MARIN BIAGIO

MARIN BIAGIO (1891 - 1985)

poeta, docente, bibliotecario

Immagine del soggetto

Il poeta Biagio Marin.

Nacque a Grado il 29 giugno 1891 da Antonio, che gestiva l’osteria delle “Tre Corone”, e da Maria Raugna, morta di tisi nel 1896. La nonna Tonia, cui Biagio era particolarmente legato, divenne subito la sostituta della figura della madre. Dopo aver frequentato alcune classi delle elementari a Grado, frequentò a Gorizia lo Staatsgymnasium, dove ebbe occasione di leggere scrittori della letteratura tedesca come Goethe, Novalis, Heine, Lenau, nei confronti dei quali si sarebbe sentito debitore. Poi venne la poesia italiana: in particolare alcune liriche di Carducci, molte liriche di Pascoli e persino di Gabriele D’Annunzio. Nel corso superiore del ginnasio, ricorda M., arrivò a Dante, che gli apparve come la sintesi di tutta una cultura di secoli e di millenni; gli si affiancarono, come ulteriori punti di riferimento della sua cultura, Beethoven, Croce e Gentile, Slataper, Fichte, Schelling, Platone, Plotino, Meister Eckardt, Omero. Mentre sarebbe rimasto estraneo non solo alla conoscenza di Freud ma anche alle esperienze delle “poetiche di gruppo”, quelle di Valéry e Mallarmé (considerati autori di «testi sterili») e dell’ermetismo («si tratta solo di manierismo, senza originalità, che ruota intorno a problemi formali»). Dopo un periodo di studio presso il Ginnasio di Pisino, seguì i corsi della Facoltà di filosofia dell’Università di Vienna (dove ebbe tra i maestri il linguista e filologo Wilhelm Meyer-Lübke, Carlo Battisti e il pedagogista Friedrich Wilhelm Foerster), alcuni corsi dell’Università di Firenze, dove strinse rapporti con Scipio Slataper e Giuseppe Prezzolini oltre che con Pina Marini, che divenne poi sua moglie. Allo scoppio della prima guerra, M. – irredentista – disertò per arruolarsi nell’esercito italiano. Per ragioni di salute, fu ricoverato prima a Firenze, poi in Svizzera. ... leggi Fu poi insegnante a Gorizia, quindi direttore dell’Azienda di cure e soggiorno di Grado, incarico che lasciò nel 1936 per tornare successivamente all’insegnamento. Dopo aver aderito al fascismo, M. – che fu segretario politico (ricorda Anna De Simone) del partito a Grado dal 1923 al 1928 – venne denunciato per attività sovversiva e nel 1936 abbandonò l’isola. Assunto come bibliotecario alle Assicurazioni Generali, dove lavorò fino al 1956, si adoperò, nel periodo badogliano, per la ricostituzione del Partito liberale e, nel 1945, fece parte del Comitato di Liberazione nazionale come rappresentante dello stesso partito. Tra il 1945 e il 1948, collaborò all’«Idea liberale». Per un periodo, si occupò anche della biblioteca del castello di Miramare. Ricoprì a lungo la carica di direttore della sezione Lettere del Circolo della cultura e delle arti di Trieste, di cui divenne presidente onorario. Nel 1969 tornò a Grado dove visse fino alla morte, avvenuta il 24 dicembre 1985. Dopo aver pubblicato alcuni versi gradesi sulla rivista goriziana «Forum Iulii», M. esordì nel 1912 con il volume Fiuri de tapo (in italiano “Fiori di laguna”) in quel dialetto gradese che – con la sua poesia – entrò tra le lingue della poesia italiana, e che rimase la lingua principale dell’attività poetica di M. In realtà, M. scrisse anche, in diverse occasioni, liriche in italiano, in qualche caso con esiti originali ed esperimenti innovativi. In questa produzione lo scrittore – contrariamente al caso delle poesie in gradese – era piuttosto parco e restio a farla circolare attraverso le stampe. Un evento che ebbe ripercussioni notevoli e drammatiche nella vita di M. fu la morte in guerra del figlio Falco. M. ha intrecciato un profondo interesse per Grado (il proprio luogo di nascita) e per il suo dialetto con una formazione culturale e con interessi più vasti. Da questo intreccio, e da questa interazione, è nata un’opera di particolare originalità. Un’opera che – analogamente a quella di Virgilio Giotti, punto di partenza per alcune importanti pagine di Pietro Pancrazi e poi di Pier Paolo Pasolini, volte a sottolineare la distanza tra poesia in dialetto e poesia dialettale, vernacolare, cresciuta all’ombra del campanile – testimonia