VALVASONE (DI) ERASMO

VALVASONE (DI) ERASMO (1518 - 1593)

poeta

Immagine del soggetto

Frontespizio del poema "I quattro primi canti del Lancilotto..." di Erasmo di Valvasone, Venezia 1580.

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Frontespizio del poema "Della caccia..." di Erasmo di Valvasone, Bergamo 1591.

La conoscenza della biografia di E. resta ancora da approfondire e perfezionare nonostante il rinnovato interesse nei confronti della sua figura e della sua opera, avviatosi in occasione delle celebrazioni centenarie nel 1993, abbia fornito importanti contributi e segnato una svolta negli studi. Egli nacque a Valvasone verosimilmente nel 1528 (e non nel 1523 come si è cominciato a scrivere a partire dall’Ottocento e in seguito ripetuto acriticamente) da Modesto di Rizzardo dei signori di Valvasone, ramo dei Cuccagna che ricevette l’investitura feudale sul finire del XIII secolo dal patriarca di Aquileia Raimondo della Torre, e da Giulia di Girolamo di Colloredo. E. fu l’unico figlio maschio. La madre morì nel 1530 mettendo alla luce Anna. Con E. quel ramo della famiglia si estinse poiché dal suo matrimonio con la nobildonna veneziana Marietta Trevisan, celebrato nel 1547, non nacquero figli. Circa la sua formazione si sa solamente che fu scolaro dal 1541 al 1544 del celebre Giovan Pietro Astemio a San Daniele del Friuli, alla cui scuola di belle lettere greche e latine accorrevano non solo i rampolli della feudalità friulana, ma anche esponenti di nobili famiglie veneziane come i Contarini, i Corner, i Garzoni, i Gritti, i Giustinian, i Trevisan e i Marcello. Sinora non hanno trovato sicuri riscontri invece le ipotesi avanzate da G. Marchetti di un completamento degli studi a Venezia o a Padova: la nota che nel regesto di Joppi ci informa del periodo trascorso da E. alla scuola di Astemio, facendo riferimento anche ad un anno passato a Venezia (dopo l’aprile 1544?) «per liti dei castellani», lascia aperta la possibilità di un suo impegno di studio. ... leggi Il Liruti, che per primo pubblicò una biografia del poeta, resta piuttosto generico intorno alla sua formazione: «Fin dagli anni suoi più teneri diede argomenti chiari di grande talento, e di somma inclinazione alle Lettere, allo studio delle quali sotto la direzione d’ottimi Maestri applicò assiduamente con riuscimento non ordinario»; tuttavia lo stesso Liruti, nel profilo dedicato ad Astemio, offre un dato importante ricordando come Modesto, pur di sistemare il figlio in tanto celebre scuola, avesse fatto ricorso ad Antonio Belloni, suocero di Astemio. Mortogli il padre all’inizio del 1545, E. fu costretto ben presto ad occuparsi dell’amministrazione del feudo. L’impegno sottraeva tempo alla sua inclinazione poetica come egli fa intendere in un sonetto indirizzato venti anni più tardi all’amico poeta Benedetto Guidi, monaco benedettino in S. Giorgio a Venezia: «Ma civil Marte e fier costume fura / me medesimo al mio genio, e mena altronde; / né fra l’ore di rie cure feconde / ozio mi dona la mia forte ventura». Le espressioni «civil Marte» e «fier costume» sembrerebbero alludere alle battaglie giudiziarie e al rissoso costume sociale che chiamavano il feudatario E. ad impegni che, continui ed estenuanti, finivano per sottrarlo al “genio”, all’esercizio della poesia, e a distoglierlo da essa, come scrive Cerboni Baiardi. A questi versi si può aggiungere la testimonianza dell’amico Cesare Pavesi – nella premessa al Lancillotto (1580) – secondo il quale E. aveva iniziato circa tre anni prima il poema «impiegandovi tutto quel tempo ch’egli ha potuto alle molte sue occupationi furare ch’essendo spesse et importanti, poco di vero li ne hanno potuto concedere». Anche i documenti raccolti in occasione delle ricordate celebrazioni del 1993 danno un’immagine diversa del poeta rispetto a quella che, consegnata dal Liruti, si è poi cristallizzata in buona parte della bibliografia otto-novecentesca (e che talvolta viene ancora oggi ripresa acriticamente) di uomo sedentario, intento agli ozi letterari nel chiuso nel suo castello «dal quale pochissime volte e per brevissimo tempo s’allontanò» (N. D’Agostini), e confutano le perentorie affermazioni del Marchetti: «La sua vita