Dizionario biografico dei friulaniBiografie dei friulani illustri2023-09-18T07:25:35Zhttps://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/feed/atom/WordPressegidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=238272022-12-23T19:36:49Z2022-12-12T17:18:37ZNato a Nimis (Udine) il 15 dicembre 1913, dopo gli studi classici si laureò in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana nel 1940. La sua prima pubblicazione, dedicata al teologo e giurista Ambrogio Catarino risale proprio a quell’anno. Partecipò come ufficiale di complemento alla seconda guerra mondiale e, tra il 1945 e il 1947, scrisse per la «Libertà» (vari articoli sull’eccidio di Torlano) e poi anche per il «Giornale alleato». Nel 1946 diventò giornalista pubblicista e contemporaneamente entrò nell’organico della Biblioteca Civica ‘Vincenzo Joppi’ di Udine come vicedirettore dell’istituto retto da Giovan Battista Corgnali. Negli anni successivi, conseguì il diploma di biblioteconomia della Biblioteca Apostolica Vaticana e poi la laurea in Lettere a Padova. Cominciò anche, grazie all’amicizia con il pittore Giovanni Napoleone Pellis che abitava accanto alla Biblioteca, la frequentazione degli artisti udinesi dell’epoca, tra i quali Fred Pittino, Bepi Liusso, Nando Toso, dedicando articoli o recensioni alle loro mostre. Dopo l’uscita di contributi per il centenario del pittore Odorico Politi, l’anno successivo, nel 1947, pubblicò la monografia a lui dedicata: a questo artista nei decenni seguenti avrebbe dedicato ancora altri interventi. Nel 1954, superato il concorso bandito in seguito al pensionamento di Corgnali, assunse la guida della Civica. ... leggi Iniziò per l’istituto udinese una vita diversa e dinamica, sulla scia della ripresa post-bellica: in pochi anni i locali di palazzo Bartolini subirono una radicale trasformazione e i nuovi arredi metallici fecero il loro ingresso, sostituendo quelli lignei che avevano caratterizzato le origini dell’istituto. Per la carenza di spazi a metà degli anni Cinquanta venne presa dal Comune la decisione di costruire una torre libraria imponente nella parte interna di palazzo Bartolini, ai piedi del colle e, poco dopo, sul finire dello stesso decennio, grazie anche all’apertura dell’Archivio di Stato, gli archivi delle Congregazioni religiose soppresse e di molte famiglie friulane vennero da C. lì trasferiti in deposito, liberando gli spazi per accogliere prestigiose collezioni di libri e manoscritti, come gli autografi e le lettere di e a Ippolito Nievo, la Biblioteca Manin, proveniente dall’omonima Villa di Passariano (1949), la raccolta di autografi della scrittrice friulana Caterina Percoto (1954) e la collezione libraria e manoscritta dell’araldista-genealogista Enrico del Torso (1955). Dal punto di vista organizzativo nel 1958 venne approvato il nuovo Regolamento della Biblioteca che sostituiva il precedente del 1904. Importanti i suoi contributi alla storia della stampa in Friuli: nel 1952 pubblicò su «La Bibliofilia» la Bibliografia degli scritti stampati da G.B. Natolini primo tipografo friulano, dedicata al tipografo attivo a Udine tra il 1592 e il 1609; il saggio sarà poi ampliato, diventando il suo più importante lavoro bibliografico con il titolo Annali tipografici di G.B. Natolini, uscito infine in forma monografica nel 1956. C. partecipò attivamente alla vita dell’Associazione Italiana per le Biblioteche (AIB), intervenendo a Venezia nel 1957 al Convegno delle biblioteche pubbliche non governative con la relazione La posizione della Biblioteca Civica di Udine nell’organico del Comune. Nel 1958, con lo scopo di promuovere l’istituzione di biblioteche pubbliche nei centri più importanti della Provincia udinese, organizzò il Convegno delle Biblioteche Comunali della Provincia di Udine, di cui curò gli atti, editi nel 1959. Alla storia della Joppi è dedicata Una biblioteca nel tempo, uscita nel 1959. Nel periodo in cui fu direttore della Joppi, C. continuò la collaborazione – intrapresa già dal 1946 come giornalista pubblicista – con riviste culturali, quotidiani e giornali principalmente della regione su cui pubblicò articoli, saggi e recensioni storiche, artistiche e letterarie. Fu socio dell’Accademia di Udine dal 1949 (e poi socio onorario dal 2008) e, dal 1952, della Deputazione di Storia Patria. Intraprese anche la collaborazione con la RAI di Trieste per la quale curò diverse puntate sulla storia di Udine, che sarebbero confluite successivamente nel libro Passeggiate udinesi. Nel 1960 lasciò la direzione della Civica di Udine – dove fu ultimo testimone e protagonista del passaggio tra due epoche contigue ma distantissime – per entrare in RAI. Si trasferì alla sede di Trieste, dove gli venne affidato inizialmente il Gazzettino del mattino, per seguire poi la Terza pagina alla quale collaboravano critici musicali, cinematografici, artistici e letterari. Del 1961 è l’iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti. Seguì anche, come inviato a Udine, la visita di papa Paolo VI nel 1972 e, dopo il 6 maggio 1976, ebbe la responsabilità della redazione udinese per seguire le vicende del devastante terremoto. Dopo la quiescenza, rimase sempre legato ai molti interessi culturali della sua vita e continuò a pubblicare articoli, studi e recensioni: tra i lavori più organici e impegnativi della sua bibliografia, ricca di oltre 250 titoli, L’arte della stampa nel Friuli Venezia Giulia, uscita nel 1980, che costituisce la prima storia della tipografia e dell’editoria regionale dal 1480 fino agli inzi del XX secolo, e la monografia del 1992 dedicata alla figura di Giuseppe Del Bianco. Gli ultimi articoli degli anni duemila riguardano la bibliografia del medico umanista e suo amico Luigi Ciceri (2000) e la vita e l’attività pittorica di Giuseppe Uberto Valentinis (2002). Il 24 dicembre 2015 morì nella sua casa di Tarcento (Udine) dove si era trasferito negli ultimi anni.Chiudi]]>0egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=237922022-03-15T16:54:49Z2022-02-27T11:08:08ZNato a Gemona del Friuli l’8 agosto 1967, primogenito di Antonio, ferroviere, e di Bruna Maieron, casalinga, trascorse gli anni dall’infanzia all’adolescenza a Chiusaforte. Al paese e alla sua gente rimase sempre profondamente legato, e sono loro dedicate molte liriche evocative, tra le sue più intense. «Pierluigi Cappello era una specie di incarnazione del Friuli: la sua terra ha materiato ogni fibra della sua personalità umana e poetica, sia che la esprimesse nella poesia in friulano, sia che la mediasse con la lingua italiana. Pochi autori ho conosciuto che avessero una impronta così viva dei luoghi in cui erano cresciuti nella loro evoluzione: credo dipenda dal fatto che Pierluigi aveva scoperto questo suo universo nel momento del grande trauma del terremoto del ’76: una circostanza che ha funto da moltiplicatore per l’intensità dell’affetto con cui il poeta si è legato ai suoi luoghi» (Fo 2021). Il terremoto che distrusse la sua casa segnò per il fanciullo di neppure nove anni il definitivo venir meno di un mondo e di una cultura da tempo minati dal boom economico. «Ai bambini che hanno riunito la forza della loro immaginazione per contenere il terrore del terremoto durante quella sera del ’76 si è aperta dentro una faglia di precarietà, e credo che la mia ossessione per la scrittura muova dal buio di quella faglia e dal tentativo, patetico quanto ostinato, di riavvicinarne i lembi» (Cappello 2013 p. 53s). «Rispristinare un ordine perduto è stato, a ben riflettere, anche il senso della scrittura di Cappello» (Affinati 2018 p. 89). La sua poesia più matura è tutta permeata dal senso di appartenenza (Cappello: «resto un uomo di montagna, / aperto alle ferite» – Lettera per una nascita) e dal desiderio di un impossibile ritorno al “mondo di prima” e di un ricongiungimento ai suoi familiari e compaesani morti. ... leggi Esperienze diverse, congiunture felici lo iniziarono in quegli anni alla passione per la lettura e da essa per la scrittura: l’ascolto, dalla voce di un’insegnante di lettere, della Chanson de Roland e il dono da parte della stessa di Addio alle armi di Hemingway, e la lezione di un’insegnante di matematica sull’esattezza delle parole. Maturarono, quelle letture e quella lezione, nel suo amore per la lettura, nella scoperta di una letteratura specchio della vita e nella convinzione che la lingua della poesia è altra cosa rispetto a quella della scienza: le parole di questa sono non più che “termini”, mentre la precisione della parola poetica è quella «che dà forma tangibile all’indeterminatezza dei sentimenti» (Cappello 2013 p. 80s), parola veritativa e rivelatrice di una realtà ulteriore. La cifra poetica di Cappello fu quella del dire come espressione: non mera comunicazione, né frutto di “ispirazione”, ma un dire proprio, saggiato e perfezionato attraverso il confronto con la grande tradizione letteraria e l’elezione di un canone personale. Un altro episodio scolastico determinante nella sua formazione fu il premio ricevuto per un componimento sull’esperienza della profuganza a Lignano nei mesi successivi al nuovo sisma del 15 settembre e del ritorno a Chiusaforte nei prefabbricati del campo Ceclis. Si trattava di un volume illustrato sugli aerei che accese in lui la grande passione per il volo che lo spinse, terminate le medie, a iscriversi al corso di aeronautica dell’Istituto Tecnico Malignani di Udine. «Volare per lui, diventare pilota, era un traguardo pratico, fatto di conoscenza tecnica degli aerei, motori e modelli … ma era anche un sogno ampio, pieno di cielo e di metafora, senza retorica» (Archibugi p.10). Ma l’11 settembre 1983, appena sedicenne, Pierluigi, studente brillante, promessa dell’atletica come centometrista, subì l’incidente motociclistico che lo lasciò permanentemente invalido, condizione cui seppe reagire con la «consapevolezza che ognuno di noi