VALUSSI PACIFICO

VALUSSI PACIFICO (1813 - 1893)

giornalista

Immagine del soggetto

Pacifico Valussi ritratto da Giovan Battista Ganzini (collezione privata).

Nacque a Talmassons (Udine) il 30 novembre 1813 da Vincenzo e Maria Agnoluzzi, in una famiglia della agiata borghesia agraria friulana. Dopo aver frequentato le classi ginnasiali e liceali come alunno esterno del Seminario di Udine, si iscrisse alla Facoltà di matematica dell’Università di Padova, laureandosi nel 1836 con una tesi intitolata Idee sull’influenza delle scienze fisiche nello sviluppo dell’uomo intellettuale e morale. Con essa intendeva mostrare l’influenza benefica delle scienze fisiche sulla vita civile di tutte le nazioni e sulle loro istituzioni, a partire dalla rivoluzione scientifica del Seicento. Negli anni universitari trascorsi a Padova mostrò di preferire agli studi scientifici la lettura di opere italiane e straniere sulle tematiche politiche e sociali più dibattute in quella fase storica, in cui stavano maturando le premesse dell’affermazione delle idealità nazionali. Oltre agli scritti pubblicati sull’«Antologia» di Gian Pietro Vieusseux dal Tommaseo, che esercitò anche in seguito un fortissimo ascendente su V., testimoniato dal carteggio del giornalista friulano con lo scrittore dalmata, contribuirono ad orientare in senso storicistico il suo pensiero la lettura di Vico e l’Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, opera postuma di Condorcet. Dopo essersi laureato, si trasferì a Venezia, ospite del fratello Giuseppe, che durante la rivoluzione del 1848 fu cappellano di una delle legioni venete. Nei due anni trascorsi a Venezia V., frequentata la Scuola metodica per maestri elementari, visse facendo il maestro privato. Entrò in contatto con intellettuali ed artisti, stringendo amicizia con il pittore udinese Filippo Giuseppini, cui si deve l’unico ritratto su tela del giornalista, e con il poeta, drammaturgo e giornalista Francesco Dall’Ongaro, che nel 1838 lo indusse a trasferirsi a Trieste per collaborare al periodico «La Favilla», di cui aveva da poco assunto la direzione. ... leggi All’interno della redazione del periodico letterario triestino – di cui facevano parte, oltre a Francesco Dall’Ongaro, il tragediografo e librettista udinese Antonio Somma e il poeta trentino Antonio Gazzoletti –, che era espressione delle istanze culturali liberaleggianti e cosmopolite del gruppo dirigente cittadino della città adriatica, V. fece la sua prima esperienza professionale da pubblicista. La simpatia dimostrata dal settimanale, a cui dettero un significativo contributo anche Caterina Percoto e Niccolò Tommaseo, per i popoli slavi, per la loro cultura e la loro storia, offre una chiara testimonianza dell’impostazione aperta al confronto culturale di quel nucleo di scrittori e patrioti italiani. Il giornalista friulano, alla fine di dicembre del 1839, fu cooptato nella redazione del «Giornale del Lloyd austriaco», settimanale che forniva agli operatori economici del porto di Trieste notizie di carattere legislativo e finanziario e su tutte le materie connesse al commercio e alla navigazione. Nel 1843 il barone Carl Ludwig von Bruck, presidente del Lloyd austriaco, gli affidò la direzione dell’«Osservatore triestino», foglio ufficiale fondato nel 1784 che, oltre alle informazioni commerciali e marittime e agli atti ufficiali trasmessi dal governatorato locale, aveva iniziato a informare i lettori sul dibattito politico orientato in senso liberale che i principali giornali europei ospitavano, escludendo tuttavia, per evitare interventi censorî, riferimenti di carattere politico all’Impero asburgico e agli Stati italiani. All’irrompere della rivoluzione a Milano e a Venezia, V. seguì da Trieste gli sviluppi della situazione politica e militare, manifestando a Tommaseo, che era stato nominato il 23 marzo 1848 ministro della Cultura e dell’Istruzione nel Governo provvisorio presieduto da Daniele Manin, le sue preoccupazioni per il rischio di isolamento che correva la neonata Repubblica veneta di S. Marco e per la sottovalutazione della capacità di reazione dell’esercito imperiale. Capitolata Udine il 22 aprile, dopo il bombardamento della città, mentre i patrioti friulani resistevano solamente nei forti di Osoppo e Palmanova, V. alla fine di aprile, dopo essersi dimesso dall’«Osservatore triestino», lasciò Trieste per Venezia con Teresa Dall’Ongaro, che aveva sposato nel 1845. Nella città lagunare V., su proposta di Tommaseo, entrò nella segreteria del Governo provvisorio e accolse la proposta di collaborare con la «Gazzetta di Venezia», foglio ufficiale di quest’ultimo, incarichi da cui si dimise quando fu eletto il 5 luglio un nuovo Governo favorevole all’annessione di Venezia al Regno di Sardegna. Successivamente, insieme al cognato Francesco Dall’Ongaro e all’attore Gustavo Modena, fu tra i promotori e gli editori del quotidiano «Fatti e Parole», che intendeva parlare a tutto il popolo, «al popolo dei caffè come a quello delle osterie», spingendolo alla resistenza e comunicandogli la fede e la fermezza necessarie per conseguire la vittoria. Il