si svolse in modo così incolore, in ambiente così isolato […] dal suo paese risulta ch’egli si sia mosso appena un paio di volte». In realtà E. fu assillato dalla modesta quotidiana pratica politica, da pesanti obblighi giuridico-amministrativi di feudatario, da incarichi avuti dal parlamento della Patria del Friuli ecc., che lo costrinsero molte volte ad allontanarsi da Valvasone anche quando, negli ultimi anni di vita, la podagra lo tormentava; dall’“argomento” di una sua canzonetta siamo informati persino di un suo viaggio per mare e da una sua lettera sappiamo di una sua visita alla corte dell’arciduca d’Austria per questioni d’investiture feudali. La città che maggiormente lo ebbe ospite fu in ogni caso Venezia ove probabilmente stabilì relazioni (forse facilitate da amicizie degli anni sandanielesi) col gruppo di letterati e intellettuali riuniti dapprima attorno a Federico Badoer, nell’Accademia della Fama, e in seguito in casa di Domenico Venier, relazioni che poterono tornargli utili per la sua carriera poetica, dagli esordi agli ultimi anni. Gli inizi poetici di E., scrive Cerboni Baiardi, continuano a rimanere avvolti nell’ombra, vuoi per naturale discrezione dell’autore o verosimilmente per l’emarginazione alla quale i ricordati impegni di governo lo costrinsero. Per quanto è dato sapere in mancanza delle carte di famiglia disperse e mutilate, non resta traccia di attività poetica anteriore al 1561 quando videro la luce tre suoi sonetti nell’antologia di Rime di diversi […] autori, in morte della signora Irene delle signore di Spilimbergo. Curatore della miscellanea era stato Dionigi Atanagi, già segretario dell’Accademia della Fama di Venezia, e l’inserimento di E.d. V. tra i centoquattordici poeti radunati, fu un’apertura di credito a un autore evidentemente a lui in qualche modo già noto e comunque tale da non sfigurare in tale contesto. Quattro anni più tardi fu ancora l’Atanagi ad accogliere altri dieci sonetti del V. in un’altra sua importante raccolta De le rime di diversi nobili poeti toscani del 1565, fornendone un’immagine più compiutamente esemplificativa. Dopo queste prime prove, la produzione lirica volgare del V., intrecciandosi con l’edizione delle altre sue opere, continuò negli anni, disseminata, come lamentava Foffano, in «varie Raccolte, Tempî, Corone, Mausolei», fino ai cinquantasei componimenti messi insieme nel 1592, alla vigilia quasi della sua morte, per iniziativa probabilmente unilaterale dell’editore bresciano Comin Ventura, nella Nuova scielta di rime dell’ill. sig. Erasmo di Valvasone, cui andrebbero aggiunte sporadiche pubblicazioni postume. Affievolita se non scomparsa l’egemonia del modello petrarchesco-bembesco, E. nel suo consapevole isolamento cercò di cogliere in queste rime sparse le occasioni più disparate cantando, come asserisce Cerboni Boiardi: «la morte di personaggi illustri o la celebrazine delle loro imprese, l’omaggio reso alla bellezza o alle virtù di una nobildonna, la lode o il biasimo d’amore, lo spasimo d’una angosciosa contrizione nel giorno del Venerdì Santo, e ancora una donna che canta, una donna che si vagheggia allo specchio, la ‘gran fortuna di mare e di venti’ durante una traversata dell’Adriatico, e fantasie leggere e vaghe d’amori pastorali, paesaggi familiari (il Tagliamento, la Livenza, l’Isonzo, il Lemene, Brugnera) sconvolti dalla tempesta e dal temibile Austro o rasserenanti e cristallini, le grazie di giovani donne vagheggiate o amate, la quiete negata dal sonno, la podagra, i mali della carne mortale e, per perfidi e obliqui segni, le intimazioni del tempo che fugge e dell’irreparabile morte». Nel 1577 aveva iniziato la stesura di un poema cavalleresco che, a causa delle «molte sue occupationi» procedeva lentamente, tanto che vide la luce ancora incompleto, e solo per le insistenze di Cesare Pavesi, nel 1580 a Venezia col titolo I quattro primi canti del Lancilotto. Non è certo se sia stato poi terminato. Circa le fonti utilizzate da E. nella stesura, il rinvio all’Amadigi di Bernardo Tasso proposto dal Liruti non ha trovato adeguato sostegno negli studi successivi, ma mancano ancora indagini approfondite in proposito. La materia è quella tipica dei romanzi