porta in sé un limite che è anche una soglia. Delle colonne d’Ercole che rappresentano l’invito ad essere superate» (Cappello 2013 p.166). Ricoverato presso un istituto di riabilitazione, ne uscì quasi diciottenne nel marzo del 1985: «un tempo che ha cancellato ogni continuità con le premesse della sua esistenza per consegnarlo a un diverso progetto di vita che comporta dure limitazioni e ferrei vincoli». (Villalta 2018 p. 63). «Ciò che è rimasto in piedi e che ha rappresentato la linea continua tra la vita di prima e la vita di dopo, è stata la letteratura. Anzi, la passione si è liberata dal peso delle regole del branco. Ridotta a una vita clandestina durante gli anni di collegio e di studio, ora bruciava più che mai» (Cappello 2013 p. 169). Fu dunque il tempo della degenza anche quello della scoperta, attraverso la lettura, di «una vocazione letteraria già presente e che ora viene alla luce senza più condizionamenti sociali» (Reitani). Tutto ciò Cappello rievocò – dopo lunga elaborazione, quasi trent’anni – nell’autobiografico Questa libertà, splendido testo in prosa non meno preziosa della sua pienamente matura poesia. Il titolo dell’opera è dichiarazione della trasformazione del proprio stato, attraverso la letteratura, in una superiore forma di libertà: il «letto come tappeto volante». Compì gli studi superiori passando al liceo scientifico Paschini di Tolmezzo e le magistrali di Udine per poi iscriversi alla Facoltà di Magistero, corso di materie letterarie, presso l’Università di Trieste, rinunciando però alla laurea per dedicarsi esclusivamente alla poesia. Suo esordio da verseggiatore fu, nel 1989, la raccolta Ecce homo, che presto ripudiò e non volle figurasse nella sua bibliografia; liriche malcerte, nelle quali già ricorrono i temi a lui più cari: la poesia stessa (molta della sua scrittura ha carattere di metapoesia), Chiusaforte, la propria condizione; presente un unico testo in friulano, il Dì dai muarz, anch’esso anticipatore. Nei successivi cinque anni Cappello si impose un severo tirocinio: «Per scrivere poesie ho dovuto dedicarmi a un profondo studio della metrica italiana. Per me che venivo da una scuola tecnica, ha assunto quasi le dimensioni di un’iniziazione. È stato uno studio feroce. Da una parte avevo il libro di Dante i cui versi erano divisi sillaba per sillaba, dall’altro il manuale di metrica per verificare se facevo pasticci o no. È fondamentale che ci sia l’aspetto concreto in qualsiasi fatto che riguarda il nostro spirito perché ci riconduce alla sostanza delle cose» (Cappello in D’Agostini p. 61). Nel 1994 pubblicò Le nebbie, silloge che Pierluigi non rinnegò ma non accolse nell’antologia della sua produzione “autorizzata”. «Le nebbie merita tuttavia di fare da apripista, di inaugurare un tempo che nei suoi frastagli non ha continuato che a incidere lo stesso solco, ad accudire lo stesso miele, a suggere lo stesso fiele … nei sonetti di quel libro c’è già tutto un mondo… ci sono, incatenati in “armonia” di metri e rime gli elementi primi di un mondo di poesia e… l’accompagnamento di una letterarietà sapiente e acerba insieme, puntuale e nondimeno abilmente sovrapposta, precisa eppure minuziosamente artificiosa» (Tesio 2006 p.11). Le nebbie sono il frutto del lungo, esigente, strenuo apprendistato degli strumenti tecnici del poiein: forme, metri, ritmi, tropi la cui perfetta padronanza si trasmuta in naturalezza, anzi natura, e in progressiva semplicità. Di qui la scelta iniziale di forme chiuse – quartine, sonetti, rime – che, proprio in quanto costrittive, diventano di fatto elementi di creatività. «Il linguaggio di Pierluigi Cappello si caratterizza decisamente come linguaggio “poetico” nel senso che comporta un alto tasso di artificio linguistico, e attraverso le molte figure retoriche viene istituito un fitto intreccio di rapporti fonici tra le parole» (Tore Barbina 1994 p. 8). «La prima modalità del fare poesia di Pierluigi Cappello ha … un carattere musicale; egli non abbandonerà mai questa attitudine, né la riflessione su di essa, ma in un secondo momento la riassorbirà dentro un orizzonte esistenziale più ampio e più complesso» (Villalta 2018 p. 66). Tale iniziazione fu oggetto del saggio del 1998 La mela di Newton, programma di una poetica che poi andò chiarendosi e semplificandosi, diversamente ma non meno esigente, affinata dal confronto con quella di autori esemplari (Caproni soprattutto) e sempre più personale. Magistrali le riflessioni sull’uso del sonetto e delle forme chiuse in genere. Nello stesso anno e presso lo stesso editore pubblicò La misura dell’erba, sedici poesie che tra lirica e metapoesia mostrano i frutti ormai maturi di una ricerca formale che evolve dall’estremo virtuosismo a un «più disinvolto uso di forme metriche, assai accosto al verso libero» (Tapparo 1998 p. XIV). «Si tratta di una poesia che accompagna al grande nitore espressivo … una forza di coesione semantica e una concentrata ricchezza di suoni che non è possibile ignorare. Infatti sarà subito notata e apprezzata» (Villalta 2018 p. 67). Della «forma quasi perfetta dei suoi componimenti» fu persuaso Amedeo Giacomini, che accolse nella rivista Diverse lingue alcune delle poesie in friulano poi edite in una plaquette dal titolo – immediata citazione di Pasolini – Il me Donzel, silloge per la quale Cappello ricevette i premi San Vito e Lanciano-Mario Sansone. Vi comparivano quindici dei ventisei sonetti minori (in versi settenari) che andarono a costituire la prima sezione della silloge Amôrs (1999). La figura del Donzel di cui Cappello si fa specchio ha un carattere introspettivo-narcisistico, autotelico, che viene superato negli Amôrs, tredici poesie in verso libero e schemi diversi nelle quali compare, in funzione di apertura dialogica, la figura della Domine, «creatura femminile, sorta di divinità fertile, di figura della movimentazione del mondo … Così si realizza per altra via la fuoruscita dal cerchio dell’incantagione aurorale … la rottura della regressione narcissica del donzel, grazie allo scatto amoroso, al dono che si muove “verso” e viene da un “tu” … fino ad approdare all’invocazione libare tu, Domine mê, la mê libertât…» (Piccini p. 7). Amôrs segnò un momento importante nell’evoluzione della poetica di Cappello dal lirismo al confronto con la realtà oggettiva. Quanto alle forme adottate, «nessuno, che io sappia, prima di me aveva scritto dei sonetti minori in friulano, o ripreso, come ho fatto io, l’uso fonetico timbrico dai poeti delle origini romanze, con inserti dalla tradizione francese quattro-cinquecentesca. Non riconosco ascendenza, neppure quella pasoliniana, cui si potrebbe pensare. Diversa dalla mia fu l’esperienza di Pasolini: il suo donzel era un ragazzo reale; il mio è figura di carta, poiché a quella realtà non si può più attingere, è diventata altro. Ma certo riconosco il debito verso Pasolini, e verso coloro che hanno aperto per la poesia friulana una stagione di libertà: Giacomini e Bartolini, soprattutto» (Cappello, in Turello 2004). Quanto al dialetto, «conta il fatto di essere nato a Chiusaforte in cui vive linguisticamente una variante contadina di slavo e carnico … uso una variante centrale della koiné, muovendola, screziandola con apporti diversi, eterogenei. Sì, nel mio fare c’è molta consapevolezza della eccentricità del dialetto. Per me è una lingua del sogno, del non-luogo, magia evocativa… È un friulano parlato che interiorizzo, ecco, un parlato interiore… Per sganciarmi dalla realtà, per entrate nella dizione del sogno. Pasolini è un maestro in questo senso» (Cappello in Torrecchia p. 541). A giudizio di Maurizio Casagrande «non sembra legittimo ridurre Cappello né a un tardo epigono di Pasolini né a un poeta da etichettare sbrigativamente come neodialettale o postdialettale. Sembra piuttosto un innovatore tanto in dialetto quanto in lingua». La terza sezione di Amôrs comprende sei Variazions, traduzioni da Caproni. «Il mio modello è soprattutto Giorgio Caproni. Sono approdato come lui a un’idea di “trasparenza” della poesia: la poesia è un gesto che diventa natura dopo essere stato storia; è il gesto affinato del samurai» (Cappello in Turello 2004). Il premio San Vito introdusse Cappello in una cerchia di amicizie, rete di condivisione e di confronto critico tra diverse poetiche. Nel 1999, assieme a Ivan Crico, ideò e inizialmente diresse La barca di Babele, una collana edita dal Circolo Culturale di Meduno che accolse poeti dell’area friulana, veneta e triestina. Nella stessa collana, dopo di lui diretta da Amedeo Giacomini, nel 2002 pubblicò Dentro Gerico. I versi di Wyslawa Szymborska in epigrafe (Morire quanto è necessario, senza eccedere / Ricrescere quanto occorre da ciò che si è salvato) sono un chiaro riferimento alla sua condizione, e «ciascuna delle tre sezioni in cui è suddivisa la raccolta si apre e si chiude su testi che rappresentano altrettanti snodi di un travagliato percorso esistenziale» (De Simone 2002 p. 53). La città biblica, ad un tempo rifugio e recinto, ripara dall’assedio del male ma al tempo stesso preclude le infinite possibilità oltre le mura. «In questa sua bipolarità, la città murata è naturalmente trasfigurazione della condizione esistenziale del poeta. Ma forse, in prospettiva, si fa simbolo anche della condizione sociale di un Occidente che, reso claustrofobico dai suoi stessi traffici e dalle reti (e mura) di sovrastrutture edificate a difenderli, guarda all’assedio dei “barbari”, di questa gente rozza ma più vicina all’immediata vita delle cose, in una prospettiva quasi kavafiana, di catastrofe terapeutica» (Fo 2018 p. 24s). «Nella poesia di Cappello l’io poetico è l’io di un esiliato dal mondo, uno che in quel mondo non si riconosce, ma cui resta tuttavia l’appetito e la volontà di attraversarlo, di comprenderlo» (Tesio 2006 p.13). Tra i temi più significativi della raccolta compaiono sia quello, poi