TORRE (DELLA) RAIMONDO

TORRE (DELLA) RAIMONDO (? - 1299)

patriarca di Aquileia

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Il patriarca Raimondo in un particolare della sua arca (Aquileia, basilica).

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Denaro di Raimondo della Torre.

(Nato verso il 1230, milanese, era figlio di Pagano e fratello di Napoleone e Francesco, signori di Milano al tempo della sua elezione patriarchina. Nel 1251 arciprete di Monza, nel 1262 ricevette il vescovado di Como, al posto di quello ambrosiano, a cui aspiravano lui e la sua famiglia, conferito invece al capo della fazione politica avversaria, Ottone Visconti. La sua intensa attività diplomatica in Lombardia, l’importanza della famiglia, a capo della parte guelfa nell’Italia settentrionale, gli appoggi presso la curia papale e le ambizioni ebbero infine un riconoscimento ed un esito superiori alle aspettative, quando il papa Gregorio X gli assegnò quello ch’era considerato il più importante beneficio ecclesiastico d’Italia: il 21 dicembre 1273, R. fu nominato patriarca d’Aquileia. In realtà, la diocesi si estendeva per lo più oltralpe: sulla Slovenia, la Carinzia fino alla Drava e una parte della Stiria. La provincia metropolitica aquileiese comprendeva altresì diciassette diocesi suffraganee, fra la Lombardia e l’Istria. Nel febbraio del 1274 R. ricevette il pallio di metropolita, ma soltanto in agosto entrò in Friuli, a capo di uno splendido seguito, costituito da più di ottocento cavalieri: originari della Lombardia e di Padova, città di cui era podestà suo nipote Goffredo, e per la quale il patriarca era passato. I Friulani, sia nobili, sia plebei, lo accolsero con favore, anche perché con lui aveva termine la lunga vacanza del seggio patriarchino, iniziata nel 1269. Molti parenti ed altri Lombardi facevano parte del seguito di R., altri ancora lo raggiunsero negli anni successivi, soprattutto dopo che i Torriani furono sconfitti nella battaglia di Desio (1277) e la signoria di Milano passò ai Visconti. ... leggi Ma già alla fine del 1274 R., con un seguito di nobili friulani, era nella città ambrosiana, per incontrarvi Gregorio X, di ritorno dal concilio di Lione; e rientrò in Lombardia, per combattere a capo di truppe friulane e a fianco dei sostenitori della sua famiglia, fra il 1275 e il 1279, e infine nel 1281, ma senza riportare successi militari, dopo la sconfitta di Desio. L’attività bellica, come quella politico-diplomatica, era inerente alla sua condizione di principe del patriarcato d’Aquileia; le offensive militari e la difesa armata dello Stato, le alleanze, le guerre e le paci, secondo quelli che apparivano, nelle diverse circostanze, gl’interessi del principato ecclesiastico, facevano parte della normalità dei suoi obblighi, insieme ecclesiastici e civili. La tutela del potere temporale del presule era, contemporaneamente, tutela della Chiesa. In quest’ottica vanno intesi gli ottimi rapporti, stretti e mantenuti con l’imperatore Rodolfo d’Asburgo, che R. raggiunse a Vienna nel 1277; e la lunga, anche se discontinua, guerra contro Venezia per il possesso dell’Istria (1283-1291), di cui il patriarca era marchese. Le inimicizie con i conti di Gorizia e con Gerardo da Camino, signore di Treviso, erano legate ai loro tentativi di espansione in Friuli, ora con iniziative particolari, ora appoggiando castellani ribelli, per il controllo di un fortilizio, di un borgo, di una “muta” (dogana), di un tratto delle strade che collegavano la pianura veneta o il mare Adriatico alla Carinzia o alla Slovenia. Per la prosperità del patriarcato, le vie di comunicazione del Friuli dovevano essere libere e sicure al passaggio dei mercanti; era necessario, da un lato impedire ruberie di malfattori, dall’altro assicurare cospicue entrate con l’esazione di diritti d’entrata o di passaggio. Questi ultimi venivano raccolti a profitto sia dello Stato, sia d’interessi locali; cittadine poste a pochi chilometri di distanza, ma sulla