del ciclo bretone, disseminato di episodi di giostre, di fughe, di incantesimi, di rapimenti, che talvolta possono apparire senza nesso tra di loro, anche a causa della incompletezza dell’opera. Sempre a Venezia nel 1586 uscirono Le lagrime di S. Maria Maddalena, un poemetto di settantasei ottave che descrive la vita, la conversione e la penitenza della peccatrice di Magdala, e si inserisce in quel corpus poetico che si avvalse della figura della Maddalena per sostenere la Controriforma con argomentazioni teologiche e morali. L’operetta riflette l’exemplum delle Lagrime di S. Pietro di Luigi Tansillo. Nonostante il ricorso a tutta una serie di stereotipi letterari propri della poesia barocca, E. dimostra qui un’inusuale capacità introspettiva descrivendo stati d’animo e risvolti psicologici del personaggio e dipingendo una figura a tutto tondo ora inquieta e pentita, ora disperata, ora gioiosa, ora dolcemente nostalgica. Non è da escludere, suggerisce M. Pelosi, che l’autore sia stato indotto ad un’opera sulla Maddalena dal pannello della cantoria del cinquecentesco organo del duomo di Valvasone ove è raffigurato, ad opera di Pomponio Amalteo, l’episodio della Cena in casa di Simone il Fariseo con la peccatrice ai piedi di Gesù. Di un altro poemetto sacro, la Giudith, citato una prima volta nella prefazione della Tebaide (1570) e nuovamente nella prefazione del Lancillotto del 1580, ove si legge che era quasi pronto per la stampa quando il poeta «impedito d’alcune difficoltà […] fu costretto lasciarlo da parte», ci resta solo la memoria né sembra sia mai stato pubblicato. All’interno della produzione di E. una posizione privilegiata occupa L’Angeleida (1590), poema sacro in tre canti, rispettivamente di 132, 131 e 108 ottave, concluso da un sonetto intitolato all’arcangelo Michele e di undici distici elegiaci in lode dell’autore di Ottavio Menini, giureconsulto e poeta friulano. L’opera, indirizzata al doge Pasqual Cicogna e alla Repubblica, segno della volontà di E. di conformarsi ai disegni politici della classe dirigente veneziana, fu da lui stesso dichiarata orgogliosamente, nella lunga lettera iniziale a Lorenzo Massa, segretario del Senato, «la più nobile e degna» di tutte le sue fatiche, dopo che aveva tentato in gioventù quasi tutte le maniere della poesia. Sempre nella dedicatoria l’autore, parlando dell’origine della poesia, biasima il cattivo uso che di essa fu fatto abbassandola a cantare temi profani, mentre era stata inventata per celebrare le lodi di Dio. Con quest’opera della maturità (le cui fonti si riconoscono nel De partu Virginis di J. Sannazaro; nella Christiados di M.G. Vida; in Torquato Tasso, ecc.), E. si proponeva di realizzare un poema sacro che emulasse il modello epico tassiano della Gerusalemme Liberata emancipandolo dalla condizione di inferiorità in cui si sentiva relegato, e mirava a cantare le stesse opere di Dio e i meriti dei suoi gloriosi santi. Il poema che descrive lo scontro tra le forze del bene (angeli buoni) e le forze del male (angeli ribelli), inizia con un singolare dialogo tra la Natura e Dio, il quale calma le sue ansie predicendone tutta la storia dell’umanità in rapporto alla giustizia suprema: il peccato di Adamo, il diluvio universale, l’incarnazione del Verbo. Quindi l’arcangelo Michele chiama a raccolta gli angeli fedeli per combattere l’immane battaglia, anche con l’uso di cannoni. I buoni, vincitori, dopo aver cacciato nell’abisso infernale le forze oscure e ostili al Bene, risalgono al cielo. In Giove vedono effigiato Sisto V e Venezia circondata dalla Pace, dalla Pietà, dalle Arti. La narrazione si avvia alla conclusione con l’adunata attorno alla colonna della Fama su cui l’arcangelo appende il trofeo a ricordo della grande vittoria. Il poema ebbe grande fortuna come dimostrano le numerose edizioni e, a partire almeno dalla Storia della letteratura italiana (1792) di Girolamo Tiraboschi, fu ritenuto uno dei modelli di cui si era servito John Milton per il suo Paradise Lost; ma la questione, pur ripresa e approfondita nella recente edizione critica approntatane da Luciana Borsetto, richiede secondo Roberto Norbedo ulteriori riflessioni. Nel 1591 venne finalmente edita La