sempre più presente e accentuato, della resistenza («qui resistere significa esistere» – La retroguardia), sia una apertura alla trascendenza nelle accorate invocazioni/preghiere di Isola e D’inverno: una «spiritualità di lirico colto». (Sgorlon). Del 2004 è Dittico, silloge bilingue che comprende venti poesie, dieci in friulano e dieci in italiano, intitolate rispettivamente Inniò e Ritornare, a indicare il desiderio, l’«imperdonabile speranza» (Tesio p. 14) di un chimerico altrove e un rimpatrio che approda a un faticosamente conquistato, poetico ed esistenziale “assetto di volo”: questo il titolo – poi esteso al corpus decennale della sua produzione – della poesia conclusiva che di fatto segna «l’inizio di quella sommessa, alta epica del quotidiano che sarà la cifra più notevole di Pierluigi Cappello nelle successive e meglio note opere» (Villalta 2018 p. 80). Dittico ricevette il Premio Montale; fu occasione per Cappello di puntualizzare a proposito della sua produzione in friulano: «Neppure io potevo più scrivere come i poeti dialettali degli anni Settanta e mi sono inventato, attingendo a Pasolini e agli stilnovisti, le figure del donzel e della domine in funzione di filtro, di uditori consentiti alla mia poesia. E la mia lingua friulana è la lingua della terra che non c’è, o meglio, lingua che è terra essa stessa: all’interno di questo cerchio posso muovermi con la massima libertà e scrivere, ad esempio, Rondò che foneticamente è tessuto di richiami provenzali. Mi sono posto davanti al friulano come i poeti del ’200 si ponevano davanti ai volgari … Fino ad oggi le due forme [italiana e friulana] sono rimaste separate, ora s’intrecciano in modo singolare. Inniò, che dà il titolo alla sezione friulana, è un avverbio che significa “in nessun luogo”; io lo uso come sostantivo: equivalente a utopia, a chimera, a luogo del sogno. Ad esso è demandata l’espressione onirica, interiore, più personale dell’autore. La sezione italiana apre invece alla realtà, alla contemporaneità … è il rovesciamento delle tradizionali funzioni attribuite al dialetto e alla lingua». (Cappello in Turello 2004). Nel 2006 l’editore Crocetti raccolse quasi tutti i versi di Cappello sotto il titolo di Assetto di volo, ormai metafora di un percorso poetico giunto a perfezione, e ne sostenne il lancio dedicando al poeta una copertina della prestigiosa rivista «Poesia». Il libro vinse il Premio Nazionale Letterario Pisa, il Premio Bagutta 2007 sezione Opera Prima, il Superpremio San Pellegrino 2007, il Premio Speciale della Giuria “Lagoverde 2010”. Nel 2008 Cappello pubblicò Il dio del mare, raccolta di sei prose: oltre a Non un milligrammo di meno, breve rivendicazione del carattere resistenziale della propria poesia nei confronti di ogni genere di volgarità: guerra, violenza, umiliazione, ostentazione («Essere volgari è seducente. Per conto mio, mi ingegno di resistere, per lo più leggo e qualche volta scrivo. Scrivere versi è preparare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, portarne tutto il peso, non un milligrammo di meno» (p. 5); La mela di Newton; Quattro cavalieri, straordinaria esegesi del canto XXVIII dell’Inferno in parallelo con gli orrori di Auschwitz; Alla mamma il capo dei banditi, in memoria del partigiano Ettore (Gino Lizzero), In una scheggia il mondo, sintesi delle sue riflessioni sulla poesia, e il Bosco di Coutron, magistrale analisi metrica della poesia di Ungaretti Soldati, più volte proposta da Cappello nelle lezioni che tenne presso l’Università di Udine e in diverse scuole del Friuli, di ogni grado. È del 2009 la pubblicazione di Voci nella mia voce, felicissimo frutto della conversazione sulla poesia epica e lirica con le classi quinte della scuola primaria di Tarcento. Una citazione almeno: alla domanda dei bambini: «Serve studiare? Serve leggere?» risponde: «La funzione della cultura, del leggere, è quella di acquisire una grande semplicità, una grande chiarezza di vista. A voi sembra che più libri si leggono, più le cose si facciano difficili. Non è vero. Più libri si leggono e più le cose dovrebbero essere viste in maniera chiara, elementare» (p.25). Da Assetto di volo rimasero escluse Lenebbie, quindici poesie di La misura dell’erba, sei di Amôrs e le traduzioni da Caproni; vi figuravano invece tre poesie inedite: Mandate a dire all’imperatore, La luce toccata e I vostri nomi. La prima diede il titolo alla successiva raccolta, pubblicata da Crocetti nel 2010, che valse a Cappello il premio Viareggio. La lirica introduttiva, rovesciando un famoso apologo kafkiano, enuncia un’idea resistenziale della poesia che nella prima sezione, I vostri nomi, Cappello traduce in un epos degli umili, a cominciare da suo padre e dalla gente di Chiusaforte: ombre, nomi, voci, neve. Testi di profonda commozione; raggiunto l’assetto formale del suo volo, il poeta si concede di trattare di sentimenti, affetti, intimità senza timori di sentimentalismo. «Il monito di questa poesia … riguarda il logoramento, lo svuotamento delle parole, e con esso anche la perdita di senso delle nostre esistenze … sono persuaso che noi dobbiamo, anzi siamo tenuti, chi scrive soprattutto e chi scrive poesia in particolare, a dare delle risposte ai nostri morti … Ma dobbiamo delle risposte anche a coloro che verranno … e in più dobbiamo anche delle risposte, in chiave sincronica, a coloro che vivono con noi l’epoca che stiamo vivendo. Per cui, ecco, il cardine di tutto quanto è, proprio nel suo significato etimologico, il concetto di responsabilità che porta con sé la parola. E questo concetto si pone in maniera gratuita, disarmata, in opposizione invece all’irresponsabilità con la quale le parole vengono usate spesso (ne abbiamo esempio quotidiani, soprattutto dalla televisione). Quindi, quando ci sono in molte mie poesie queste figure, queste ombre, che premono, in realtà non sono ombre, sono presenti, affiorano alla luce nello stesso momento in cui vengono pronunciati quei nomi: perché portano con sé una storia, perché a quei nomi, a quelle azioni, noi dobbiamo delle risposte, agendo e interagendo in maniera specifica con ognuno di loro» (Cappello in Zadra e Zobele). L’impegno di responsabilità fu da Cappello esteso anche al rapporto con la tradizione letteraria: «La cura con cui si scrive si irradia anche sul passato» (Cappello in Turello 2010). Seguono i due gruppi di Dedica a chi sa, di riservato carattere amoroso, e Restare, che si apre con la poesia Poiein, di cui va citata almeno l’invocazione Rimetta a noi i nostri cieli la parola aggiustata. Chiude e sigilla la raccolta La via della sete, un’allegoria con molti tratti di oscurità, dantesca visione di catabasi ed ascesa, dalla versificazione insolita, ma strettamente connessa alle liriche dedicate ai suoi morti (anche qui centrale è la figura del padre). Nello stesso anno Cappello ragionò della propria poetica resistenziale e memoriale in dialogo con il fotografo Danilo De Marco (Trimant il vivi). Nel 2011 pubblicò Rondeau, che raccoglie sue traduzioni in friulano da Shakespeare, Rimbaud, Aleixandre, Kavanagh, Caproni, Montemayor, lette da lui stesso nel CD allegato. Nel 2012 curò per Rizzoli la propria antologia Azzurro elementare. Poesie 1992-2010. Completato Assetto di volo con Mandate a dire all’imperatore, diede forma a un canzoniere unitario e compatto eliminando le cesure tra le varie raccolte. Così come non licenziava un singolo verso che non avesse una sua intrinseca necessità (che non fosse «vero ed onesto») Cappello compose le sue raccolte, e ancor più questa, secondo disegni coerentissimi. L’introduzione è di Francesca Archibugi, la regista che nel 2013 girò il film Parole povere dedicato a Cappello e alla sua poesia. Nel settembre 2013 apparve Questa libertà. «La scrittura mi ha torto il collo e ha costretto il mio sguardo nei luoghi felici dell’infanzia o a muovere i miei passi dentro dolori intensi che pensavo di avere rimosso» (Cappello 2013 p. 9). Del libro ha dato una puntuale e partecipe lettura Luigi Reitani che, riguardo ai due motivi dichiarati, scrive che nei primi quattro racconti l’autore «sa trarre dall’accaduto significati universali, senza tuttavia mai scadere in un facile moralismo», nel quinto «affronta con coraggio disarmante le conseguenze di un incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle, privandolo delle speranze riposte nel futuro». Nel 2014 pubblicò Ogni goccia balla il tangoRime per Chiara e altri pulcini, una serie di deliziose filastrocche dedicate all’amatissima nipotina Chiara, con illustrazioni di Pia Valentinis. Dopo un periodo di infermità particolarmente penoso, nel 2016 pubblicò Stato di quiete. Poesie 2010-2016. Sei anni, trenta poesie soltanto; nella nota introduttiva scrive: «Ci sono dei momenti nella vita in cui stare fermi è la scelta migliore, bisogna addensarsi intorno alla propria energia potenziale e lasciarsi scorrere addosso la bufera. Non è qualcosa di passivo; significa essere l’occhio di un ciclone» (p.14). Ma la raccolta è percorsa da un senso di resa, di abbandono, di rassegnato presentimento. Morì cinquantenne a Cassacco (Udine), domenica 1 ottobre 2017. L’anno seguente Rizzoli pubblicò Un prato in pendio. Tutte le poesie 1992-2007 integrando Azzurro elementare con Ogni goccia balla il tango, Stato di quiete e alcuni inediti, «scritti in sé mirabili, e, alla luce di tutta la sua parabola esistenziale e creativa, mirabilmente significativi» (Fo 2018 p. 48): otto poesie e alcune prose. Tra queste la più consistente, Cassacco anno zero, è il segmento finale della sua autobiografia, «una sorta di seguito naturale di Questa libertà» (Fo, ibidem), toccante racconto dell’ultimo ricovero ospedaliero e lucida riflessione sulla propria sorte: «la vita mi ha riservato il ruolo di un homo patiens. Allora mi chiedo se la pazienza sia la capacità di sopportare annullandosi o la capacità di