medesima strada internazionale, come Gemona e Venzone, erano in lite per la loro esazione. Ed anche fra castellani, i conflitti, le liti per eredità, le vendette private, le rivalità per il desiderio di emergere o di primeggiare erano occasioni, per i diretti interessati, di ricorrere alle armi, stringere alleanze con conterranei, chiedere l’appoggio e l’intervento armato dei conti di Gorizia o dei da Camino. Anche queste erano infrazioni della pace e della sicurezza, che esigevano l’intervento del principe territoriale. In tale quadro, la massiccia immigrazione lombarda, che non trovava precedenti nel consueto afflusso di collaboratori conterranei che ogni nuovo patriarca portava con sé, non costituiva solo il portato di una politica nepotistica: essa avrebbe dovuto garantire al patriarca il controllo politico, militare ed economico del Friuli. In anni diversi, tra il 1275 e il 1299, nelle mani di parenti di R. pervennero importanti circoscrizioni militari, giurisdizioni, amministrazioni di beni dello Stato. Innanzi tutto, due Torriani spiccano in posizione di preminenza: nel 1276, Bonaccorso, capitano generale, e nel 1292, Lombardo, vicario patriarcale. Battistella ricorda cinque della Torre come capitani di Gemona, uno a Monfalcone e uno a Tricesimo; quattro podestà di Sacile, uno a Marano, Trieste ed Aquileia; due gastaldi della Carnia, di Udine, Cividale e Caneva, uno di Soffumbergo, Manzano, Tolmino, San Daniele, Venzone, Aiello, Mossa e San Vito; un marchese d’Istria (in rappresentanza del principe). Di altri Lombardi, lo stesso studioso nomina due come capitani di Gemona ed uno di Monfalcone; un podestà di Sacile; quattro gastaldi di Udine, uno, rispettivamente, di Cividale, della Carnia, di Aiello, Attimis e Caneva. Si aggiungano investiture di feudi, in particolare d’abitanza, cioè con l’obbligo di abitarli, e di aprirli, su ordine del principe (Meduna, San Vito, Fagagna, Soffumbergo, alcune case nel castello di Udine), custodie di castelli (San Stino, Artegna); concessioni della “muta” di Gemona e di Tolmezzo, delle saline presso Marano e numerose infeudazioni minori: di terreni, boschi, mansi, campi, case, sedimi, mulini. In questo modo R. poneva nelle mani dei suoi Lombardi anche cospicui cespiti economici: oltre a mute, saline e beni immobili, soprattutto le entrate legate all’amministrazione della giustizia, poiché una parte delle multe spettava a capitani, podestà e gastaldi. Sia le fiscalità patriarchine, sia gl’importanti uffici di cui si è detto, erano dati in appalto, con vantaggio per le casse dello Stato. Ciò nonostante, le necessità finanziarie (anche per le guerre in Lombardia), indussero il patriarca a cambiare la moneta per ben quattro volte, fra il 1274 e il 1287. R. appare raffigurato, in forma stilizzata, seduto in faldistorio, sul “recto” di due denari; sul “verso”, nell’uno i bastoni gigliati decussati (con la torre, simbolo araldico dei Torriani), nell’altro, una croce che taglia la moneta in quattro campi: nei due superiori, una chiave per parte, nei due inferiori, una torre per parte. Tra i posti più controllati da Lombardi, vi era innanzitutto Sacile, porta occidentale del patriarcato e, come l’importante castello di Meduna, sul Livenza, al confine con il territorio dei da Camino; Gemona, sulla strada internazionale per la Carinzia e luogo di esazione del Niederlech, un tributo imposto a tutti i mercanti che salivano verso le Alpi, o ne provenivano, insieme all’obbligo di scaricare e ricaricare le merci e di trascorrere una notte nella cittadina: e proprio sulla piana ai piedi di Gemona, per renderne più sicura la strada, R. progettò di fondare una nuova città, che significativamente si sarebbe dovuta chiamare Milano di Raimondo (ma il progetto rimase tale). Controllate da Lombardi furono, in più anni, Udine e Cividale, le maggiori città del Friuli. Di minore importanza strategica ed economica Aquileia, anche se sede della cattedrale. Pure in campo ecclesiastico s’inserirono molti