caccia un poemetto didascalico in ottave. La prima stesura è da ascriversi alla giovinezza del poeta, probabilmente agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo XVI. Risente dell’influsso de I quattro libri della caccia (1556) di T.G. Ganzarini scandianese, della Coltivazione (1546) di Luigi Alamanni e delle opere di autori classici come Ovidio, Virgilio, Orazio, Stazio, Lucrezio, Plinio e Nemesiano. I contenuti e le partizioni di quest’opera, che ebbe grande rinomanza e fu lodata con sonetti anche dal Tasso, da A. Grillo, da G. Borgogni, da E. Tasso, da N. degli Oddi e da Giovanni di Strassoldo, si inseriscono nella tradizione della poesia didascalica, bucolica e piscatoria. È in cinque estesi canti: nel primo si parla dell’origine della caccia e dell’evoluzione delle varie razze dei cani specializzati a seconda della preda; nel secondo si tratta dei bracchi e dei cavalli più adatti per l’impiego durante le cacce; nel terzo, forse il più composito e innovativo, si parla delle stagioni e dei luoghi adatti alla caccia e vengono rivolti alcuni consigli al cacciatore; nel quarto si spiegano i pregi della caccia, le astuzie degli animali per sfuggire alla cattura e gli esercizi necessari a praticarla con lode; nel quinto si tratta degli uccelli rapaci e dei vari modi per catturarli ed ammaestrarli. Questi argomenti sono spesso intercalati da digressioni di carattere mitologico e geografico e ciascun canto, ad eccezione del primo, contiene una favola: il secondo quella dell’origine dei famosi cavalli del Carso, considerati da E. i migliori; il terzo quella del cacciatore Terone ucciso per non aver pregato; il quarto quella di re Artù e delle prodigiose avventure toccategli inseguendo una cerva dalle corna di rubino, i piedi di ferro e il vello d’oro; il quinto quella di Niso e Scilla, trasformati il primo in smeragliuolo, l’altro in allodola. Se l’intera Caccia è dominata da motivi idillici, le incantate raffigurazioni di stupendi paesaggi naturali costituiscono la parte più interessante dell’opera; tra queste l’ottava centodue del primo canto è la nota descrizione del Friuli che il compositore udinese Piero Pezzè pose in musica nel 1970 per coro di fanciulli a una voce e pianoforte e nel 1977 per coro misto a quattro voci in due diverse versioni (una fu brano d’obbligo al XVII Concorso internazionale di canto corale “C.A. Seghizzi” nel 1978): «Siede la patria mia tra il monte, e ’l mare, / Quasi theatro, c’habbia fatto l’arte, / Non la natura, a’ risguardanti appare, / E ’l Tagliamento l’interseca, et parte: / S’apre un bel piano, ove si possa entrare, / Tra ’l merigge, et l’occaso, e in questa parte / Quanto aperto ne lassa il mar, e ’l monte / Chiude Liquenza con perpetuo fonte». All’attività poetica il V. affiancò anche quella di traduttore concretizzatasi una prima volta nella versione, edita aVenezia nel 1570, de La Tebaide di Stazio, opera da lui considerata, eccezion fatta per l’Eneide, superiore a tutte le altre della letteratura latina. Nella traduzione, quasi tremila stanze in ottava rima distribuite in dodici libri, introduce, seguendo una consuetudine dei poeti epici coevi, alcune digressioni: una nel primo libro per indirizzare la dedica alle principesse Lucrezia ed Eleonora d’Este; un’altra, di quasi cento stanze, nel secondo libro per elencare, come raffigurati sulle pareti d’un tempio, personaggi illustri della sua epoca (re, principi, donne illustri, letterati…); una terza, nell’ottavo libro, per presentare una schiera di donne friulane modello di ogni virtù. L’altra grande fatica come traduttore fu la versione dell’Elettra di Sofocle, pubblicata nel 1588 dopo che egli stesso l’aveva declamata il 20 dicembre 1587 a Venezia nella seduta inaugurale dell’Accademia Uranica di cui era stato eletto membro. In quella occasione gli accademici la apprezzarono con grandissimi elogi e la dedicarono al patriarca di Aquileia G. Grimani, primo componimento «che sotto nome universale d’Uranico viene in luce». Non sono noti i motivi che lo spinsero a scegliere questo dramma, ma forse vi fu indotto dal clima culturale di quel periodo che viveva un intenso interesse per le tragedie antiche e per i drammi a tinte forti; o forse