sopportare ma sentire senza annullarsi. E non so darmi una risposta. Se non sostituendo il verbo sopportare con la locuzione “essere capaci di abbandonarsi”. Abbandonarsi, nel mio caso specifico, alla lingua, alla parola, in definiva alla vita» (Cappello 2018 p. 440). Oltre alla propria attività letteraria, Cappello fu generoso ideatore e curatore di iniziative di grande spessore culturale, tra cui la rassegna Lo sguardo della poesia, restare umani. Percorsi di poesia contemporanea promossa Comune di Tarcento, la maratona poetica presso i Colonos di Villacaccia, con interventi di ventidue poeti friulani raccolti con sua presentazione nel volume i colôrs da lis vôs (Associazion Culturâl Colonos 2006, con CD), gli spettacoli itineranti dei Cercaluna (vedi Medeossi 2019). Il 6 novembre 2012, al palazzo del Quirinale, Cappello ricevette dalle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il premio Vittorio De Sica 2012 per la poesia. Il 21 giugno 2013 l’Accademia dei Lincei gli assegnò il Premio “Maria Teresa Messori Roncaglia ed Eugenio Mari”, il 27 settembre dello stesso anno l’Università di Udine gli conferì la laurea honoris causa in Scienze della formazione. Un passaggio della sua lectio magistralis: «In vent’anni di scrittura ho cercato di sforzarmi per raggiungere uno sguardo il più possibile nitido e pulito partendo da concetti di nitidezza fonica. Ho iniziato con l’idea che le parole sono materia plasmabile, allo stesso modo ho proseguito cercando prima di tutto una pulizia sonora della parola perché le parole sono fatte di suono e di silenzio, hanno entrambi questi elementi misteriosi al loro interno. Questa ricerca della pulizia, mano a mano che il lavoro si faceva più chiaro si è trasferita nello sguardo. Ho provato a cercare allora la precisione dell’immagine o di un’azione, di un oggetto che magari non dice niente e poi però si rivela essere il dettaglio che ti spalanca le porte di una realtà diversa da quella che stai osservando. Infine la comprensione, proprio nel significato etimologico del termine, dell’errore e del lapsus. Anche l’errore schiude dei mondi che non immaginavi fossero aperti lì, apposta per me che scrivo e per voi che li leggerete» (Cappello in Pierluigi Cappello. Un poeta sulla pista della luce, p. 19s). Nel novembre 2013 C. ricevette il premio letterario “Bruno Cavallini” per la poesia, il 5 dicembre la cittadinanza onoraria della città di Udine e il 13 dicembre quella di Tarcento. Nel cuore del festival Vicino-lontano il 17 maggio 2014 ricevette il premio letterario internazionale Terzani ex aequo con Mohsin Hamid. Nello stesso anno divenne beneficiario della Legge Bacchelli.
Chiudi]]>0egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=237352022-05-17T15:43:07Z2021-10-09T21:47:33ZIl padre Ermenegildo, nativo di Gemona (1885-1975) e cugino dell’architetto Raimondo, era un disegnatore edile che lavorò nei cantieri dell’impero austro-ungarico. Rientrò in Italia allo scoppio della prima guerra mondiale e si trasferì con la moglie Maria Teresa, anch’essa gemonese (1889-1983), e i figli Oscar e Renato a Udine, dove lavorò come disegnatore, alle dipendenze dell’Azienda autonoma statale della strada. D’A. nacque a Udine il 19 ottobre 1920. Dopo le scuole primarie, considerata la passione ben presto emersa per le discipline storico-umanistiche, venne iscritto all’Istituto magistrale, dove tra gli altri ebbe compagni di classe Alessandro Ivanov e Riedo Puppo, amici di una vita. Emersero precocissime doti letterarie, poiché già dall’età di 14 anni pubblicò una parodia dell’Iliade (1934) e successivamente un poemetto eroicomico (1938). Nel 1939 conseguì il diploma magistrale; poco dopo sostenne gli esami di ammissione all’Università Cattolica di Milano, dove frequentò la Facoltà di lettere moderne. Nel 1940 conobbe Chino Ermacora ed Emilio Girardini, che gli suggerirono le letture dei classici. Ricevette il primo incarico di insegnamento a Tolmezzo. Nel 1941 pubblicò una raccolta di poesie (Barbiton) con prefazione di Emilio Girardini. Scoppiata la guerra, nel 1942 D’A. dovette svolgere il servizio militare come aviere. Frequentò il corso allievi ufficiali a Parma (dove conobbe il pittore Guido Tavagnacco) e diventò sottotenente dell’aviazione nel 1943. Dopo l’8 settembre rientrò a Udine; riprese gli studi e si laureò il 9 giugno del 1944 in materie letterarie, con una tesi su Pietro Zorutti. La sua biblioteca personale, ospitata nella soffitta della casetta al n. ... leggi 15 di via Cernazai, contava già più di mille volumi: leggeva e scriveva nella Udine martoriata dai bombardamenti, spesso rifugiato in cantina. Nella primavera del 1945 Udine fu liberata e il fratello Renato, creduto disperso, ritornò sano e salvo. Finita la guerra, Udine conobbe rapidamente un periodo di grande fervore sociale, politico e culturale. D’A. contribuì alla costituzione e all’animazione di un “Circolo degli studenti” e del “Club degli 11”, quest’ultimo organizzava manifestazioni culturali e conferenze (ma anche serate danzanti divenute ben presto frequentatissime dai giovani udinesi). Chino Ermacora, il “cantore del Friuli” e l’avvocato Piero Marcotti furono per anni i suoi fondamentali punti di riferimento. La nascita dell’Associazione per l’autonomia friulana (29 luglio 1945), guidata da Tiziano Tessitori, suscitò e sviluppò in Gianfranco anche la passione per le ideologie autonomiste: passione che non l’avrebbe più abbandonato. Proseguì l’attività di insegnamento nella scuola media (“Uccellis” e poi “Ellero”). Il 21 ottobre 1945 divenne segretario della Società Filologica Friulana. Una minuziosa organizzazione del tempo e una rigida disciplina di lavoro, unitamente a una notevole facilità di scrittura gli consentirono di spaziare tra scritti e contributi nei più molteplici settori culturali: poesia, prosa, teatro, storia, arte; ma soprattutto letteratura, filologia, linguistica e tradizioni popolari. Nel 1946 divenne vicedirettore della rivista «Ce fastu?», curò l’edizione dello «Strolic Furlan 1947», divenne consigliere della Università popolare, socio dell’Accademia udinese di scienze, lettere e arti, membro dell’Ateneo Veneto, socio fondatore della Societé Internationale d’Ethnologie di Parigi e membro dell’International Society for Folk-narrative Research di Göttingen. Determinato ad accedere alla carriera accademica, si impegnò a scrivere decine di studi e contributi scientifici. Tra i più significativi: Breve sommario storico della letteratura ladina del Friuli, con prefazione di Pier Silverio Leicht (1947), Bibliografia ragionata delle tradizioni popolari friulane (1950), Guida bibliografica allo studio dello strambotto (1951), Indice delle fiabe toscane, con prefazione di Vittorio Santoli (1953). Parallelamente si dedicò anche all’impegno politico, mediante l’adesione alla Democrazia Cristiana, ma soprattutto con la decisione di fondare un movimento per l’autonomia, che progettò con gli amici Luigi Ciceri, Chino Ermacora, Pier Paolo Pasolini, Luigi Pettarin, Zefferino Tomè, Attilio Venudo, Sandro Vigevani, Piero Marcotti, don Giuseppe Marchetti, Etelredo Pascolo e altri. Frequenti e proficui i confronti di idee con Mario A. De Dominicis, Giovanni Comelli, Gaetano Perusini, Francesco Carnelutti. Nel gennaio del 1947 nacque il Movimento popolare per l’autonomia regionale. Da lì in avanti D’A., il Movimento e i suoi aderenti dovranno sopportare attacchi di ogni genere, in particolare da ambienti nostalgico-nazionalisti, specie dopo l’adesione ideologica ai movimenti affini di Trentino, Alto Adige, Valle d’Aosta, Sardegna e Sicilia. La battaglia, protrattasi tra gli entusiasmi e le delusioni di massimalisti e riformisti, procedette fino alla nascita di una Regione diversa da come era stata immaginata (1963). Alternò l’attività politica del Movimento con l’attività scientifica di ricercatore, viaggiando e conoscendo nell’occasione di congressi le più molteplici personalità: da Sturzo ad Andreotti; da Hemingway a Ignazio Silone a Orson Welles. Nel 1949 divenne assistente universitario volontario di filologia romanza nella Facoltà di lettere della Università di Trieste. Fu fondatore e direttore della rivista letteraria trimestrale «Il Tesaur», che iniziò le pubblicazioni nel luglio dello stesso anno e le proseguì fino al 1964, occupandosi di tradizioni, linguistica, filologia e folklore, non solo friulani. Con «Il Tesaur» si aprì una stagione straordinariamente feconda. Alla rivista furono infatti invitati a collaborare personaggi del calibro di Joan Amades, Francesco Carnelutti, Giovanni B. Corgnali, Raffaele Corso, Benedetto Croce, Lionello Fiumi, Giuseppe Francescato, Pier Silverio Leicht, Albert Marinus, Milko Maticetov, Clemente Merlo, Bruno Migliorini, Aurelio Roncaglia, Carlo Salvioni, Vittorio Santoli, Luigi Sorrento, Stith Thompson, Robert O.J. Van Nuffel, Giuseppe Vidossi. In seguito, con «I Quaderni del Tesaur» e le Edizioni del Tesaur verranno scoperti e valorizzati quei poeti e prosatori friulani (Giannino Angeli, Cesare Bortotto, Francesca Barnaba Marini, Riccardo Castellani, Nadia Pauluzzo, Domenico Zannier…) che avrebbero contribuito a fare assurgere la lingua friulana ad assoluta dignità letteraria. Nel 1950 conseguì il diploma di perfezionamento in Filologia romanza e moderna presso la Università Cattolica di Milano. Tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954 conobbe Nadia Pauluzzo, che sposò nel 1956 e con cui formò fino alla sua scomparsa un solidissimo legame affettivo e un proficuo sodalizio culturale. Nel 1954 fu incaricato di Letteratura delle tradizioni popolari alla Facoltà di lettere dell’Università di Padova, dove conobbe Vittore Branca, Diego Valeri, Benno Geiger, Guido Piovene. Conseguì la libera docenza per la stessa disciplina nel 1955. Gli anni che vanno dal 1956 al 1967 lo videro impegnato su più fronti: quello della famiglia, nel 1959 