Lombardi, in generale, e Torriani, in particolare, naturalmente in posizioni di prestigio: innanzi tutto, nel capitolo di Aquileia, che era il più importante della diocesi e svolgeva anche compiti politici di rilievo, come la reggenza dello Stato in vacanza di sede (Ermanno, Paganino, Gastone, Rinaldo, Filippone, Napino). Pagano era “scolastico”, cioè responsabile della scuola capitolare nel 1282-1284, tesoriere patriarcale nel 1290-1293, poi decano del capitolo; quindi divenne vescovo di Padova (1302-1319) e patriarca d’Aquileia (1319-1332) ). Gastone fu anch’egli decano, poi vescovo di Milano (1308-1317) ed infine patriarca (1317-1318). Rinaldo, nipote di R., divenne tesoriere dopo Pagano. Nel capitolo d’Aquileia, «espressione della nobiltà locale e della borghesia di Udine e Cividale» (Scalon), la presenza della famiglia lombarda divenne sempre più significativa; in particolare, dopo il 1282, quando per motivi economici e giurisdizionali si verificò un duro scontro giudiziario fra il patriarca ed il capitolo, concluso da un arbitrato che riconobbe le ragioni di quest’ultimo. Del più importante ente ecclesiastico della diocesi era membro anche l’illustre “dictator” friulano maestro Lorenzo da Aquileia, “physicus”, che fu docente all’università di Parigi: fra il 1274 e il 1293, diversi documenti lo ricordano presente ad atti del patriarca, compiuti a Udine e a Cividale. Al capitolo della città ducale appartenevano Claudino, Napino, Gastone, Rinaldo e Filippone della Torre ed un altro lombardo; a quello di Udine, recente ma legato alle fortune in ascesa della città, ancora Gastone e Filippone; a capo della prepositura di Sant’Odorico al Tagliamento, Manfredo della Torre (d’altronde, dal 1283 al 1352, anno della soppressione di quest’ente ecclesiastico, i suoi prepositi furono tutti lombardi). Altri Lombardi furono posti a capo di pievi rurali: Tricesimo, Flambro, San Pier d’Isonzo. Lombardi erano i cappellani del patriarca, degli ordini dei frati minori e degli umiliati. In occasione della raccolta della decima papale del 1296, che gravò sui benefici ecclesiastici di maggiore e media entità e su alcuni enti religiosi, i nomi di alcuni della Torre, già citati più volte, ricorrono ancora. Si tratta, oltre che di R., di Pagano, Gastone, Napino, Rinaldo e Filippone. Minore importanza ebbe la presenza lombarda in ambito monastico e conventuale. Un lombardo divenne abate del monastero benedettino di Sesto al Reghena (1289); due donne della famiglia milanese svolsero un ruolo direttivo nel convento di S. Chiara di Cividale: le badesse, Belingera, nipote di R. (1288), ed Allegranza (1293). Nonostante una presenza così significativa, siamo tuttavia lontani da una “signoria di fatto” dei Torriani e, a maggior ragione, da una loro occupazione dello Stato friulano. Un aspetto interessante del controllo esercitato da R. sul territorio è l’assenza di una sede fissa, di una capitale. Se consideriamo la data topica di circa centocinquanta atti del principe ecclesiastico, redatti lungo tutto l’arco del suo governo a Udine o a Cividale, la prima città prevale, ma di poco. Seguono, a una buona distanza, Aquileia (una trentina di atti) e Sacile (una quindicina), poi, nell’ordine, Gemona e San Vito al Tagliamento, Tolmezzo e il castello di Soffumbergo, e infine Aviano, Venzone, Fagagna e i porti di Monfalcone e di Marano. Non si trattava di una vera e propria corte itinerante, ma certo R. si spostava continuamente per amministrare la giustizia, conferire investiture feudali, tenere consigli, presiedere il parlamento, portare guerra, visitare territori, celebrare ricorrenze religiose. Quasi sempre trascorreva le feste di natale, fin oltre l’epifania, ad Aquileia, presso la cattedrale. Dovunque egli si recasse o risiedesse, doveva essere accolto ed alloggiato con il suo seguito: a Udine nel castello, in particolare nel “palazzo patriarcale nuovo”, la più ampia, sicura e centrale delle sue residenze; sempre in palazzi patriarcali a Cividale, ad