E., aspirando ad emergere ed uscire dall’ambiente periferico in cui si trovava, avvertiva come una debolezza non misurarsi nell’ambito tragico (dopo aver frequentato il genere lirico e quello epico); è possibile anche, osserva I. Pin, che mirasse a moralizzare il genere drammatico teatrale, che nella sua aderenza ai modelli della classicità pagana, si esprimeva mettendo in scena drammi sfacciatamente violenti ed indifferenti all’interpretazione morale cristiana. Indicazioni in questo senso si possono trovare nel Capitolo al nipote Cesare e nella dedicatoria dell’Angeleida (1590). Tra le opere meno conosciute meritano almeno un cenno due capitoli e un trattato: il primo capitolo, In difesa delle donne, edito nel 1572, consta di settantacinque terzine scritte di getto, per ammissione dell’autore, in risposta ad analogo componimento di Vitale Papazzoni, ed è dedicato alle capacità muliebri giudicate non inferiori a quelle maschili e ai loro pregi spirituali; il secondo, A Cesare di Valvason suo nipote (studente di legge a Padova, destinatario anche di una lunga Lettera di precetti in prosa), edito postumo in una Miscellanea di varie operette nel 1743, si estende per centoquarantadue terzine intessute di ammaestramenti morali, di sagge e comuni esortazioni e di inviti a coltivare anche lo studio della poesia; il trattato, Difesa della «Georgica» di Virgilio, indirizzato a Cornelio Frangipane suo parente, rimasto inedito e dato per smarrito a fine Ottocento, sopravvive invece autografo e contiene riflessioni di E. sui fondamentali problemi teorici relativi al poema didascalico. Nessuna delle opere offre qualche riscontro alla notizia di un supposto soggiorno di E. nel 1592 presso la corte dei Gonzaga conclusosi l’anno seguente con la sua morte nella città di Mantova. Le fonti a stampa più antiche che si occuparono del poeta o non ne fanno menzione o dicono che morì nel suo castello di Valvasone. Fu proprio V. Joppi nel suo Erasmo di Valvasone edito a Udine nel 1888 ad indicare Mantova come luogo della sua dipartita (ma in altro suo lavoro manoscritto e di incerta datazione, aveva collocato l’evento in castello a Valvasone), verosimilmente fondandosi su una trascrizione operata da suo fratello Antonio di alcune Memorie del notaio valvasonese Antonio Nicoletti il quale, poco dopo il 1762, ad integrazione della biografia del Liruti, diceva di non poter aggiungere se non «che la morte di esso cavaliere sia seguita a Mantova dove erasi portato come chiamato dal ser.mo Vincenzo Gonzaga suo grande amico, dove furongli fatte solenni esequie. Di questo luogo di sua morte non abbiamo che la semplice tradizione conservata da questi Ill.mi cavalieri suoi discendenti per averla udita dai loro maggiori». Lo scritto di Joppi fu poi, con poche eccezioni, ripreso da quanti si occuparono del poeta. In realtà diversi elementi concorrono a rendere poco credibile questa informazione, tra i quali l’inaffidabilità dimostrata dal Nicoletti in altri suoi scritti (si veda in proposito lo studio di Colussi sul miracolo eucaristico di Valvasone), la documentata presenza di E. in Valvasone almeno fino al luglio del 1593 (se non fino a settembre), la mancanza di un qualsiasi riscontro negli archivi mantovani (tanto più inspiegabile per un «grande amico» del duca), alcuni passi del testamento della moglie Marietta Trevisan, il fatto che Liruti non abbia accolto questa “tradizione” nella sua biografia. Desta perplessità anche la circostanza che la “tradizione” sia stata diffusa nel momento in cui andava crescendo l’interesse intorno alla sua opera e il conte Lodovico Valvasone (1739-1816) meditava (dopo gli infruttuosi tentativi di Luisa Bergalli moglie di Gaspare Gozzi, di Nicolò di Valvasone e di Apostolo Zeno) una riedizione delle opere già apparse con aggiunte attinte a manoscritti oggi perduti. Se dunque resta qualche dubbio circa il luogo della morte, certa appare invece la data collocabile ai primi di novembre del 1593. E certa è pure la necessità di provvedere quanto prima alla più volte auspicata edizione critica completa delle sue opere che ne permetta una migliore comprensione e conoscenza e una più ponderata collocazione nel contesto della letteratura dell’epoca.

