PASCOLI PIETRO

PASCOLI PIETRO (1887 - 1955)

insegnante, poeta, pittore, attore, musicista

Più noto come Pieri di Sandenêl, P. nacque a San Daniele del Friuli il 12 luglio 1887. Diplomatosi perito agrimensore a Treviso e insegnante di disegno a Venezia, dal 1921 al 1926 fu direttore e insegnante nelle scuole professionali di Maiano. Nel 1926 emigrò negli Stati Uniti, stabilendosi a New York, insegnante di ornato e figura nella scuola Leonardo da Vinci. A New York nel 1927 fondò la Famee furlane [Famiglia friulana]. Nel 1931 rientrò in Italia e a San Daniele riprese l’insegnamento nella Scuola di avviamento professionale e nella scuola serale gestita dalla Società operaia di mutuo soccorso. Sempre a San Daniele dal dicembre 1936 al febbraio 1940 fu commissario prefettizio del comune. Nel 1945 riunì i suoi versi nel volume Poesiis furlanis. Non senza scremature, che rimuovono, con una prosa (Usancis [Usanze] a New York), gli Stornei [Stornelli], un genere che ha avuto scarsa fortuna nella storia degli usi scritti (e cantati) del friulano: «Rose di fèn: / però il cûr ’e mi dîs ancie une robe, / e ché ’e jé cheste: che ti vuei tant bèn» [Rosa di fieno: / però il cuore mi dice anche una cosa, / e quella è questa: che ti voglio tanto bene]. Ma che censurano soprattutto i componimenti di più marcato sostegno al regime: non si prestano all’equivoco titoli come Orazion pa consegne da vere nuziâl a la Patrie [Orazione per la consegna della fede nuziale alla Patria], Cuintri-sanzions [Controsanzioni]. Dove peraltro restano immutati i modi della villotta: «Al è il zîl che zà s’indore / la serade ’a jé un inciànt, / di partî vignude ’a è l’ore / e i soldâs van vie ciantànt…» [Il cielo già si indora / la sera è un incanto, / di partire venuta è l’ora / e i soldati vanno via cantando…]. E dove affiora una ingenua fiducia di stampo pascoliano: «Lôr ’a san che l’àur donât / al covente pai soldâz, / che se vincin cheste guere / no varìn disocupâz. // Lôr ’a san che l’àur donât / darà prest a duc’ i fîs / pâs, lavôr, felicitât» [Loro sanno che l’oro donato / serve per i soldati, / che se vincono questa guerra / non avremo disoccupati. ... leggi // Loro sanno che l’oro donato / darà presto a tutti i figli / pace, lavoro, felicità]. P. si dedicò anche alla pittura, al teatro (come attore), e «musicò personalmente alcune sue liriche divenute famose e ancora presenti nel repertorio di diversi cori» (Milillo). Suoi versi suscitarono l’interesse di altri musicisti, come Garzoni, Marzuttini e Persoglia. Secondo D’Aronco, P. «deve al suo peregrinare i versi più spontanei e desolatamente crudi. Fra tanti echi zoruttiani, Come la fuee, scritta a New York, riassume con semplicità ma con vigore lo struggimento di chi è lontano dalla propria terra». La raccolta si avvia con l’autoritratto, un genere topico, che però non si propone con il canonico sonetto, ma nella quartina di ottonari, più agili e leggeri: «Pizzulùt soi di stature / sut di vite e un tic pleât…» [Piccoletto sono di statura / asciutto di vita e un po’ curvo…]. È un mondo rarefatto, morbido, una natura vellutata, che di necessità si coniuga con gli affetti teneri, con i buoni sentimenti: «La gnot ven donge / portànt la pâs, / a lûs la lune / e dut al tâs…» [La notte si avvicina / portando la pace, / brilla la luna / e tutto al tace…]. Così, nel dicembre 1926, dalla nave Duilio diretta a New York. La traversata con i suoi disagi è nel segno obbligato della nostalgia, con il contrappunto di una fisicità esibita (quanto fortuita), che sfiora il grottesco, istituzionalmente comico: «Cui vomite, cui si stuarz / […] / cui al vai e cui al gnàule» [Chi vomita, chi si torce / […] / chi piange e chi miagola]. Anche l’esperienza della metropolitana, il «tram sot tiere» [tram sotto terra], si decanta in scherzo, uno scherzo che comunque sdrammatizza, assorbe la sofferenza, lo straniamento: «No savè ne lei, ne scrivi, / volè svelt ciapà un mistîr / e capì la înt a motos / al è, fîs, un gran pensîr» [Non sapere né leggere, né scrivere, / volere presto prendere un mestiere / e capire la gente a gesti / è, figli, un gran pensiero]. Non un anglismo che filtri (pur se a distanza si potrà cogliere in filigrana una immagine dell’America in Il zuc da bale tal zei [Il gioco della palla nel cesto: la pallacanestro]). La fondazione della Famee furlane inaugura la serie delle poesie destinate agli incontri, a rincalzarne (e a promuoverne) la cordialità, un filone che prosegue al rientro in patria con i versi legati a contingenze anche futili (o apertamente promozionali: il prosciutto di San Daniele, le pantofole di San Daniele), con il ritorno insistito, tra 1937 e 1939, sulla Cavalchina, il ballo dell’ultimo lunedì di carnevale. Dove il taglio giocoso convoglia più palesi debiti con Zorutti, come la figura del catalogo: «I balarìn la stàjare, / la sclave e la monfrine, / il menoè e la bòlzare…» [Balleremo la stiriana, / la mazurca e la monferrina, / il minuetto e il valzer…] (ma tra i balli emergono anche «tangos» e «fox trots»). Al rientro in patria prevale tuttavia la voce levigata della villotta, con l’insistita cadenza del diminutivo: «busute» [buchetto], «ciasute» [casetta], «gotute» [goccetto], e via via. L’idillio non demorde neppure nel frangente della guerra, di fronte alle atrocità del conflitto. Tra il 1942 e il 1943, da Pola, P. batte sulla magia della stagione che si rinnova: «’A torne primevere / a solevâ ogni cûr / cu ’l manto plen di rosis / e il cîl seren e pûr…» [Torna primavera / a sollevare ogni cuore / con il manto pieno di fiori / e il cielo sereno e puro…]. Sta a sé Storis e usancis da Pifanie [Storie e usanze dell’Epifania], dove, con un verso che si distende in racconto, nella cornice affettivamente implicata del focolare, una nonna trasmette ai nipotini il suo sapere sul tema in epigrafe. Ma ancor più si stacca, in una autonoma seppur breve sezione, il piccolo trionfo della battuta, dell’aneddoto burlesco. Come Bon nâs [Buon naso]: «Aviert un telegràm / esclame un puor biât: / ‘A jè sigûr mé fie, / jôt la caligrafie’ [Aperto un telegramma / esclama un povero sempliciotto: / “è di sicuro mia figlia, / vedo la calligrafia”]. P. morì a Villa Santina il 29 giugno 1955.

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Bibliografia

Poesiis furlanis, San Daniele del Friuli, Tip. Buttazzoni, 1945.

DBF, 598-599; Mezzo secolo di cultura, 196-197; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 221; G. ZARDI, Un nuovo tesoro alla Guarneriana. Le poesie autografe di Pietro Pascoli (ms n.s. 310), «MV», 9 dicembre 1992; G. MILILLO, Teatro e teatranti. Quintino Ronchi, Dree Sflacje (Andrea Bianchi) e altri, in San Denêl, 307-309.

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