nacque il figlio Antonio e quello della carriera accademica, il periodo fu senato da una ricchissima produzione scientifica. Sul fronte della carriera politica, il periodo fu costellato di speranze, ma concluso nella delusione data dalla nascita di una Regione dimezzata. Nel 1963 rivestì il ruolo di vice-sindaco al Comune di Gemona. L’attività di conferenziere lo vide impegnato nel 1956 a Parigi e a Ginevra (L’Italie dans son folklore) e a Budapest nel 1963 (La narrativa popolare in Italia), ma anche a Venezia, Torino, Roma, Vienna, Strasburgo, Anversa, Kiel. Tra le principali opere di produzione scientifica, si ricordano: Le fiabe di magia in Italia (1957), la fondamentale Nuova antologia della letteratura friulana (1960), lavoro monumentale come riconobbe R. A. Hall jr. «D’Aronco has done a superb job, which should convince the public that, literarily as well as linguistically, Friulian represents an independent romance language». Seguirono Manuale sommario di letteratura popolare italiana (1961), Storia della danza popolare e d’arte (1962), European Folk Tales (1963), Schema di classificazione del materiale folclorico (1963), Le théatre populaire européen (1965). Fu fondatore della rivista «Tradizioni. Quaderni di letteratura popolare delle Tre Venezie», presso la Università di Padova, rivista che diresse fino al 1964. Quanto alle iniziative culturali e al rapporto con la Società filologica friulana, merita senz’altro ricordare la nascita, nel 1961, del Circolo linguistico friulano “Giovanni Battista Corgnali”, istituzione scientifica volta allo studio della lingua friulana in relazione alle lingue romanze. Il Circolo riuscì a portare a Udine conferenzieri quali Carlo Tagliavini, Gianfranco Contini, Silvio Pellegrini. Riscosse ampio apprezzamento, a livello nazionale e internazionale, e tuttavia si sciolse dopo un anno, a seguito delle polemiche nate in seno alla Società filologica friulana, i cui vertici non condivisero l’iniziativa che tuttavia non restò senza seguito, poiché l’anno seguente la dirigenza della Filologica uscì radicalmente rinnovata. Nata la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nel 1964 D’A. fu invitato dall’allora assessore alla cultura, Giovanni Vicario, a dirigere il relativo assessorato, carica da cui si dimise una volta divenuta non più conciliabile con gli impegni all’università. Dal 1967 la carriera universitaria progredì: ottenne infatti l’incarico di Sociologia nella Facoltà di Magistero dell’Università di Trieste e l’anno seguente quello di Storia delle tradizioni popolari. Meritano menzione in quegli anni, tra le varie pubblicazioni: Caterina Percoto, Contes du Frioul (1967) che nella traduzione francese di Martine Lejeune e Dante Bovo, entrò nella collana di opere in lingue minoritarie, pubblicate sotto gli auspici del Consiglio d’Europa; Manuale di letteratura popolare (1970); la nuova edizione di Friuli, uomini e tempi di G. Marchetti (1974). Fu ideatore e direttore degli «Studi di letteratura popolare friulana» (1969-1973). Va detto che nel corso degli anni l’attività politica non si interruppe: continuò se mai per altre vie. Il contributo di D’A., offerto con costanza e coerenza, è testimoniato da una lunga serie di scritti, dai quali emerge che la sua partecipazione, diretta o fiancheggiatrice, alla vita politica ha sempre avuto come obiettivo primario la rivalutazione della storia, della cultura, della letteratura e della lingua del Friuli. In particolare si attestano un costante impegno a favore della istituzione e il consolidamento in Udine di una Università autonoma. Sull’argomento, la sua prima proposta lanciata per l’istituzione della Università del Friuli è contenuta in un articolo, Si chiede l’istituzione di una università ladina, apparso sulla «Patrie dal Friûl», 30 settembre 1948. Nel 1972 entrò a far parte del Comitato per l’Università friulana, fondato e diretto da Tarcisio Petracco. Nel 1975 risultò vincitore del concorso a cattedra per l’ordinariato e venne chiamato come docente straordinario di Antropologia culturale presso la università di Siena. Nel 1976 passò alla Facoltà di Magistero della università di Trieste come docente di Storia delle tradizioni popolari. Dopo il triennio di straordinariato divenne nel 1979 docente ordinario, assumendo anche la supplenza di Filologia romanza. Dal 1985 al 1990 assunse l’ordinariato di Filologia romanza e la supplenza di Storia delle tradizioni popolari. Infine dal 1990 al 1995 fu collocato come ordinario fuori ruolo, dedicandosi alla sola ricerca. Durante quegli anni D’A. pubblicò numerosi saggi sulla letteratura romanza delle origini, sulla poesia popolare e sulla letteratura friulana. Emergono in particolare la direzione di «Ce fastu?», la rivista della Società filologica friulana, alla quale conferì un deciso impulso agli studi scientifici (dal 1979 al 1987), Il Berchet e la nuova poesia popolare (1979), Pasolini riveduto e corretto (1990), La Grant Queste del Saint Graal, in collaborazione (1990), La primavera cortese della lirica friulana (1992). Da segnalare che la monumentale Grant Queste rivelò agli studiosi la esistenza in Udine di un manoscritto, del quale si hanno solo cinque analoghi in Europa (ne scrissero tra gli altri Vittore Branca e Franco Cardini). Nel 1995 scomparve la moglie Nadia, e per D’A. il dolore fu immenso, poiché venne a mancare la compagna di una vita, la poetessa, la prosatrice con cui aveva condiviso sogni, progetti, amore per il Friuli. Dal quel giorno ridusse la sua attività scientifica, dedicandosi per lo più a riordinare e a pubblicare molto del materiale inedito (soprattutto poetico) che Nadia aveva lasciato. Pur meno intensa, la sua attività porterà a curare le Canzonetes par furlan di Fiorindo Mariuzza (1997) e a pubblicare la rassegna critica Pagine friulane – un’ampia raccolta di recensioni uscite tra il 1971 e il 1995 (2001), Miscellanea – raccolta di studi e contributi editi tra il 1945 e il 2000 (2003), Il Friuli a mezzadria – raccolta di articoli sul tema dell’autonomia friulana usciti su quotidiani tra il 1945 e la data di pubblicazione (2008), la ristampa dell’Indice delle fiabe toscane (2009), la traduzione friulana, fortemente voluta dall’amico Luciano Verona, dell’Antologjie de letterature furlane (2009), Sorestants e sotans, intervista sul Friuli di grande successo, scritta a due mani con William Cisilino (2012), Un contado chiamato Friuli (2015), Opinioni personali – raccolta del bollettino trimestrale su tematiche politiche che uscì tra il 1969 e il 1976 (2017). Lasciata l’attività accademica e gli impegni di ricerca, verso la seconda metà degli anni novanta D’A. riscoprì la passione per quella politica che tanto lo aveva impegnato (e deluso) ai tempi della formazione della Regione. Simpatizzava per la Lega Nord, o per meglio dire per quel concetto di federazione di leghe o movimenti locali che aveva conosciuto sul finire degli anni Quaranta e che pensava potesse rivivere in una nuova articolazione. Alla fine non fu così, tanto che, nominato presidente onorario della Lega Nord Friuli nel 1994, si dimise poco dopo. Ma, sul finire del 1998, Sergio Cecotti, già presidente della Regione, decise di candidarsi a sindaco di Udine, sostenuto dalla stessa Lega Nord e da un raggruppamento autonomista (“Per Cecotti – Movimento Friuli”) che schierò D’A. come capolista. Contro ogni previsione, Cecotti divenne sindaco e D’A. risultò il candidato più votato. Iniziava quella che è stata definita “una primavera” del sogno autonomista friulano. Nel corso del quinquennio D’A. fu chiamato a presiedere la Commissione cultura del Comune di Udine, nonché la vicepresidenza del Consorzio universitario del Friuli, di cui rimase consigliere fino al suo scioglimento. Terminata l’esperienza amministrativa, constatato che l’idea autonomista aveva perduto quella freschezza che sembrava essere riemersa, D’A. ritornò a praticare l’attività politica al di fuori dai palazzi, mediante una serie di contributi, proposte, critiche sul tema dell’autonomia del Friuli, che pubblicò periodicamente sul quotidiano locale (circa 200 articoli tra il 2004 e il 2017). Il 2008 vide sorgere una iniziativa che D’A. accolse con entusiasmo e speranza: venne infatti costituito il Comitato per l’autonomia e il rilancio del Friuli, dando seguito all’appello promosso nel 2005 dallo stesso D’A. e dall’onorevole Arnaldo Baracetti. Il professore ne divenne presidente anche se il vero animatore fu Baracetti, il quale, coadiuvato da validi collaboratori, tecnici e studiosi dei più vari orientamenti politici, riuscì nel corso degli anni a mobilitare mass-media, organizzare conferenze stampa, manifestazioni, convegni di studio: insomma, a sensibilizzare l’opinione pubblica, in particolare sull’importanza che può rivestire l’autonomia anche sulla crescita economica della Regione. Venuto a mancare Baracetti nel 2012, D’A. si ritirò poco dopo, mantenendo il ruolo di presidente onorario. Nel corso della sua vita, D’A. ricevette numerosi riconoscimenti, tra i più recenti merita citare: premio della Presidenza del Consiglio (1973), premio “Nadâl furlan”(1985), sigillo della Città di Udine (2000), premio “Epifania” (2002), premio “Gilberto Pressacco – Maqôr – Rusticitas” (2010), premio “Joibe grasse” (2011), premio “Udine Città della Pace” (2016). Il 18 dicembre 2017, su proposta del Dipartimento di studi umanistici, gli venne conferita dall’Università degli studi di Udine la Laurea magistrale Honoris causa in Italianistica, «Per il rilevante contributo da lui arrecato alla vita culturale, politica e istituzionale del Friuli per oltre un settantennio e per gli spiccati meriti accademici e scientifici espressi nell’instancabile opera di docenza e ricerca universitaria, nonché di comunicazione culturale; inoltre, per il ruolo primario nella proposta e realizzazione di un Ateneo friulano, con sede a Udine». In tale