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Bibliografia

Mss di E. sono conservati nell’Archivio Frangipane di Ioannis (Udine), nella Bibl. comunale “A. Saffi” di Forlì, nella Bibl. Governativa dei Gerosolimitani di Napoli, nella BCU, nella Collezione Bartolini, presso la BAU e nella BNMV.

Notizie biografiche si trovano in: [A. NICOLETTI], Memorie sopra la famiglia dei Nobb. Sig. Coo. di Cuccagna, e di Valvasone, e sopra la vita del co. Erasmo q.m Modesto il poeta della famiglia stessa, in ms BCU, Principale, 1006, Famiglie friulane: Valvasone; mss BCU, Joppi, 710, Memorie manoscritte de’ letterati friulani e fogli volanti: A, II libro, n. 47; C, f. 193; Ibid., 681, Notariorum, IX, f. 213v; ms BGSD, iscr. XVI, Iscrizioni sacre e profane appartenenti al Municipio di San Daniele raccolte e un pocolino illustrate da G.L. Vidimani.

Edizioni di opere di E. DA VALVASONE: Rime di diversi […] autori, in morte della signora Irene delle signore di Spilimbergo, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, 1561; De le rime di diversi nobili poeti toscani, Venezia, Lodovico Avanzo, 1565; La Thebaide di Statio ridotta dal sig. Erasmo di Valvasone in ottava rima. Alle illustrissime, & eccellentissime madama Lucretia Estense della Rovere principessa d’Urbino, et madama Leonora da Este, Venezia, Frencesco de’ Franceschi Senese, 1570; Al Serenissimo don Giovanni d’Austria, generale della Santa Lega: sonetti, & canzoni dell’Illustre sig. ... leggi Erasmo di Valvasone, per l’espeditione contra Turchi e per la vittoria ottenuta, Venezia, Domenico e Gio. Battista Guerra, 1572 (contiene due canzoni e quattro sonetti indirizzati al vincitore di Lepanto); In difesa delle donne a M. Vitale Papazzoni, in V. PAPAZZONI, Le rime […], Venezia, Domenico Nicolino, 1572; I quattro primi canti del Lancillotto del sig. Erasmo di Valvasone, Venezia, [Fratelli Guerra], 1580 (= Venezia, G. Antonelli, 1838 e 1839); Le lagrime di S. Maria Maddalena del sig. Erasmo delli signori di Valvasone, Venezia, Domenico e Gio. Battista Guerra, 1586 (= Ferrara, V. Baldini, 1586. Riedite nel 1587, 1588, 1589, 1592, 1593, 1595, 1599, 1605, 1613, 1697, 1797, 1838, 1850, quasi sempre insieme a Lagrime di altri autori come L. Tansillo, O. Guargante, T. Tasso, A. Grillo, e in diverse città: Venezia, Bergamo, Carmagnola, Napoli, Torino; l’edizione di Napoli del 1613 è una traduzione in lingua spagnola); Elettra: tragedia di Sofocle, fatta volgare dall’illustre sig. Erasmo delli signori di Valvasone, academico Uranico, Venezia, Fratelli Guerra, 1588; Angeleida del sig. Erasmo di Valvasone. Al serenissimo principe Pasqual Cicogna et alla illustrissima sig. di Venetia, Venezia, Gio. Battista Somasco, 1590 (ristampata due volte nell’Ottocento: la prima a inaugurazione della Raccolta di opere scelte di autori friulani, Udine, Fratelli Mattiuzzi, 1825; la seconda a corredo della versione italiana del Paradise Lost miltoniano prodotta da G. POLIDORI e da lui pubblicata a Londra nel 1842; edizione critica a cura di L. BORSETTO, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005); Della Caccia: poema del signor Erasmo di Valvasone, all’ill. signor Cesare di Valvasone suo nipote, con gli argomenti a ciascun canto, del sig. Gio. Domenico Degli Alessandri, Bergamo, Comin Ventura, 1591 (nuova edizione nel 1593 sempre per Comin Ventura, riedita, corretta e ampliata – il canto I passò da 166 a 175 ottave, il II da 196 a 197, il III da 138 a 152, il IV da 170 a 219, mentre il V restò di 205 ottave – con un commento erudito di O. MARCUCCI alias Scipione di Manzano; altre edizioni nel 1602, 1808, 1850); Nuova scielta di rime dell’ill. sig. Erasmo Valvasone, Bergamo, Comin Ventura, 1592; Lettera di precetti et avvertimenti del molto illustre sig. Erasmo de’ signori di Valvasone al molto illustre signor Cesare suo amatissimo nipote, in S. TREO, Lettera di copioso discorso […], Treviso, Angelo Righettini, 1610; Capitolo di Erasmo de’ Signori di Valvasone a Cesare suo nipote, in Miscellanea di varie operette al reverendiss. padre, il P. M. Calisto M. Palombella […], Venezia, Tommaso Bettinelli, 1743 (capitolo e lettera furono probabilmente scritti intorno al 1584, quando Cesare attendeva agli studi padovani).

