SOMEDA DE MARCO PIETRO

SOMEDA DE MARCO PIETRO (1891 - 1970)

notaio, scrittore, storico

Immagine del soggetto

Lo storico Pietro Someda de Marco (Udine, Civici musei, Fototeca).

Nacque a Mereto di Tomba (Udine) il 14 novembre 1891. Laureato in giurisprudenza a Padova, esercitò la professione di notaio a Udine, oltre che a Mereto, dal 1932 al 1966. Fu podestà di Mereto dal 1927 alla fine della guerra. Nel profilo che Pietro Londero premette a Prosa e prosatori in friulano, emerge l’«uomo equilibrato e funzionario integerrimo», «economo oculato e solerte» nella conduzione della sua azienda agricola, «ideatore e costruttore di opere sociali in paese, pressante suggeritore di opere ricreative ed educative in parrocchia», ma il profilo non rimuove una qualche asprezza, il senso marcato della gerarchia. Socio dell’Accademia di Udine, della Deputazione di storia patria, dell’Ateneo veneto e di altre istituzioni, S. fu per vari anni redattore dello «Strolic furlan» (dal 1926 al 1931 e dal 1951 al 1957) e direttore del «Ce fastu?» (dal 1927 al 1929). Morì a Mereto il 20 dicembre 1970. Il miò zardín [Il mio giardino], del 1926, prima raccolta poetica, riserva l’avvio al tema della guerra, dell’«esilio doloroso», una seconda parte a fotogrammi «di campi arati e di coloriti cortili, di sere malinconiche e di albe luminose» (Ermacora), una terza a figure della vita, destini dolenti e bruciati, mentre l’epilogo dà udienza all’amicizia e all’amore («Come un dí seren d’avrîl / il to non mi rîd tal cûr…» [Come un giorno sereno di aprile / il tuo nome mi ride nel cuore…]). Con strategie metriche nel solco della tradizione: villotte, sonetti (senza agganci tra le due quartine), versi più esili e leggeri, in frizione con le vicende amare di cui dicono con malinconico pudore. ... leggi Il cocolâr [Il noce] esce nel 1943, con dedica a Bindo Chiurlo, e vi sono ribadite le «prerogative» che connotano la poesia di S., «il senso georgico e una comica festività» (Girardini), una dicotomia che è già di Zorutti. Ha ruolo di privilegio il ritmo delle stagioni, dove non affiora traccia di sudore, in una trama irenica, che non conosce attriti («Il lavôr no l’è fadíe / i paróns son boins amîs…» [Il lavoro non è fatica / i padroni sono buoni amici…]). Rango di rilievo ha il cerchio degli affetti domestici, con i medaglioni della madre e del padre, con una tenerezza particolare per le vite più giovani, per l’infanzia, a inalvearsi nell’onda cullante della ninna nanna («Fâs la nane il mió ninín, / siere i voi e sta cidín, / se tu tasis i agnulúz / vegnin jù come ucelúz…» [Fa’ la nanna il mio piccino, / chiudi gli occhi e non parlare, / se non parli gli angioletti / vengono giù come uccellini…]). Spazio considerevole ha l’istanza patriottica, nel frangente della dichiarazione di guerra («Itálie, Itálie! / o patrie me / dut il to popul / al vîv cun te…» [Italia, Italia! / o patria mia / tutto il tuo popolo / vive con te…]), voce unanime del dovere, di un sacrificio composto e convinto. La «comica festività» ha il suo stigma metrico nella sesta rima: all’interno de Il cocolâr con il poemetto La coriere [La corriera], ancora a cavalli, oltre che con Il purcìt di Sant’Antoni [Il maiale di Sant’Antonio], del 1939, A vegnin jú i todescs [Calano i tedeschi] («Il strolic furlan pal 1957», ma con data «Merêt di Tombe 1945»), che S. definisce satirici. A vegnin jú i todescs fotografa la vita paesana durante l’occupazione tedesca, dall’armistizio alla ritirata, e censura la condotta delle ragazze, in sconveniente confidenza con gli occupanti. La compilazione dello «Strolic» procura a S. il dialogo con i giovani di “Risultive” e a questo dialogo S. riconosce la spinta, non radicale, a una scrittura più sciolta, peraltro estranea ai moduli dell’ermetismo, sempre contigua a un orizzonte popolare. In Poesiis [Poesie], del 1952, il frammento svincolato da strutture chiuse si affianca ancora ad alcuni sonetti, a più numerose quartine di ottonari e di senari. Il registro non concede udienza al guizzo burlesco, ma, pur in una grande varietà di toni, fa perno (e quasi blocco) sul nodo della casa, sulla natura (fiori e uccelli, notturni stellati, ma anche nebbie inquietanti, il brivido del vento e della pioggia). In Soreli a mont [Sole al tramonto], del 1959, la corda elegiaca è dichiarata fin dal titolo. La curva della vita, la malinconia che ne discende si