Aquileia (anche qui, uno “nuovo”, come ricordato dall’inizio degli anni Novanta), a Sacile e a San Vito; nei castelli di Gemona, Soffumbergo e Tolmezzo. Due atti furono compiuti, l’uno, nella torre di Aviano, l’altro, un’investitura di feudi, davanti a quella del castello di Fagagna. Non si sa quale fosse stato il ruolo del patriarca nell’erezione (o nel completamento) dei due palazzi “nuovi” di Udine ed Aquileia. Certo, nella seconda metà degli anni Settanta, Udine fu interessata da due terremoti; alla fine degli anni Ottanta i documenti ricordano, a Udine, il «palatium novum vel grande», un palazzo «maius», accanto ad uno «inferius»; nel 1291, un atto di R. fu redatto «in patriarchali palatio exinde confecto»; l’anno successivo, si ricordava la cappella del palazzo nuovo. A proposito di R., si è scritto di una «cupido aedificandi» che si espresse per mezzo Friuli (Bergamini). È certo di sua iniziativa la realizzazione, nella basilica popponiana, della gotica cappella Torriani, significativamente intitolata a sant’Ambrogio, il protettore di Milano, che doveva accogliere le sepolture dello stesso R. e di membri della sua famiglia. Sul coperchio del suo sarcofago, anepigrafo, in marmo rosso di Verona, il defunto è ritratto in abiti pontificali. Un agnello portacroce, fra due torri, è scolpito in un clipeo sulla fronte del sarcofago e lo stesso agnello è riprodotto sul petto del presule e nella chiave di volta della cappella. Successivamente, furono aggiunti i sarcofaghi dei patriarchi Pagano e Ludovico della Torre  e del tesoriere Rinaldo e, nel pavimento, molte altre tombe, di cui resta solo la lapide di Allegranza da Rho, cognata di R. Anche la riforma morale del clero – primo passo per quella dei laici – stava a cuore a R. Già all’inizio del 1275, ad Aquileia, dove trascorreva il periodo natalizio, egli promulgò degli ordinamenti indirizzati al clero del capitolo della cattedrale, ribadendo tuttavia obblighi antecedenti, relativi alla preghiera, alla vita comune e al comportamento. I canonici, i mansionari e i prebendari dovevano partecipare quotidianamente all’ufficio in coro, con abiti che li distinguessero, e comunque, quando andavano per la strada, dovevano vestire in modo dignitoso. I canonici e i mansionari, da una parte, e i prebendari, dall’altra, dovevano abitare nelle rispettive case comuni, secondo i principi della riforma voluta dal patriarca Ulrico II nel 1181, che introduceva alcuni aspetti della vita monastica in quella dei canonici. Gli ecclesiastici della cattedrale dovevano distinguersi per la tonsura e per l’obbedienza al divieto di entrare nelle taverne e giocare a dadi, nonché all’obbligo di allontanare da sé eventuali concubine. Si stabiliva inoltre di tutelare i beni del capitolo tramite un’oculata amministrazione, il recupero di quanto usurpato e il divieto della vendita di beni e diritti della chiesa senza l’autorizzazione del patriarca. Perciò, a distanza di pochi mesi dal suo ingresso in Friuli, il presule iniziava la propria opera di riforma religiosa proprio dall’ente più importante, in ambito sia ecclesiastico, sia politico. Un’opera che seguiva quella di suoi predecessori, di papi, di concili, ma che incontrò l’ostilità del capitolo, il quale non era stato consultato. Nel settembre del 1279 il cardinale Latino Malabranca, legato apostolico, inviò a R. le costituzioni da lui emanate a Bologna, perché il patriarca le diffondesse e le facesse applicare in tutta la provincia, di cui era metropolita. Preso dai problemi del governo temporale e coinvolto in ulteriori tentativi di una riscossa torriana in Lombardia, R. si limitò ad inviare le costituzioni ai vescovi suffraganei. Solo tre anni dopo, qualche giorno prima del natale del 1282, ad Aquileia, sulle orme del cardinale Latino, egli riunì il concilio provinciale. Intervennero i vescovi (o i loro procuratori) di quasi tutte le diocesi della provincia aquileiese: Concordia, Trieste, Capodistria, Parenzo, Cittanova d’Istria, Pedena, Pola, Trento, Feltre