occasione spettò al professor Andrea Tilatti pronunciare la Laudatio (Gianfranco D’Aronco e la cultura del Friuli) e allo stesso D’Aronco la Lectio magistralis (Leggere e scrivere). D’A. si è spento a Udine il 3 dicembre 2019, alla Casa di cura Città di Udine. Fino alla sera precedente il breve ricovero aveva continuato a scandire la sua giornata con quella minuziosa organizzazione del tempo e quella rigida disciplina di lavoro che hanno sempre caratterizzato la vita di colui che, volendo rimanere scolaro, «sapeva solo leggere e scrivere».Chiudi]]>egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=237682021-05-31T18:01:09Z2021-05-31T12:17:22ZNacque il 24 ottobre 1934 a Spilimbergo, nella famiglia di Angelo, che aveva rilevato lo Studio fotografico Zamperiolo in piazza San Rocco e, come il fratello Gianni, diventò a sua volta fotografo. L’esaltante esperienza del Gruppo friulano per una Nuova Fotografia, vissuta a metà degli anni Cinquanta con Gianni, Italo Zannier, Carlo Bevilacqua e altri, lo rese cosciente del suo talento. L’accordo-truffa sulla copertina di «Comunità», la rivista di Adriano Olivetti, nel 1956, e Pioggia a Spilimbergo premiata a Bologna, al Teatro della Ribalta, nel 1957 ne sono testimonianza. L’anno successivo emigrò a Casablanca, dove rilevò il Royal Studio, diventando fotografo ufficiale del Ministero del turismo e collaboratore della rivista «Maroc Tourisme». A seguire, numerose mostre personali e fotolibri: Fes, “Mystère et poésie”, 1960; Agadir et le Souss, 1965; Imichil, 1969; Tan-tan, 1970; Moullay Abdallah, 1971 (primo premio per il réportage a Parigi); “La forèt morte”, 1973. Nel 1975, per effetto di una legislazione penalizzante per gli stranieri, fu costretto ad abbandonare l’amato Marocco. Rientrò a Spilimbergo in Friuli con la famiglia, e fu presto chiamato a illustrare importanti pubblicazioni: Maniago. Pieve, feudo, comune di Carlo Guido Mor nel 1981, Stagioni in Friuli nel 1985, Storia dei friulani (IV edizione) nel 1987, Polvere di gente nel 1989. Il Centro Friulano Arti Plastiche lo invitò all’Intart di Klagenfurt (Internazionale d’arte con Carinzia e Slovenia) nel 1984, e nel 1987 a Pordenone partecipò alla mostra “Neorealismo e Fotografia”. Il Craf (Centro di ricerca e archiviazione della fotografia, fondato nel 1992) lo invitò alle sue esposizioni in Friuli e più lontano. ... leggi Fra esse è doveroso ricordare Terre a Nord.Est nel 1996, e nel 1997 “Tredici Fotografi in un itinerario di Pasolini”, mostra riproposta all’Hillwood Art Museum di Long Island, all’Itami Center in Giappone, e alla Società Nazionale Italiana di Buenos Aires. Negli anni di transito fra i due secoli fu presente a “Otoño Fotografico” a Madrid e a due importanti edizioni dell’Intart, a Udine e a Lubiana. Nel 2006 Ada, apprendista nell’officina diun fabbro si meritò la foto-copertina di Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia. In primo piano le donne 1945-1954, pubblicazione di Hachette Contrasto, Milano. Nel 2011 partecipò a “La Fotografia e il Neorealismo in Italia: 1945-1965”, collettiva esposta a Roma, San Pietroburgo, e in altre città della Russia. La sua fotografia, studiata in due tesi di laurea, a Udine e a Urbino, suscitò un crescente interesse anche a livello giornalistico: basti citare La chasse au faucon sulla copertina del periodico «Il Fotografo», n. 235, nel 2012; l’ampio servizio su «L’aperitivo illustrato» di Ancona nel 2013, e la lunga intervista su «Fotocult» di Roma nel 2014. Nello stesso anno l’Azienda speciale Villa Manin di Passariano celebrò il suo ottantesimo compleanno con una grande mostra personale nell’Esedra di Levante. B. ha lasciato il segno in collettive importanti a New York, allestite nella Howard Greenberg Gallery, nella New York University, e al Metropolitan Museum of Art. Dopo le mostre newyorkesi, il grande regista Martin Scorsese espresse il suo elogio per i fotografi del neorealismo italiano su «La Repubblica» del 9 settembre 2018, citando esplicitamente, fra altri, i fratelli Borghesan. Nel corso della vernice di “Friûl / Friuli 1955”, omaggio al Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, allestita nel 2018 a Udine, ricevette la medaglia ufficiale dalla Provincia. Il testamento artistico e spirituale di B. è contenuto nel fotolibro Fruts, che ebbe il suo “visto, si stampi” pochi giorni prima che la morte lo cogliesse a Pordenone il 28 settembre 2019.Chiudi]]>0egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=237652021-06-01T06:46:42Z2021-05-31T12:07:24ZNato il 13 marzo 1921 a Udine, fu precocemente attratto dalla pittura, e a sedici anni dipinse una Madonna con Bambino, olio su tavola, che dimostrava il suo talento. Dopo il diploma di geometra conseguito nel 1939, fu premiato nel 1940 ai “Ludi Juveniles della cultura e dell’arte”, ma la consacrazione artistica la ottenne, con Marcello D’Olivo e Gino Valle, il 6 febbraio 1943 a Udine, in una mostra in via Poscolle. Fra le opere esposte La bottega del barbiere, è considerata dalla critica una pietra miliare della pittura in Friuli nel XX secolo. Il 9 settembre 1943, in divisa di alpino, cadde prigioniero dei tedeschi, che lo costrinsero a un duro lavoro nella fabbrica di aerei Messerschmidt vicino a Lipsia. Dopo due anni di fame e sofferenze, poté ritornare ai suoi pennelli il 9 settembre 1945, e un anno più tardi partecipò alla mostra allestita a Tricesimo per la “Settimana della friulanità”. Nel 1947 vinse l’ex-tempore del Lago di Cavazzo (organizzata per festeggiare l’impianto della energia elettrica!), e partecipò alle prime esposizioni del dopoguerra: “Mostra d’arte sacra contemporanea” a Udine, “Mostra della montagna” a Gorizia, “Triveneta del ritratto”. Impiegatosi come disegnatore tecnico in uno studio di architettura, si dedicò anche alla grafica pubblicitaria e al disegno umoristico per il «PUF», periodico del Partito Umoristico Friulano. Nel 1948 si lasciò tentare dall’astrattismo partecipando a una mostra collettiva che fu criticamente demolita da Arturo Manzano. Rimanendo al di fuori del neorealismo, continuò allora a seguire con grande abilità la lezione dei Fauves e di Vlamink per il paesaggio, di Cezanne per le nature morte. ... leggi Nel 1951 partecipò alla mostra-scambio Udine-Klagenfurt, e nel 1956 Carlo Someda de Marco lo incluse nella rassegna “Friulanische Maler der Letzen 50 Jahre”, allestita nella capitale della Carinzia con opere dei Civici Musei di Udine. Negli anni Cinquanta partecipò alla Quadriennale di Roma e realizzò due pannelli decorativi per la motonave “Raffaello”. Nel passaggio dai Cinquanta ai Sessanta due eventi fondamentali sono da segnalare: il contributo alla fondazione del Centro Friulano Arti Plastiche nel 1961 e, dopo una visita alla Biennale di Venezia con Dora Bassi ed Ernesto Mitri, l’inizio di una lunga e impegnativa ricerca informale, conclusa nel 1962 con una mostra nella Galleria del Girasole. Arturo Manzano scrisse allora che i quadri di Toso erano «favole musicali narrate sul pentagramma del paesaggio». Nei decenni che seguirono il pittore si impegnò nuovamente nel nudo femminile e nel ritratto, mentre l’amato paesaggio, dapprima ricostruito senza agganci con il reale, andava progressivamente riducendosi a una traccia da riempire con colori intensi e sognati. Fra il 1976 e il 2000 il Centro Friulano Arti Plastiche lo invitò a cinque edizioni dell’Intart, e per due personali alla galleria Girasole: “Nature morte 1946-1993” nel 2001 e “Paesaggi 1956-2005” nel 2006. Morì a Udine il 29 aprile 2010.Chiudi]]>0egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=236692021-03-13T16:45:42Z2020-01-05T17:31:57ZNacque a Venezia nel 1726, figlio primogenito di Ludovico III, detto Alvise, e di Maria di Pietro Basadonna, unica erede di vasti possedimenti in tutto il territorio veneto. Dalla metà del Seicento i Manin iniziarono a spostare i loro interessi dal Friuli a Venezia. Nel 1651 con la riapertura del Libro d’oro a seguito della guerra di Candia Ludovico I con l’esborso di 100.000 ducati aveva acquistato il titolo di patrizio veneto e nel suo testamento aveva raccomandato alla discendenza di fare “gran parentado” nella Dominante. Nel 1700 i Manin vi si stabilirono definitivamente, in un palazzo dei Dolfin di San Salvador che acquistarono nel 1787 e che trasformarono in una prestigiosa dimora, diventando sempre più «una famiglia veneziana che opera anche in Friuli» (Frank, 18-23). Nella prima metà del Settecento la sistemazione del complesso di Passariano e la riforma del duomo di Udine avevano completato in Friuli un’operazione autocelebrativa di una dinastia che però ormai guardava a Venezia. Pur appartenendo a una famiglia ‘nuova’, Ludovico IV riuscì a inserirsi nel più alto patriziato della città marciana. Studiò dapprima sotto la direzione della madre, donna di elevata cultura, poi al collegio dei Gesuiti di Bologna dove sostenne una tesi sul diritto naturale. Nel 1743 andò a Roma, dove continuò a studiare privatamente con il sacerdote Gibellini; nel 1746 fu ospite con il fratello Pietro del console veneziano a Napoli, dove fu presentato al re Carlo di Borbone. Nel 1748 sposò Elisabetta Grimani del ramo dei Servi, matrimonio celebrato anche dalle decorazioni del palazzo di San Salvador, eseguite da Giambattista Tiepolo. Pure i matrimoni dei familiari rispettarono la volontà di Ludovico I di fare “gran parentado” a Venezia: il fratello Giovanni sposò Samaritana Dolfin in prime nozze, celebrate con grande sfarzo a Passariano e in seconde Caterina Pesaro; la sorella Arpalice si unì a Giovanni Ruzzini; Cecilia sposò Andrea Renier, figlio del futuro doge Paolo Renier; Lucrezia fu moglie di Antonio Priuli. ... leggi M. nel 1751 iniziò un’importante carriera pubblica. Entrato nel Maggior consiglio, fu eletto capitano di Vicenza, di Verona, podestà di Brescia e nel 1763 fu nominato procuratore di San Marco. Fu poi titolare