avvertono soprattutto nei versi estremi, specie nel testo conclusivo, eponimo: «Si siere la stagion, / a mont al va il soreli…» [Si chiude la stagione, / tramonta il sole…], ma il bilancio innesca, con pacata fermezza, lo sbocco trascendente. Importa comunque rilevare il taglio diaristico, la notazione piana e discreta, una quotidianità quasi frusta, nel quadro di una natura che si fissa in immagini lievi («Trémin di blanc lis pontis / lizeris dai poi…» [Tremano di bianco le punte / leggere dei pioppi…]), depositando (o depositandosi in) una saggezza che è fatta di semplicità («Une robe di nuie! Ma la pâs / crodeimi a è cussì…» [Una cosa da nulla! Ma la pace / credetemi è così…]). La metrica è libera, con rime sparse (anche interne). Su l’ale dal timp [Sull’ala del tempo], del 1969, è l’ultimo volume di versi di S., e già il titolo, nella liquidità del senario, dà corpo al vettore portante, alla chiave del tempo che va: non nel segno dell’angoscia, perché è saldo il gusto della vita, costante il richiamo al creato e al Creatore, non senza un palese rifiuto della modernità, della sua frenesia. Tra la certezza dei legami più gelosi e la terra: «la tiere infin cjalde / che sole ’e po dâ / vite a la vite» [la terra infine calda / che sola può dare / vita alla vita]. La metrica è libera e può ospitare endecasillabi perfetti come «’E clare come un lambri la matine…» [È chiara e limpida la mattina…], pur recuperando sul finire anche schemi chiusi. A dispetto dei neologismi («azâr» [acciaio], «benzine» [benzina], «moto» [motocicletta] e «motôrs» [motori], «sputnic», «stratosfere» [stratosfera], «tratôr» [trattore]), la poesia di S. trova un emblema umile e prezioso in «florghís» [nontiscordardimè], lemma ormai desueto. Versi di S. sono stati musicati da Vittorio Fael, Bepo Vasinis e Luigi Vriz, oltre che da Ottavio Paroni (S. ha partecipato al festival della canzone friulana dal 1959 al 1969). Se la poesia è scandita in più tappe, un solo libro riunisce la prosa, Sul troi de vite [Sul sentiero della vita], in prima edizione nel 1957, in seconda nel 1968. Il risvolto di copertina sottolinea il «lirismo autobiografico che trascende il motivo regionale in un’aura incantata di memoria», ma il radicamento nel paese è fermo, svariando tra aneddoto autobiografico (pubblico e privato: non rimossi i ricordi del fascismo) e racconto breve (con qualche indulgenza per le tonalità morbide), tra affabilità del porgere e grigiore dell’esistere: tradizioni, scampoli di vita (e di miseria), nascite e morti, solitudini grame, bordone sordo di un intreccio coeso, ma non sempre clemente. In una scrittura analitica, un bel friulano, che di regola respinge la forzatura, il neologismo (o il prestito) ruvido, con deroghe rare: «box pai arioplans» [box per gli aerei], «telèfon» [telefono]. Il gusto della disciplina, il senso della scala sociale attraversa l’intero arco, dai primi anni di scuola, isola assorta, all’epilogo del fascismo, al filmato livido dei partigiani, alla loro inquietante alterità, ed è crudo il quadro del dopoguerra, ma, a dare corpo al sussiego, basterà il ritratto del contadino che pretende di succedergli nella carica di sindaco: «Al veve fat sì e nò la seconde elementâr, al jere stât in chel moment a cjamâ ledan e quatri spilocs di cjavei sudâz j jerin smacaiâz sul zarneli…» [Aveva fatto sì e no la seconda elementare, era stato in quel momento a caricare letame e quattro ciuffi di capelli sudati gli si erano appiccicati sulla fronte…]. Ma importa la verità dell’universo contadino, il bisogno del possesso della terra, l’icona delle mani che fissano una vita intera: «mans dutis ingrispadis, cu lis aìnis gropolosis, lis venis induridis, mans ch’a vevin tant navigât par tignî drete la famee» [mani tutte raggrinzite, con le nocche nodose, le vene indurite, mani che avevano tanto trafficato per tenere in riga la famiglia]. Più largo e generoso, sorretto da evidenti obiettivi pedagogici, è il contributo teatrale. Estro, «squisite doti di osservatore», una «‘verve’ popolaresca»: così uno stelloncino non firmato de «La Panarie» del 1925 a proposito di un monologo. A fissare in prima battuta il ventaglio torna opportuno il catalogo della collana teatrale delle Arti grafiche friulane. I testi svariano dal monologo, rapido per statuto, che a sua volta può essere «drammatico» o «brillante», all’azione più distesa (fino ai tre