e Belluno, Ceneda (Vittorio Veneto), Vicenza, Verona, Padova, Treviso; assente solo il presule di Mantova. Parteciparono al concilio anche il capitolo d’Aquileia, quattro abati, il guardiano dei francescani e il lettore dei domenicani di Cividale, ed altri ecclesiastici e laici, provenienti da tutta la provincia. I decreti pubblicati dal concilio furono undici. I primi due riguardavano il culto dei santi Ermagora e Fortunato, protomartiri aquileiesi, la cui festa doveva essere celebrata in tutte le diocesi suffraganee e la cui leggenda doveva essere conservata con devozione: segno dell’unità della provincia, pur nel rispetto delle consuetudini locali. Il decimo decreto imponeva ai vescovi tenuti a prestare giuramento al patriarca, la visita annuale alla chiesa metropolitica d’Aquileia. Il terzo decreto pubblicava le prescrizioni sulla vita e i costumi del clero emanate dal cardinale Latino, che erano state riprese dal concilio Lateranense IV (1215) e già indirizzate al clero della cattedrale d’Aquileia nel 1275: abito adeguato, capelli corti, tonsura. Il quinto prescriveva il controllo dei forestieri che chiedevano di entrare nell’ordine ecclesiastico: dovevano essere provvisti di una lettera di presentazione del loro vescovo. In tale modo si voleva evitare di accogliere chi cercasse di sfuggire ai tribunali secolari. Gli altri decreti colpivano i violenti contro le persone ecclesiastiche e gli usurpatori di beni e diritti delle chiese. Un argomento di forte attualità, se si pensa che il predecessore di R., Gregorio di Montelongo, nel 1267 era stato imprigionato dal conte di Gorizia e che quest’ultimo l’anno successivo aveva fatto assassinare il vescovo di Concordia e vicario patriarcale Alberto, caduto in un agguato presso Medea. Come mostrano le vicende del governo di R., travagliate dalla lotta contro i Veneziani, i Goriziani, i da Camino e feudatari ribelli, la difesa degli uomini e dei beni della Chiesa d’Aquileia – Chiesa e Stato – era di stringente necessità. Secondo il quarto decreto del concilio provinciale, chi avesse catturato il patriarca sarebbe stato scomunicato e privato, con i suoi eredi fino alla quarta generazione, di tutti i feudi, benefici, onori, uffici e dignità e non avrebbe potuto riceverne altri. Agli uccisori di un patriarca sarebbero stati confiscati tutti i beni, a vantaggio della Chiesa d’Aquileia; i luoghi che li avessero accolti sarebbero stati colpiti dall’interdetto, gli uomini dalla scomunica; catturati e consegnati i colpevoli al presule successore, questi avrebbe chiesto giustizia al papa e all’imperatore (poiché i giudizi di sangue erano al di fuori della giurisdizione del clero, come ribadito dal concilio Lateranense IV). I vescovi suffraganei dovevano cercare d’impedire che si portasse aiuto militare contro il patriarca. Seguivano disposizioni analoghe a quelle relative al metropolita, riguardo ad imprigionamenti e uccisioni di suffraganei e a conflitti contro di loro. Chi avesse assediato un presule sarebbe stato scomunicato a sua volta, e la comunità che lo avesse appoggiato sarebbe stata colpita dall’interdetto; lo stesso se il vescovo fosse stato cacciato. I paragrafi successivi del quarto decreto perseguivano, via via, le violenze contro i prelati (abati, priori, prepositi, arcidiaconi, decani, arcipreti e pievani) e gli ecclesiastici di grado inferiore. Le autorità laiche non avrebbero potuto pubblicare statuti o editti contrari alla libertà della Chiesa, cioè alle sue immunità, diritti e beni; se pubblicati, essi dovevano essere aboliti, pena la scomunica dei responsabili. Scomunica ed interdetto avrebbero colpito anche chi avesse occupato abusivamente beni e diritti della Chiesa. I sacerdoti avrebbero negato l’assoluzione a chi non avesse versato al clero decime e quartesi. La scomunica avrebbe comportato che, anche dopo l’assoluzione, se non fossero stati riparati il danno o l’ingiustizia, i corpi dei defunti sarebbero rimasti privi della sepoltura