le potenzialità di un dialetto che, negli scrittori di livello e di spessore, può diventare “lingua della poesia”. Una lingua analoga a (e con pari dignità di) qualsiasi strumento linguistico adottato per esplorare e per rivelare orizzonti ampi anche quando il referente contestuale appaia circoscritto. In questo senso, M. è, senza alcun dubbio, uno scrittore lontano da qualsiasi naïveté o vernacolarità. Il suo dialetto, adottato come lingua della poesia per motivazioni istintuali con radici profonde, appare come un’opzione necessaria poiché rappresenta una scelta dettata da ragioni culturali e ideali. Si ricordino le parole di Eugenio Montale, dette in occasione del conferimento a M. di un premio, che definiva M. un poeta che «ha tenuto alto il prestigio della poesia; e intendo poesia nazionale, espressa in una lingua originale e potente lingua latina». I versi in dialetto di M., da quelli del primo volume del 1912, Fiuri de tapo, a quelli scritti negli ultimi anni, riflettono la volontà di dar vita a una sorta di grande autobiografia poetica nella quale M. intende sia rappresentare la propria esperienza nella sua estensione sia collocarla nel proprio contesto, che è – insieme, nelle apparenze – complesso ed elementare. E dove la stessa lingua diventa contenuto di poesia, significante che è insieme significato. Una testimonianza di ciò è sicuramente la lirica Mio favelâ graisan posta in apertura alla prima edizione dei Canti de l’isola. I rapporti diretti e naturali con la lingua familiare, ancestrale, nella quale viene identificato il linguaggio della poesia, assumono dimensioni ampie, che si allargano ben oltre la scelta di una dimensione privata, intimistica, provinciale. M., autore anche di poesie in italiano di qualità, è (e si riteneva) autore soprattutto di liriche gradesi. Egli stesso ricordava che, a favorire la scelta del gradese, era stato l’invito del linguista Carlo Battisti, suo maestro a Vienna, perché gli fornisse un testo contenente un dialogo tra pescatori gradesi. Contemporaneamente, M. aveva provato a tradurre una propria lirica dall’italiano al gradese, scoprendo la superiorità del testo gradese rispetto all’italiano. Il dialetto gradese, così come il tedesco, gli era sembrato (per la ricchezza di monosillabi e di parole ossitone) adatto ad animare un verso fluido, variato, non monotono e prevedibile. Era anche un modo (Fiuri de tapo, del 1912, è contemporaneo alla pubblicazione del Mio Carso di Slataper nelle edizioni de «La Voce» a Firenze, che esprimeva analoghe insofferenze e volontà di prendere le distanze dalla cultura ufficiale, anche rispetto a quella di punta) di segnare la propria diversità rispetto a quella cultura vociana e fiorentina, alla quale pure M. era vicino. Era un’espressione della volontà di distacco dalla letterarietà, e di contatto con la vita e con la «gente solida» di cui Slataper aveva parlato. Dunque, da un lato, da parte di M., partecipazione a realtà sopranazionali ed europee e alle loro radici ed eredità classica e moderna; dall’altro lato, interesse per potenzialità nazionali, ma anche regionali e locali, e volontà di fare i conti con le radici della propria cultura. Una risposta, insieme, alla massificazione della cultura e del lavoro intellettuale nella società di massa. Ma anche la necessità di trovare – pure attraverso la lingua della poesia – la via della verità (per Michelstaedter: la persuasione) contro quella della rettorica. Dalla prima all’ultima delle raccolte di poesia di M. vi è stato, certo, un processo di alleggerimento e di illimpidimento del dettato poetico. Anche un processo di adeguamento alle forme della modernità: versi più brevi; ritmi più agili; musicalità più interiorizzata; ma pure concentrazione simbolica e metaforica più asciutta, come ha ricordato Alma Gattinoni. In versi che non intendono alterare, trasfigurando, la fisionomia di quella realtà ma piuttosto vogliono “accompagnare” la rappresentazione di un mondo, del microcosmo gradese, definendolo in una situazione di immobilità. Un mondo del quale – in una nota premessa alla prima edizione dei Canti de l’isola (1951) – M. sottolineava l’isolamento in cui, per secoli, la sua gente era