atti), dal «matez», dallo scherzo dalla vivacità un po’ scontata (come …al fresc! […al fresco!], dove una moglie pretende di lasciare al fresco il marito ubriaco e a restare chiusa fuori di casa è proprio lei), dalla farsa più o meno frizzante, dalla «commedia comicissima» (e «commedia di grande comicità», «commedia ultra comica», «monologo d’irresistibile comicità»), dalla tonalità «brillante», con gradazioni quindi diverse, alla vena più pensosa («commedia di alta umanità e pentimento»), a una più umbratile urgenza di commozione («commedia romantica… di grande effetto»), ad accenti più tesi e angosciati («monologo drammatico»), pur se in genere a prevalere è la strategia scanzonata. E faceti sono gli inserti di altre lingue: il veneto in Barbane [Barbana], il napoletano caricaturale in Ursule [Orsola], un altrettanto caricaturale italiano maccheronico in La buteghe dal barbîr [La bottega del barbiere]. La scrittura è leggera (ma il friulano resta solido e duttile), in funzione di uno spettacolo concreto: per le compagnie di paese, per la compagnia della Società filologica friulana. Un teatro che non evita il confronto con l’attualità viva. Come in Resurezion a Pontínie [Resurrezione a Pontinia], nella cornice delle grandi bonifiche operate dal regime e, in filigrana, si scorge il duce, con le parole d’ordine che punteggiano gli scambi: «il lavôr è la nestre fuarze, l’ordin è la nestre grandezze…» [il lavoro è la nostra forza, l’ordine è la nostra grandezza…]. Come (ma diversamente) in Un pugn di móscjs [Un pugno di mosche], postumo, che abbandona la campagna per l’umanamente più desolato perimetro della città, per la fabbrica, e città e fabbrica, remote dalla terra, dai principi che ne governano le maglie, raccolgono uno sguardo perplesso, non solidale. Anche la lingua si apre al transeunte, con un vistoso «mangje discos» [mangiadischi]. Una condizione estranea, lunare. Una operosità alacre connota anche S. saggista, che dà prova di sé nella monografia conclusa, ma anche (e con frequenza alta) nell’articolo breve, oltre che nelle memorie proposte con assiduità nell’Accademia di scienze, lettere e arti di Udine. Una bibliografia che si può distribuire a scala: dai termini più implicati della famiglia (l’Albero genealogico, del 1909, l’omonimo Pietro Someda, «umanista friulano del Settecento», del 1957) al perimetro più ampio del paese (oggetto di volumi come Mereto di Tomba nella storia e nell’arte, del 1969, Gian Domenico Bertoli e la sua terra natale, del 1948). L’onestà dello scavo erudito è costante e interessa libri come Notariato friulano, del 1958, e Medici forojuliensi dal sec. XIII al sec. XVIII, del 1963, ma innerva anche pagine più veloci, nel segno della curiosità: dal ginepro nella medicina alla moda nel Settecento (un lacerto d’archivio dal fascino pungente: «Le scarpe sono strette lunghe, la parte verso il calcagno è guarnita di smeraldi, e si chiama Venite a vedere…»). Fanno gruppo alcuni saggi dedicati alle arti figurative: accanto a Il pittore Domenico Someda, del 1951, più robusto, i meno ampi, ma sempre informati, Giuseppe Buzzi pittore friulano del Settecento, del 1970, Un ritratto inedito del Politi, del 1967, Giuseppe Malignani pittore e fotografo, del 1962. Si aggiunga, a cavallo con un altro settore, l’Iconografia ragionata di Pietro Zorutti (1792-1867) nella scultura, del 1970. Anche la critica letteraria si muove a spettro aperto, indugiando su figure care come Fabio Simonutti (1941) e Giovanni Lorenzoni (1954), sul teatro friulano (1963), ma illustrando anche Il pilustrât, un racconto inedito del sandanielese Paolo Beinat (1862-1946), un tentativo di romanzo cronologicamente alto. Nei saggi la scrittura è chiara e scorrevole, ma si inarca di passione nella difesa di Zorutti, che resta nume tutelare anche in anni che ne hanno ormai sanzionato il declino (Il senso della natura nella poesia di Pietro Zorutti, del 1967): «si accostava tutto spiritualmente alla sua gente, assorbiva lo spirito del basso popolo e l’espressione sempre vivace della piccola borghesia, raccoglieva quell’umore rustico, quel sano spirito allegramente spregiudicato che si traduceva in facezie e giochi di parole, in elementi satirici e giocosi che costituiscono ancor oggi in Friuli in compendio quasi una leggenda Zoruttiana». Nel segno risentito della fedeltà: a un mondo e, insieme, all’interprete di quel mondo.