ecclesiastica; in caso di trasgressione, i sacerdoti responsabili sarebbero stati sospesi dall’ufficio e dal beneficio e i cadaveri riesumati. Nel 1283, dopo il sinodo diocesano (tenuto secondo le prescrizioni del Lateranense IV), il decano del capitolo di Cividale, durante le messe solenni, fece conoscere anche ai fedeli presenti le costituzioni, «leggendole nel testo originale e poi esponendole in volgare». R. favorì la diffusione degli ordini mendicanti e dei moderni indirizzi della sensibilità religiosa laicale. A Cividale, Udine e Gemona erano già stati eretti sotto i suoi predecessori, Bertoldo di Andechs e Gregorio di Montelongo, tre conventi francescani e, nella prima città, anche uno di domenicani ed uno di domenicane, mentre, nella terza, uno di clarisse. Anteriormente alla metà del XIII secolo, a Cividale c’erano pie donne che, da sole o in piccoli gruppi, pur senza seguire regole particolari, conducevano una vita devota. Nel 1284, seguendo una tendenza sempre più diffusa, una comunità femminile s’istituzionalizzò e, sotto la regola di santa Chiara, si trasferì nel convento dei francescani, che traslocarono dentro la città, dove costruirono una chiesa (1286), che ancor oggi si ammira. Indubbiamente i frati minori favorirono la nascita della comunità di suore; il giorno dell’imposizione del velo alle prime dodici da parte del patriarca, fu significativa, accanto a lui, la presenza del vescovo francescano di Concordia, Fulcherio. Undici anni dopo, il convento cividalese di S. Chiara fu posto sotto la protezione della sede apostolica. Dalla città ducale vennero, all’inizio del Trecento, due delle prime quattro monache del convento di S. Chiara di Udine, la cui erezione iniziò nel 1294, promossa certo anch’essa dai francescani locali, ma sostenuta dalla generosità di un ricco cittadino udinese, Uccellutto Uccelli, alla quale R. corrispose, donando del terreno contiguo a quello su cui stava sorgendo l’edificio. Il patriarca aveva approvato un’iniziativa di Uccellutto anche quando questi, nel 1285, gli aveva chiesto il permesso di erigere la chiesa di S. Lazzaro, fornita di tutte le suppellettili necessarie, per i lebbrosi, isolati e confinati al di fuori del centro urbano. Sempre negli stessi anni, per desiderio del presule e con il robusto sostegno economico della comunità cittadina, anche a Udine venne fondato un convento domenicano, intitolato a S. Pietro martire, la cui influenza sulla vita dei laici si esercitò sia con la predicazione dei frati, sia con la promozione di alcune confraternite. Né R. dovette essere indifferente alla nascita della prima fraterna di battuti, a Cividale, nel 1290, anno di grandi ed impressionanti processioni, che i flagellanti compievano attraverso il Friuli, a partire da pochi giorni dopo la pasqua, anche perché il movimento penitenziale ed associativo era incoraggiato da francescani e domenicani. Il patriarca contribuì pure alla diffusione del culto eucaristico, concedendo dieci giorni d’indulgenza a quanti avessero accompagnato con devozione il viatico, il sacramento portato agl’infermi (1294): un’iniziativa che si aggiungeva a quelle analoghe di papi e vescovi, a seguito dell’istituzione della festa del Corpus Domini da parte di Urbano IV (1264). Invece non si sa se fosse promossa dal presule la sacra rappresentazione messa in scena dal clero di Cividale nel 1298, nella festa di Pentecoste e nei due giorni successivi: il “ludus Christi” comprendeva la passione, la resurrezione, l’ascensione, la discesa dello Spirito Santo e il ritorno di Gesù per il giudizio universale; un’interessante notizia sulle origini del teatro in Italia. R., «uomo di straordinaria attività ed energia», morì a Udine il 23 febbraio 1299 e fu sepolto ad Aquileia. Venne ricordato nei Necrologi dei capitoli di Aquileia e di Cividale e dei monasteri di S. Maria in Valle di Cividale e di Ossiach.

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Bibliografia

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