vissuta, e le conseguenze e le difficoltà che la scelta (come proprio spazio di poesia) di un «mondo piccolo di pescatori sperduti su un breve dosso di sabbia tra mare e laguna» comportava. Un mondo rispetto al quale gli avvenimenti della storia e della vita contemporanea sembravano risultare quasi del tutto assenti (se si escludano la guerra nella quale si compie il destino del proprio figlio Falco – che sarà motivo costante di poesia dopo Sénere colde, 1957 – o l’esodo istriano, che è tema di fondo di Elegie istriane, 1963, o, ancora, la morte di Pasolini e la tragica fine di un nipote). In ogni caso, nessun processo di astrazione. Il microcosmo gradese rappresentato nelle liriche di M. sembra immobile (come è stato scritto per esempio da Pasolini, che considera la poetica di M. come una invariante con uno scarto minimo di livelli al proprio interno), o soggetto – come ha scritto Aldo Rossi – a una sostanziale «vocazione all’immobilismo», con la fisionomia (ancora Pasolini) d’uno «stupendo materiale eterno». In realtà, M. – poeta e uomo ben vissuto dentro la storia –, ha scelto la via della rappresentazione di un mondo apparentemente immobile per poterlo utilizzare alla stregua di un paradigma esistenziale da coniugare infondendovi inflessioni colori e suggestioni diverse (come, ha suggerito Aldo Rossi, le bottiglie di Morandi). Varianti e suggestioni di questo fondo tenace possono poi essere costituite dalla sensibilità tenue, da certi toni elegiaci della prima raccolta (Fiuri de tapo, 1912), dai richiami al Carducci intimo e da un pascolismo mai ripiegato su se stesso (La girlanda de gno suore, 1922), dalla condensazione maggiore delle raccolte intorno ai primi anni Cinquanta in cui scompaiono i tratti crepuscolari e si fa strada un canto più fermo e ricco di moralità, dall’accentuazione di una ricerca più interiorizzata a partire da Sénere colde (1957), dove i versi appaiono caratterizzati da una maggiore asciuttezza e ricerca psicologica. La sua opera complessiva di poesie in dialetto gradese non si configura né come una semplice, generica, raccolta di liriche (una sorta di contenitore generale, opera omnia) né come un “canzoniere” di tipo petrarchesco, concentrato intorno a una storia o schema che sovrintendono alla disposizione delle singole poesie. È piuttosto da considerarsi come un giornale di viaggio, o un archivio, un grande diario con il documento di tutta la sua attività, dove si susseguono le varie testimonianze di un’idea e le sue diverse realizzazioni, i gioielli, le pietre preziose assieme al conglomerato di testi che li contiene. M. scrittore europeo, italiano, gradese. M. legato – per lingua, cultura e tradizioni – a Grado e alla laguna. La lirica che apre I canti de l’isola, del 1951, Mio favelâ graisan, è una dichiarazione di poetica, la definizione di un mondo anche con i suoi colori, elementi metrici, musicalità, espressioni ed esigenze esistenziali. Nella prosa che accompagna la stessa edizione, Il mio linguaggio, M. spiegava come la scelta del gradese comportasse di necessità l’assunzione di un paesaggio materiale (esistenzialmente stilizzato in metafore), ma anche di un paesaggio umano che costituiva un universo antropologico particolare. Lo stesso che ritroviamo nella lirica Omini e mestieri della raccolta omonima del 1951. Il poeta, poi, sentiva la propria forte affinità con Aquileia, si sentiva cittadino della regione (si legga la prosa, del 1971, nel volume del Touring Club Italiano dedicato alla regione Friuli Venezia Giulia), di questa terra ai confini nord-orientali e affacciata sull’alto Adriatico. E sentiva forte il legame con l’Istria, con Gorizia (la città dei suoi studi, lavoro, amicizie, formazione), con Vienna, con Firenze e con Trieste, dove visse a lungo e dove aveva stabilito rapporti con la città e con le sue istituzioni culturali. E si sentiva “di casa”, oltre che con tutti questi luoghi, anche in Friuli, come testimoniano tanti elzeviri pubblicati dal «Messaggero Veneto» del secondo dopoguerra. O come testimoniano alcune poesie intense come Preti del Friul (in Omini e mestieri), Tera del Friul (in El vento de l’Eterno se fa teso), Tera furlana (in L’estadela de San Martin).