di molte cariche amministrative della Repubblica, guadagnandosi la fama di amministratore esperto e capace. Nel 1789 alla morte del doge Paolo Renier salì alla carica ducale dopo che i grandi elettori, non essendo riusciti a trovare un accordo, decisero di affidarsi a un rappresentante della nobiltà ‘nuova’ convergendo i voti su M., favorito anche dalla sua enorme ricchezza, pur tra commenti ironici e malevoli da parte del più antico patriziato lagunare. Egli non ambiva alla carica, ma la accettò con senso di responsabilità. Nel 1797 dovette affrontare l’avanzata di Bonaparte fino all’abdicazione del Maggior consiglio del 12 maggio, preoccupandosi della salvezza della città e della continuità istituzionale fino al passaggio alla Municipalità provvisoria, rifiutando di fare parte a qualunque titolo di un altro governo. Si chiuse poi nel suo palazzo, prima a San Salvador, poi – essendo questo in restauro – a palazzo Grimani dei Servi, dedicandosi alla scrittura delle sue memorie in difesa del suo dogado. Morì nel 1802. Giudizi negativi sull’operato di M. iniziano subito dopo Campoformio e informano – tranne rari casi – la storiografia ottocentesca. Viene accusato di debolezza, di incapacità di dominare gli eventi. Soltanto a Novecento inoltrato la sua figura viene riabilitata. Per primo Bozzola afferma che M. non abbandona la macchina dello Stato, ma la guida in senso democratico. Si aggiunge il giudizio di Cessi, che mette sotto accusa non il doge, ma un governo ormai malato, mentre riconosce a M. dignità, fermezza e volontà di salvare l’immagine di Venezia. La ricerca e la pubblicazione di nuovi documenti porta a una revisione totale della sua figura, vista come animata da spirito di servizio e senso dello Stato, uomo di legge convinto che «le sue responsabilità comportassero l’esigenza ch’egli conducesse lo Stato verso un passaggio di consegne veloce e ordinato» (Raines, 1997, 207).
Chiudi]]>0egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=193842019-09-30T07:38:34Z2019-09-30T07:38:34ZNacque a Udine l’8 gennaio 1862. Figlio di Rosa Scrosoppi e destinato dal padre Mariano al commercio, fuggì da casa per seguire la sua vocazione di artista. Si formò alla Scuola d’arti e mestieri di Udine sotto la guida del pittore e decoratore Giovanni Masutti di cui in seguito diventò assistente, realizzando vari interventi decorativi per conto della Società operaia di Udine. Per qualche anno fu attivo come disegnatore presso lo stabilimento di Enrico Passero, contribuendo in modo determinante a qualificarne la produzione. Elaborò manifesti per teatro, esposizioni, fiere, spettacoli di carnevale, litografie e vignette, sviluppando un raffinato e sinuoso linearismo di gusto floreale. All’Esposizione di Udine del 1883 ottenne una menzione onorevole con il dipinto I congedati e una medaglia d’argento all’Esposizione di Torino del 1884. Nel 1886 abbandonò Udine per studiare pittura a Firenze, dove frequentò la scuola serale del Circolo degli artisti. Nel 1898 ottenne il secondo premio all’Esposizione nazionale di Torino con i bozzetto Il Cid Campeador. Nel 1890 fu chiamato a Torino come bozzettista nello Stabilimento Doyen e frequentò l’Accademia Albertina. Nel 1903 venne incaricato per conto di Enrico Passero di elaborare il manifesto dell’Esposizione regionale di Udine ottenendo il diploma di merito. Nel manifesto la suadente presenza di una figura femminile allegorizzante incorniciata da decorazioni fitomorfe si combina con decisi viraggi cromatici a dettagli vedutistici. Nel 1904 ottenne il diploma di merito e la medaglia di bronzo all’Esposizione nazionale di manifesti artistici e di ex libris di Venezia. ... leggi Si qualificò anche a un concorso artistico bandito dalla Società ceramica Richard Ginori. È stato lungamente attivo a Torino, quindi si trasferì a Firenze nel 1909 dove era comproprietario e direttore del giornalino illustrato settimanale «Giotto» stampato dal gennaio 1895 a Torino, e destinato allo studio del disegno. Illustrò varie pubblicazioni disegnando vignette per racconti in particolare destinati all’infanzia: nel 1906 al concorso delle copertine indetto da «Il giornalino della Domenica» pubblicato da Bemporad, col quale S. collaborò frequentemente, i suoi bozzetti furono premiati insieme a quelli di Aleardo Terzi, di Umberto Brunelleschi e Giuseppe Biasi, e quindi esposti alla Società Fotografica Fiorentina. La sua opera venne premiata anche alla Prima Esposizione di caricatura ed umorismo allestita a Torino nel 1914. Incise vedute di città italiane, spagnole, greche, turche. Sue opere si conservano presso le collezioni della Galleria Marangoni nell’ambito dei Civici musei di Udine e i suoi manifesti nella collezione Salce di Treviso e nel Fondo Passero-Chiesa della Fondazione Carigo di Gorizia. S. morì a Firenze il 1° marzo 1912.Chiudi]]>0egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=191102019-09-30T06:58:27Z2019-09-30T06:58:27ZNato a Magnano in Riviera (Udine) il 19 ottobre 1942, vi morì il 20 maggio 2003. È stato insegnante di arte applicata presso l’Istituto statale d’arte di Udine dal 1964 al 1991. Ha collaborato con gli scultori Dino Basaldella, Gianni Grimaldi e soprattutto con Luciano Ceschia, all’arte del quale si è ispirato. Scultore, ceramista e medaglista, ha esposto in mostre personali e collettive dal 1965. È autore di opere pubbliche, tra cui il monumento a Bindo Chiurlo e il monumento ai Caduti per il comune di Cassacco, di bassorilievi per i comuni di Magnano in Riviera e Tarcento, di un Totem per il comune di Tolmezzo. Alcune sue medaglie sono esposte nel Museo della Medaglia di Buja. Nel 2003 l’Associazione ‘Storie dai Longobars’ gli ha dedicato una mostra antologica in collaborazione con il Centro Friulano Arti Plastiche nel castello di Udine e nel 2005 a Tarcento. L’idea iniziale di un geometrismo assoluto, in forme circoscritte e definite, quale appare nelle prime medaglie degli anni Ottanta, pulite e con larghe campiture attraversate in superficie da brividi in bassorilievo, si completa più tardi con l’inserimento di parole in rilievo, a creare un dialettico gioco poetico. Il dialogo si fa più aspro e teso nel tempo, con le drammatiche Lacerazioni, con le Esplosioni che rappresentano, nella violenza delle forme spezzate, un grido angoscioso contro la guerra; grido che raggiunge vette di alta drammaticità nelle composizioni in ceramica e ferro dedicate allo storico, suggestivo Ponte sul fiume Neretva, barbaramente distrutto, stemperandosi e sublimandosi nella Stele per i morti di Mostar, capolavoro dello scultore in cui le istanze sociali e l’impegno umanitario sembrano offrire nuova linfa e portarlo a una composizione di perfetta fusione contenuto-forma.
]]>0egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=192342021-01-29T20:18:05Z2019-09-30T06:57:22ZNacque a Pordenone il 21 gennaio 1905. Figlio di Maria Coromer e di Carlo, docente e direttore del collegio ‘Toppo Wasserman’ di Udine, e fratello di Francesco, studioso di letteratura e giornalista, studiò al liceo ‘J. Stellini’ di Udine per poi laurearsi in giurisprudenza. Giovanissimo si accostò da autodidatta alla pittura esponendo paesaggi di taglio impressionistico con studi di luce: nel 1922 a Pordenone alla I Mostra d’arte del Friuli occidentale espose sedici opere tra grafica e pittura, e nello stesso anno era presente a Udine alla mostra d’arte del Circolo Famigliare; nel 1923 partecipò con otto opere alla II Mostra d’arte del Friuli occidentale, e nuovamente a Udine alla mostra d’arte del Circolo Famigliare, quindi nel 1924 partecipò alla Mostra Goriziana di Belle Arti, e nel 1925 alla III edizione della Mostra d’arte del Friuli occidentale dove espose anche ceramiche da lui decorate con motivi rustici. Nel 1926 a Udine, dove la sua famiglia si era trasferita, entrò in contatto con Michele Leskovic [Escodamè], suo coetaneo, attivo nel movimento futurista come poeta e declamatore che lo introdusse nella stretta cerchia del movimento di F.T. Marinetti, raccomandandolo per le mostre milanesi e interessando a tale scopo anche Bruno Munari, anch’esso iniziato al Futurismo da Leskovic. La conversione di F. ai temi e al linguaggio dell’avanguardia fu immediata, e tra le opere esposte nel novembre del 1927 alla Galleria Pesaro di Milano alla “Mostra di Trentaquattro pittori futuristi”, che inaugurò una stagione di serrato confronto con l’avanguardia futurista, accanto a dipinti intitolati Il corso, I rumori del corso, Caffè di provincia, Urlo della sirena, figura anche un ‘ritratto psicologico’ dedicato ad Escodamè. Fattorello nel 1928 approdò alla XVI Biennale di Venezia dove, nella selezionatissima saletta dedicata al Futurismo composta da dodici artisti, espose accanto a Nicola Diulgheroff, Fillia, Pippo Rizzo, Aligi Sassu, due opere dal titolo Atmosfera d’entusiasmo e Cameriere, entrambe ora conservate presso i Musei Provinciali di Gorizia che le acquisirono in occasione della mostra “Frontiere d’avanguardia” allestita a Gorizia nel 1985, permettendo di fatto la riscoperta del periodo futurista di F. e la fruizione pubblica di questi rari esempi della sua ricerca d’avanguardia. ... leggi Si tratta di composizioni che puntano sull’astrazione plastico-meccanica della realtà espressa per sintesi geometrizzanti sul piano, secondo l’esempio di Balla e Prampolini, impostate su contrasti di linee e forze in campo e caratterizzate da un dinamismo interno accentuato dalla vivacità cromatica dei campi colorati miranti a esprimere empaticamente stati d’animo. Nell’ottobre del 1929 espose alla mostra dei Trentatré futuristi “Pittura, scultura e arte decorativa” promossa dalla Galleria Pesaro di Milano, dove nel 1930 era nuovamente presente alla Mostra futurista “Arch. Sant’Elia e 22 pittori futuristi”. Quindi nell’ottobre del 1931, con Volo n. 1 e Volo n. 2 partecipò alla Mostra futurista di aeropittura