LIRUTI, Notizie delle vite, II, 385-404, IV, 46-52; MARCHETTI, Friuli, 347-355; Mille protagonisti, 489-491; N. D’AGOSTINI, Erasmo di Valvason, Udine, del Bianco, 1896; F. FOFFANO, Erasmo da Valvasone. Appunti su la vita e le opere, in Ricerche Letterarie, Livorno, Tip. Giusti, 1897, 87-131; F. CARRERI, Breve storia di Valvasone e de’ suoi signori dagli inizi al 1806, Venezia, Tip. Fontana, 1906; E. DI VALVASON, La caccia, Udine, Del Bianco, 1961 (Biblioteca minuscola di autori friulani a cura di G. D’ARONCO, 8); D. MICHELINI, Difesa delle Georgiche di Virgilio di Erasmo di Valvason, t.l., Università di Urbino, Facoltà di Lettere, a.a. 1982-1983; E. DI VALVASONE, Le rime, Introduzione e note di G. CERBONI BAIARDI [e] Bibliografia erasmiana, Indici di A. DEL ZOTTO, Valvasone, Circolo Culturale Erasmo di Valvason, 1993 (raccoglie 110 componimenti, pressoché l’intero corpus della produzione lirica volgare disseminata nella varie raccolte, tra cui i due capitoli e le poesie indirizzate a Giovanni d’Austria); F. COLUSSI, Il miracolo eucaristico di Gruaro-Valvasone: indagine storico-documentaria, in Il miracolo eucaristico di Gruaro-Valvasone, a cura di ID., Pordenone, Parrocchie di Gruaro e Valvasone, 1994, 17-51: 18-21; Erasmo di Valvasone (1528-1593) e il suo tempo. Atti della giornata di studio (Valvasone, 6 novembre 1993), a cura di F. COLUSSI, Valvasone/Pordenone, Circolo culturale Erasmo di Valvason/Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1996 (in particolare: F. COLUSSI, Erasmo di Valvasone: appunti per una biografia (cronologia, epistolario, testamento), 195-272; P. RIZZOLATTI, Erasmo di Valvasone e la letteratura friulana del secolo sedicesimo, 273-287; M. PELOSI, Note su Le lagrime di Santa Maria Maddalena di Erasmo di Valvason, 289-297; I. PIN, Erasmo traduttore dell’Elettra di Sofocle, 299-335; A. DEL ZOTTO, Addenda alla biliografia erasmiana, 337-356); G. CARBONARA, L’Elettra sofoclea di Erasmo di Valvasone, t.l., Università degli studi di Milano, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 1997-1998; P. PEZZÈ, Antologia corale, II, a cura di R. FRISANO, Udine, Pizzicato, 2000 (Choraliamusica. Unione Società Corali del Friuli-Venezia Giulia, 4), 7, 21-30; E. DI VALVASONE, Angeleida, a cura di L. BORSETTO, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005; S. RITROVATO, «… per raccor senza pro vani ligustri». Il ‘postpetrarchismo’ di Erasmo di Valvasone, in Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l’Europa, a cura di F. CALITTI - R. GIGLIUCCI, Roma, Bulzoni, 2006; R. NORBEDO, Appunti su un’edizione dell’Angeleida di Erasmo di Valvasone, «Lettere Italiane», 40/1 (2008), 102-115 (contiene gli ultimi aggiornamenti bibliografici su E. di V.).

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