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Bibliografia

Opere di B. Marin. Poesia: I canti de l’isola, Udine, Del Bianco, 1951; La vita xe fiama, a cura di C. MAGRIS, Prefazione di Pier Paolo Pasolini, Torino, Einaudi, 1970 e 1982; I canti de l’isola (1912-1969), Trieste, Cassa di risparmio di Trieste, 1970 e Trieste, Lint, 1991; I canti de l’isola (1970-1981), Premessa di E. Serra, Trieste, Lint, 1981; I canti de l’isola (1982-1985), con Premessa di E. Serra, Trieste, Lint, 1994; Acquamarina, poesie in italiano, con una nota di U. Fasolo, Cittadella, Rebellato, 1973; El vento de l’eterno se fa teso, a cura di E. SERRA - E. GUAGNINI, con una Cronaca essenziale dei saggi critici su Biagio Marin, una Bibliografia degli scritti di Biagio Marin e una Bibliografia degli scritti su Biagio Marin di E. GUAGNINI, Milano/Trieste, Scheiwiller/La Editoriale Libraria, 1973; A sol calao, con un saggio introduttivo di C. Bo, Milano, Rusconi, 1974; Stele cagiùe, a cura di G. JACOLUTTI, Milano, Rusconi, 1977; Nel silenzio più teso, a cura di E. SERRA, saggio introduttivo di C. Magris, Milano, Rizzoli, 1980. Prosa: Grado, Udine, Edizioni de La Panarie, 1934; Gorizia, Padova, Le Tre Venezie, 1940; I delfini di Scipio Slataper, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro (Scheiwiller), 1965; Parola e poesia, saggi, con Introduzione di E. Guagnini, Genova, La Lanterna, 1973; B. MARIN - G. VOGHERA, Un dialogo. Scelta di lettere 1967-1981, a cura di E. GUAGNINI, Trieste, Provincia di Trieste, 1982; Gabbiano reale, prose e racconti, a cura e con Prefazione di E. GUAGNINI, Gorizia, LEG, 1991 (con una Bibliografia della critica su Biagio Marin di F. SCARPA ); La voce lontana. Diari 1941-1950, a cura di I. MARIN, con uno scritto di E. GUAGNINI, Gorizia, LEG, 2005; Le due rive. ... leggi “Reportages” adriatici in prosa e in versi, a cura di M. GIOVANETTI, Reggio Emilia, Diabasis, 2007; B. MARIN - G. BRAZZODURO, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985, a cura di P. CAMUFFO, Pisa/Roma, F. Serra, 2009; Biagio Marin ai Gradesi, saggio di G. GREGORI e lettere di B. MARIN, Mariano del Friuli, EdL, 2009. Fotografia: L’occhio di Biagio Marin. Fotografie, a cura di E. GUAGNINI - I. ZANNIER - W. GADDI, Mariano del Friuli, EdL, 1994.

Per la biografia, ma anche per la ricostruzione dell’itinerario poetico, si veda particolarmente il preciso e documentato saggio di A. DE SIMONE, L’isola Marin. Biografia di un poeta, Padova, Liviana, 1992. E si veda inoltre E. SERRA, Biagio Marin, Pordenone, Studio Tesi, 1992.

