi con la crisi inflativa del 1919-1920 (il che fece senza adottare, se non dal maggio-giugno 1920, una politica di alto costo del denaro), con i problemi del finanziamento della ripresa produttiva e della riconversione, con l’appoggio alle industrie di base e il supporto alla struttura bancaria nelle sue componenti più deboli (si pensi al tentativo, non riuscito, di salvataggio della Banca italiana di sconto e a quello, riuscito, della società Ansaldo). Donde l’assunzione, da parte della Banca d’Italia, di un ruolo prossimo a quello di un istituto di credito ordinario, la qual cosa, con l’avvento del fascismo (1922), creò non pochi attriti e contrasti con Alberto De’ Stefani, fautore di una politica monetaria intesa a contenere la circolazione finalizzata alla domanda di credito proveniente dal settore privato, ciò su cui S. non poteva convenire. Più sfumato e duttile (senza però mai diventare uomo di regime) fu il rapporto con Giuseppe Volpi, succeduto a De’ Stefani nel luglio 1925, con Alberto Beneduce (già suo collaboratore) e con Benito Mussolini (da allora suo diretto interlocutore), con i quali condivise la responsabilità di «quota Novanta» (1927) e, nonostante qualche iniziale resistenza, anche quella delle conseguenze deflazionistiche che ne scaturirono, senza dimenticare le molteplici implicazioni relative al “nuovo” ruolo assunto dalla Banca d’Italia dopo i provvedimenti legislativi del 1926-1928 (dall’unicità dell’emissione, all’accentramento delle riserve valutarie, alla ridefinizione dei rapporti col Tesoro), recepiti dalla riforma statutaria del 1928 e propedeutici a quelli che sarebbero stati introdotti nel 1936-1937. Nei primi mesi del 1930 la salute di S. declinò. A giugno decise di tornare per qualche tempo in Friuli, al Poggio, nella sua casa di Martignacco. Non si riprese. Rientrato a Roma, morì il 24 dicembre 1930.

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Bibliografia

Mss Treviso, Archivio della cattedrale, Libro degli atti di matrimonio 1853-54; Libro degli atti di matrimonio dal 1850 al 1859; Udine, Archivio della parrocchia beata Vergine delle Grazie, Registro battezzati 1845-57; Udine, Archivio dell’Istituto tecnico commerciale Antonio Zanon, 3, 8, 13, 14, 16, 18, 228; ASU, Lista di leva del Comune di Udine per nati del 1854; Venezia, Archivio Luigi Luzzatti, 87; Roma, Archivio storico della Banca d’Italia, Carte Stringher; Venezia, Archivio storico dell’Università Ca’ Foscari, Volume di votazioni per il conferimento dell’attestato che veniva conseguito nei primi anni di vita dell’Istituto; B. STRINGHER JR, Appunti da servire per una biografia di Bonaldo Stringher, ottobre 1981 (dattiloscritto conservato nelle Carte Stringher).

E. MORPURGO, Commemorazione di Bonaldo Stringher, «AAU», s. V, 10 (1930-1931), 49-75; R. BENINI, Commemorazione del socio Bonaldo Stringher, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», s. VI, 7 (1931), 203-222; G. DEL VECCHIO, Bonaldo Stringher, «Giornale degli economisti e rivista di statistica», s. IV, 71 (1931), 85-88; G. MORTARA, Bonaldo Stringher, «Rivista bancaria», 12 (1931), 81-103; A. STELLA, Un secolo di storia friulana (1866-1966), Udine, Del Bianco, 1967; P. CIOCCA, Note sulla politica monetaria italiana 1900-1913, in L’economia italiana 1861-1940, a cura di G. TONIOLO, Roma-Bari, Laterza, 1978, 179-221; F. BONELLI, Bonaldo Stringher 1854-1930, Udine, Casamassima, 1985 (lavoro qui tenuto costantemente presente); Bonaldo Stringher e i problemi del finanziamento dell’industria in Italia. Atti del convegno (Udine, 30 novembre 1984), Udine, Cassa di risparmio di Udine e Pordenone, 1986 (soprattutto 20-27, 28-42, 43-79, 126-130); F. MICELLI, Un epistolario inedito: Giovanni Marinelli e Bonaldo Stringher, in Contributi dei friulani alle conoscenze delle terre extraeuropee, a cura di M. MICHELUTTI, Udine, Accademia di scienze, lettere e arti, 1988, 82-88; M. BERENGO, La fondazione della Scuola Superiore di commercio di Venezia, Venezia, Il Poligrafo, 1989; F. BONELLI, Introduzione a: La Banca d’Italia dal 1894 al 1913, Momenti della formazione di una banca centrale, a cura di ID., Roma-Bari, Laterza, 1991, 3-114; ID., Luigi Luzzatti e la Banca d’Italia (1893-1914), in Luigi Luzzatti e il suo tempo. Atti del convegno internazionale di studio (Venezia, 7-9 novembre 1991), raccolti da P.L. BALLINI - P. PECORARI, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 1994, 277-296; P. PECORARI, Sul contributo di Bonaldo Stringher allo sviluppo economico italiano nel primo Novecento, «Archivio veneto», s. ... leggi V, 147 (1996), 61-75 (e bibliografia ivi citata); ID., La lira debole. L’Italia, l’Unione monetaria latina e il «bimetallismo zoppo», Padova, CEDAM, 1999; ID., Luigi Luzzatti economista e politico della Nuova Italia, Napoli, ESI, 2003; A. MAIDA, La giovinezza di Bonaldo Stringher, t.l., Università degli studi di Udine, a.a. 2002-2003; D. IVONE, Banca, finanza e industria in Italia in una corrispondenza tra Bonaldo Stringher e Giuseppe Toeplitz (1919-1930), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005.

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