e scenografia – 41 aeropittori futuristi e mostra personale di Prampolini – sempre nelle sale della galleria Pesaro di Milano. Si tratta dell’ultima esposizione che vide Fattorello schierato nelle file del futurismo, oltre che della stessa aeropittura. Si trasferì nel 1943 a Trieste, dove risiedette stabilmente salvo un soggiorno di dieci anni a Milano conclusosi nel 1970, lavorando come direttore della divisione affari generali della Raffineria l’Aquila, nel cui Circolo espose nel 1957, avendo ripreso a dipingere nei modi tradizionali della pittura di paesaggio e della natura morta, con uno stile impressionistico e lirico, ma sostanzialmente figurativo, che in qualche modo si riallaccia al suo esordio come pittore, e comunque totalmente lontano da ogni ricerca di avanguardia. A Trieste presentò questa sua produzione pittorica in varie mostre personali, alla sala comunale d’arte nel 1976 e nel 1979, alla Galleria S. Elena nel 1977 e nel 1978, anno in cui espose in una mostra personale anche a Udine, al Centro friulano Arti Plastiche, e al Circolo della stampa di Trieste nel 1980. In alcune di queste occasioni espositive affiancò alla più recente produzione paesaggistica composta da paesaggi molto essenziali, dai connotati a tratti metafisici, alcuni rarissimi esempi della sua produzione pittorica di ambito futurista. F. morì a Trieste il 23 dicembre 1983.Chiudi]]>0egidiohttp://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/?p=236572019-09-22T15:40:44Z2019-09-22T15:40:44ZNacque a Grizzo, frazione di Montereale Cellina, il 22 novembre 1940, da Luigi (n.1899) e da Rosa Comina (n. 1900): sesto figlio dopo la nascita di cinque sorelle. Il padre, riconosciuto Invalido di guerra in data 20 ottobre 1928, ricoprì l’incarico di Ufficiale dell’anagrafe di Montereale Cellina. R. conseguì la licenza media nel 1953 e nello stesso anno si iscrisse 4 al Liceo Scientifico Statale di Pordenone, dove conseguì la maturità nel 1958, dopo un curriculum di studi caratterizzato da eccellenti risultati non solo nelle materie scientifiche, ma anche in quelle letterarie, compresa la Filosofia, a riprova di una particolare sensibilità per le discipline umanistiche che rivelò nel corso della sua attività professionale. Il 5 novembre del 1964 si laureò presso la Facoltà di Scienze mm., ff. e nn. dell’Università di Padova, discutendo una tesi sperimentale sul tema: Reazioni di sostituzione nucleofila su complessi planari quadrati del Pt (II), conseguendo una valutazione altissima per i tempi di 102 su 110. A partire dall’1 gennaio del 1967 fino al 1 novembre dello stesso anno ha svolto attività di ricercatore come borsista del C.N.R. e attività didattica come assistente volontario presso l’Istituto di Chimica generale dell’Università di Padova, un centro di ricerca molto quotato in Italia e all’estero. Nello stesso Istituto R. è stato assunto come Assistente ordinario il giorno 1 novembre del 1967, avviando ufficialmente anche la sua attività di docente nell’a.a. 1967-68 nella disciplina di Chimica generale e inorganica presso la Facoltà di Scienze e nella disciplina di Chimica dei composti di coordinazione per la laurea in Chimica. Il giorno 8 marzo 1969 a Montereale Valcellina prese in moglie Rosina Roveredo dalla quale sono nati a Padova tre figli: Fabio, Paola e Silvia. ... leggi Si era trasferito a Padova già nel 1969, anche se l’atto risulta registrato dall’anagrafe di Montereale nel 1970. Nel ruolo di Assistente ordinario rimase fino al 31 ottobre del 1980, allorché vinse il concorso a cattedra nella disciplina di Chimica generale e inorganica, cattedra che ricoprì come Professore straordinario nella Facoltà di Agraria del giovane Ateneo di Udine (istituito nel 1977 dopo il devastante terremoto dell’anno precedente), a decorrere dal 1 novembre del 1980. Nel periodo patavino aveva conseguito anche la stabilizzazione presso la Facoltà di Scienze e, nel 1970, la Libera docenza in Chimica generale e inorganica, confermata in data 15 giugno del 1976. Iniziò così la seconda fase del suo curriculum di ricercatore e di docente che seppe contemperare con gli importanti incarichi amministrativi e gestionali ai quali era stato chiamato per le sue straordinarie capacità di lavoro e di relazione. Egli fu uno dei cardini nella costituzione e nel consolidamento dell’Ateneo udinese. In nome di questa totale dedizione alla professione P.R. si guardò costantemente da “sconfinamenti” nel campo della politica, pur muovendosi in un suo sistema di idee sociali maturato negli anni. Per questa ragione, probabilmente, nel 1990 declinò l’invito di un Comitato di cittadini a candidarsi come sindaco del Comune di nascita, al quale era intimamente legato e dove trascorreva immancabilmente l’‘otium’ estivo. Il giorno 8 luglio 1986 il rettore Franco Frilli ratificò la sua elezione alla Presidenza del Corso di laurea in Scienze delle Preparazioni alimentari per il triennio accademico 1985/86-1987/88. Nominato Docente ordinario dal 1 febbraio 1984, assunse la direzione dell’Istituto di Chimica nell’a.a. 1986/87, mentre già l’anno precedente era stato eletto membro del Consiglio di Amministrazione fino al 1991, per poi rientrarvi dal 2004 al 2005. Sotto il Rettorato di Frilli è stato delegato per i problemi del personale (1988-1990) e per i problemi dell’edilizia universitaria (1990-1992). Dal 1991 al 1994, e per un ulteriore triennio fino al 1997, ha ricoperto l’incarico di preside della Facoltà di Agraria. Durante la sua presidenza ha organizzato l’importante Conferenza dei Presidi di Agraria in occasione del quindicesimo anno di fondazione della Facoltà a Udine, nel quale venne discusso l’argomento della “laurea breve” alla presenza del primo preside di Agraria e Mario Bonsembiante e del presidente della Conferenza dei Rettori Gian Tommaso Scarascia Mugnozza. Il 6 agosto del 1996 è stata istituita ufficialmente la Facoltà di Scienze della Formazione, l’ottava dell’Ateneo udinese. Nella seduta del 17 febbraio del 1998, durante il rettorato di Marzio Strassoldo, Pierluigi Rigo fu eletto dal Consiglio di Facoltà, insediato con decreto del Senato Accademico del 4 settembre 1996, primo preside. Al funzionamento del Corso di laurea in Scienze della Formazione furono chiamati docenti provenienti da tutte le Facoltà, scientifiche e umanistiche, che ne avessero titolo. La nuova Facoltà attivò il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria e il corso di Diploma universitario per Tecnico audiovisivo e multimediale dall’a.a. 1998-1999. R. fu preside fino al 2003. La posizione geografica della città di Udine centrale nella Regione Friuli Venezia Giulia, il ruolo di “snodo” fondamentale nei rapporti tra la particolare realtà linguistica del Friuli, le culture locali, le minoranze etniche delle aree linguistiche confinanti dell’Austria e della Slovenia, imponevano una attenzione specifica per la formazione di docenti che fossero preparati a rispondere a queste esigenze. L’intera operazione prese subito consistenza, anche perché durante il rettorato di Marzio Strassoldo era stata riservata una cura speciale alla attività di aggiornamento dei docenti e giovani laureati. Erano stati istituiti Corsi di perfezionamento in materie scientifiche, letterarie, e nelle relative didattiche. In questo contesto di profonda trasformazione e sviluppo della offerta scientifica e didattica dell’Ateneo udinese prese avvio nel 1999 anche la Ssis, che a Udine divenne uno dei due poli, insieme con la Facoltà pedagogica, della preparazione disciplinare e didattica dei docenti di tutti i gradi scolastici. R. ne è stato Direttore provvisorio fino al 2004. Con questo curriculum di prestigio nel 2001 si è presentato alla elezione indetta per la carica di rettore con un programma che si distingueva per concretezza di visione, ma uscì eletto Furio Honsell, già prorettore durante la gestione Strassoldo. Chi gli è stato accanto può testimoniare che quel periodo è stato di grande concretezza ed efficacia grazie al lavoro indefesso da lui speso a favore della crescita dell’Ateneo udinese. La collaborazione pionieristica di docenti di diversa formazione scientifica e letteraria promosse la sperimentazione a tutti i livelli, anticipando in molte situazioni l’orientamento interdisciplinare che si è andato affermando nelle metodologie universitarie a venire. L’idea guida fu quella di migliorare e affinare le prassi didattiche, salvaguardando i contenuti tradizionali disciplinari. In questo quadro di intensi impegni accademici e organizzativi R. non smise mai di fare ricerca pura a stretto contatto con la sua equipe. Per natura riservato e restio a parlare di sé e della sua alta attività di ricercatore, di docente e di uomo, R. derogava da questo stile solo quando il discorso cadeva sui risultati delle ricerche del suo gruppo e dei successi dei suoi allievi nel produrre studi e brevetti apprezzati dalla Comunità scientifica. Per avere un’idea del fervore di ricerche, di attività didattiche e culturali create intorno alla figura di R. si può consultare la Raccolta di studi che i suoi più stretti collaboratori e estimatori decisero di dedicargli all’indomani dell’8 giugno del 2004, quando durante il Consiglio della Scuola annunciò che avrebbe ceduto la mano. Alla pubblicazione contribuirono la maggior parte dei docenti che avevano dato vita alla Ssis, uniti “quasi un saldo cerchio” intorno alla loro guida. Lasciato l’insegnamento accademico, R. continuò la sua attività di ricercatore. La sera del venerdì 20 novembre 2015, dopo un ricovero all’ospedale di Santa Maria della Misericordia di Udine, per un improvviso peggioramento del suo stato di salute è mancato, lasciando un grande vuoto tra i suoi famigliari, ma anche tra i colleghi e gli amici che hanno apprezzato in lui l’uomo di scienza, il suo equilibrio e la sua umanità. Le spoglie di Pierluigi Rigo riposano nel Cimitero di Grizzo.