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Bibliografia

Poesia: Il miò zardìn, Udine, Edizioni de La Panarie, 1926; Il purcìt di Sant’Antoni, cun disèns di E. Mitri, San Daniele del Friuli, Arti grafiche sandanielesi, s.d. [ma 1939]; Il cocolâr, Prefazione di E. Girardini, Udine, AGF, 1943; Poesiis, Prefazione di G. Marchetti, disegni di F. Pittino, Udine, AGF, 1952; Soreli a mont, Udine, Il Tesaur, 1959; Su l’ale dal timp, Presentazione di D. Zannier, Udine, AGF, 1969. Prosa: Sul troi de vite. Contis furlanis, Presentazione di L. Cjanton, disens di R. Tubaro, Udine, AGF, 1957, 19682, cu la zonte di tantis altris contis furlanis, con altre illustrazioni. Teatro: ’O mi ricuardi…, Udine, Libreria Carducci, 1923; La buteghe dal barbîr, pipins di C. S[omeda] d[e] M[arco], San Daniele del Friuli, Arti grafiche G. Tabacco, s.d. [ma 1937]; Udine, AGF, 19502; Ursule, pipins di C. S[omeda] d[e] M[arco], San Daniele del Friuli, Arti grafiche G. Tabacco, s.d. [ma 1937]; Udine, AGF, 19502; Barbane, pipins di C. S[omeda] d[e] M[arco], San Daniele del Friuli, Arti grafiche G. Tabacco, s.d. [1938?]; Udine, AGF, 19562; Resurezion a Pontínie, Udine, AGF, 1942; Vilie di Nadâl, Udine, AGF, 1948; L’avocat e la lujanie e L’ombrenâr, Udine, AGF, 1957; Sabide Sante e Butinle in stàjare, Udine, AGF, 1949; A l’oselade e Une scarpute, Udine, AGF, 1949; Gnot di Nadâl e Ciase di fitâ, Udine, AGF, 1952; Mame, Udine, AGF, 1952; Barbane e …al fresc!, Udine, AGF, 1956; Il prossim, Udine, AGF, 1969; Un pugn di móscjs, Presentazione di N. Pauluzzo, Udine, AGF, 1972. Saggi: Fabio Simonutti sacerdote, patriota, poeta, Udine, AGF, 1941; Gian Domenico Bertoli e la sua terra natale, Prefazione di G. Vale, Udine, Edizioni de La Panarie, 1948; Il pittore Domenico Someda, Udine, AGF, 1951; Notariato friulano, Prefazione di T. Tessitori, Udine, AGF, 1958; Medici forojuliensi dal sec. ... leggi XIII al sec. XVIII, Presentazione di A. Varisco, Udine, Edizioni «Il Friuli medico», 1963; Il senso della natura nella poesia di Pietro Zorutti (1792-1867), Udine, AGF, 1967 [estratto da «AAU», s. VII, 10 (1966-1969)]; Mereto di Tomba nella storia e nell’arte, Udine, AGF, 1969 (= Udine, La Nuova Base, 1987); Prosa e prosatori in friulano, Presentazione di P. Londero, Udine, AGF, 1973 [estratto da «AAU», s. VII, 10 (1970-1972)].

DBF, 754; C. ERMACORA, Recensione a Il miò zardìn, «La Panarie», 3/18 (1926), 398-399; G. COMELLI, Recensione a Poesiis, «Ce fastu?», 27-28 (1951-1952), 201-202; R. VALENTE, Recensione a Il pittore Domenico Someda, ibid., 199-200; D’ARONCO, Nuova antologia, III, 41-42; N. CANTARUTTI, Int che je lade, «Ce fastu?», 44-47 (1968-1971), 16-17; D. VIRGILI, Ricordo di Pietro Someda De Marco, «Sot la nape», 23/1 (1971), 11-13; A. TOSO, Pietro Someda De Marco storico scrittore poeta friulano 1891-1970, Udine, Circolo di cultura Luigi Einaudi, 1973; Mezzo secolo di cultura, 257-259; L. VERONE, Rassegne di leterature furlane des origjinis al nestri timp, Udine, SFF, 1999, 330-331.

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