Per la bibliografia, si vedano le citate appendici di E. GUAGNINI a B. MARIN, El vento de l’Eterno se fa teso e la bibliografia di F. SCARPA in appendice alla citata edizione di Il gabbiano reale. E si veda inoltre l’antologia della critica, Poesia e fortuna di Biagio Marin, a cura di E. SERRA, Gorizia, Provincia di Gorizia, 1981. Dal 1991, a cura del Centro Studi Biagio Marin di Grado, si pubblica la rivista «Studi Mariniani», diretta da E. Serra, alla quale si rinvia per aggiornamenti bibliografici, pubblicazioni di inediti vari, informazioni e ricognizioni su fondi mariniani. E si veda anche la voce Marin, Biagio di C. GALIMBERTI, in Dizionario critico della letteratura italiana, III, Torino, UTET, 19862. E si ricordi, inoltre, G.P. RESENTERA, Il divino nell’opera di Marin, Schio, Ascledum, 1976. Tra gli interventi critici significativi, oltre alla prima presentazione di G. PITACCO (Un poeta della laguna gradese, «Forum Iulii», II, 1912) e all’intervento di N. BALDENCIO (Fiuri de tapo, «La Patria del Friuli», 6 aprile 1913) se ne ricordano alcuni: E. MONTALE, Libri di poesia, «La Fiera letteraria», 25 maggio 1928; D. MENICHINI, I canti de l’isola, «MV», 21 marzo 1951; G. PREZZOLINI, Un’anima omerica, «Il Tempo», 4 marzo 1954; G. CAMBON, Biagio Marin, poeta veneto, «Itinerari», 8 giugno 1954, 118-129; A. SPAINI, Fiori di laguna, «Il Messaggero», 20 settembre 1958; G. CAPRONI, «Tristessa de la sera» di Biagio Marin, «La Fiera letteraria», 9 febbraio 1958; P.P. PASOLINI, La poesia dialettale del Novecento, in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, 122-123; A. PAOLINI, «L’ora del gran conto», «Questo e altro», 6-7 (1964), 71-73; P. SANTARCANGELI, Elegie istriane, «Il Ponte», 2 (1964), 250-252; S. CRISE, Omaggio a Marin, «Il Piccolo», 16 giugno 1965; B. MAIER, La poesia in dialetto gradese di Biagio Marin o «il canto» «di una vita», in La letteratura triestina del Novecento, Saggio introduttivo all’antologia Scrittori triestini del Novecento, pubblicata dal Circolo della cultura e delle arti di Trieste, Trieste, Lint, 1968, 167-182; G. CATTANEO, ‘I Canti de l’Isola’ di Biagio Marin, «Paragone-Letteratura», 21/248 (1970), 143-148; P.P. PASOLINI, Appunti per un saggio su Biagio Marin, in La vita xe fiama, a cura di C. MAGRIS, Torino, Einaudi, 1970, V-X; S. SALVI, Recensione a La vita xe fiama, «Il Bimestre», 11-12 (1970), 34; G. GIUDICI, L’eretico di Grado, «L’Espresso», 4 luglio 1971; C. BO, Il «mar grando» di Biagio Marin, in MARIN, A sol calao, cit., 1974, 5-39; A. ZANZOTTO, Poesia che ascolta le onde, «Corriere della sera», 5 giugno 1977; A. GATTINONI, Biagio Marin: la poesia dell’eterno ritorno, «Studi Goriziani», luglio-dicembre 1978, 51-70; C. MAGRIS, I tempi delle conchiglie, in Dietro le parole, Milano, Garzanti, 1978, 40-44; P.V. MENGALDO, Biagio Marin, in Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, 501-505; E. GUAGNINI, in Note novecentesche, Pordenone, Studio Tesi, 1979, 3-33 e 175-187; F. LOI, Il «silenzio» di Marin, «Nuova Rivista Europea», luglio-settembre 1980, 18; C. MAGRIS, Io sono un golfo, in MARIN, Nel silenzio più teso, cit., 5-24; R. FACCANI, Biagio Marin nel novenario giambico, «Belfagor», 38 (1983), 1-48; F. BREVINI, Biagio Marin, in Poeti dialettali del Novecento, Torino, Einaudi, 1987, 113-116; B. MAIER, Il carteggio tra Biagio Marin e Giorgio Voghera, in Dimensione Trieste. Nuovi saggi sulla letteratura triestina, Milano, IPL, 1987, 267-271; F. FIDO, La fattura ininterrotta. Per una storia della poesia di Biagio Marin, «Problemi», 95 (1992), 228-246; E. GUAGNINI, Biagio Marin nella cultura italiana del Novecento, «Quaderni veneti», 24 (1996), 111-123; ID., Marin, la poesia, le poetiche del Novecento italiano, «M&R», n.s., 16/1 (1997), 3-11; C. MAGRIS, Lagune, in Microcosmi, Milano, Garzanti, 1997, 57-91; P. CAMUFFO, Biagio Marin, la poesia, i filosofi, Mariano del Friuli, EdL, 2000; P.V. MENGALDO, Marin come lirico, in La tradizione del Novecento, Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, 47-52; G. BORGHELLO, «Mio favelâ graisan»: i fili della poetica di Biagio Marin, «Studi e problemi di critica testuale», 69 (2004), 173-200; R. ZUCCO, Paradigmi metrici mariniani, «Stilistica e metrica italiana», 8 (2008), 253-286; R. LUNZER, Biagio Marin, l’irredentista nella “montagna incantata”, in Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ’900, Trieste, Lint, 2009, 69-112; E. GUAGNINI, Un dialogo di frontiera. Biagio Marin-Gino Brazzoduro: un carteggio ad alta tensione, in Carte private. Taccuini, carteggi e documenti autografi. Atti del convegno (Bergamo, 26-28 febbraio 2009), Bergamo, Moretti & Vitali, 2010, 227-247; B. MARIN, Lettere familiari 1908-1954, a cura di E. GUAGNINI, con un saggio di R. Sanson, Padova-Trieste, Simone Volpato Studio Bibliografico, 2010.

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