foglio, uno dei più diffusi a Venezia, sosteneva le tesi della democrazia repubblicana care ai mazziniani e fu fatto oggetto di tentativi di intimidazione da parte del Governo provvisorio. Dopo l’armistizio di Salasco del 9 agosto 1848 e il ritorno al potere di Manin, eletto triumviro insieme al friulano Giovan Battista Cavedalis e all’ammiraglio Leone Graziani, V. collaborò nuovamente con la «Gazzetta di Venezia», riassumendo il precedente incarico presso la segreteria del nuovo Governo provvisorio. Nel periodo veneziano V. manifestò un orientamento antimonarchico e, nel mese di agosto del 1848, entrò a far parte del Circolo italiano di Venezia, che intendeva fare di quest’ultima il centro propulsore dell’insurrezione nella terraferma veneta. Nel mese di ottobre iniziò ad essere pubblicato da parte di V. «Il Precursore», il cui titolo alludeva all’intento di prendere in esame le «molte questioni preliminari da intavolarsi, studiarsi e discutersi per giungere a costituire la Nazione italiana». Nella rivista settimanale, per la quale scrisse anche Tommaseo e che durò solo pochi mesi, dal 5 novembre 1848 sino al 25 marzo 1849, V. affrontò la questione delle nazionalità incluse nell’Impero asburgico e prese posizione anche sul tema del socialismo e del comunismo. Mentre respingeva il comunismo, che contemplava il «rovesciamento d’ogni ordine attuale», non riteneva che il socialismo dovesse essere visto come uno «spauracchio» e apprezzava le idee divulgate dal periodico fourierista «Démocratie pacifique». V. affiancò poi Tommaseo nella redazione del bisettimanale «La fratellanza de’ popoli» (1° aprile-4 luglio 1849), che fu l’organo della omonima associazione sorta con l’obiettivo di affratellare i popoli e in cui lo scrittore dalmata ebbe la possibilità di esporre il suo credo religioso e politico venato di misticismo. Nel febbraio 1849 V. fu eletto all’Assemblea dei rappresentanti dello Stato di Venezia, di cui divenne segretario. Fu inoltre tra i redattori di un altro quotidiano, «L’Italia Nuova» (22 febbraio-29 aprile 1849), che si prefiggeva di divulgare l’attività dell’Assemblea anche tra i ceti popolari, al fine di educarli al rispetto delle istituzioni rappresentative. Dopo la caduta di Venezia V., che non era stato inserito nella lista degli esiliati per intercessione del ministro von Bruck, con cui i veneziani avevano concordato le condizioni della resa, sottoscritta dal governo il 24 agosto 1849, poté ritornare in Friuli con la moglie e la figlia Costanza, natagli proprio in quei giorni. Si stabilì a Talmassons, suo paese natale, ove trascorse un breve periodo d’inattività. Nell’autunno del 1849 iniziò a collaborare a «Il Friuli», il cui primo numero era uscito il 2 novembre 1848, con cadenza trisettimanale, divenendo quotidiano a partire dal 7 gennaio 1849. L’impronta politico-culturale data a «Il Friuli» dal suo primo direttore Camillo Giussani era schiettamente liberale e progressista, e venne mantenuta da V., che ne assunse la direzione nel novembre 1850, sino alla sua soppressione, decretata dal governo austriaco un anno dopo. «Il Friuli» diretto da V. fu un giornale vivace e aperto alle problematiche sociali e fu diffuso anche al di fuori dei confini regionali. Con il numero del 30 dicembre 1850 si arricchì di un supplemento, la «Giunta domenicale al Friuli», che si proponeva di illustrare fatti e uomini della storia friulana e di esporre idee utili al miglioramento sociale, annoverando tra i suoi collaboratori Francesco di Manzano, Caterina Percoto, Teobaldo Ciconi e Pietro Zorutti. Frattanto V. assunse anche l’incarico di segretario della Camera di commercio di Udine e, in questa veste, redasse un Rapporto sullo stato dell’industria e del commercio della provincia del Friuli negli anni 1851 e 1852, indirizzato al Ministero austriaco del commercio, in cui offriva un quadro d’insieme dell’andamento dell’economia friulana e delle sue prospettive di sviluppo, poste in relazione alla crescita dei livelli di istruzione e alla costruzione di moderne infrastrutture. È del 1852 un articolo, Delle condizioni naturali e civili del Friuli, pubblicato sul milanese «Crepuscolo» di Carlo Tenca (il titolo riprende le cattaneane Notizie naturali e civili della Lombardia), in cui V. delineò lo stato della Provincia del Friuli e un’idea di progresso come armonia tra “techne” e natura. Nonostante fosse stato rimosso dall’incarico di segretario della Camera di commercio nel 1853 e fosse tenuto sotto controllo dalla polizia austriaca, V. non abbandonò il Friuli e divenne il principale redattore, in seguito anche direttore, del bisettimanale (dal terzo anno settimanale) «L’annotatore friulano» (8 gennaio 1853-25 agosto 1859), di cui curava la rassegna settimanale dei fatti politici dibattuti dalla stampa internazionale. Al periodico collaborarono noti scrittori friulani come Giandomenico Ciconi, Giovanni Battista Lupieri, Domenico Barnaba, Giuseppe Lazzaroni. Per la stima e la fiducia che in lui riponevano i suoi concittadini fu eletto segretario dell’Accademia di Udine e ne stese le relazioni dell’attività svolta negli anni 1852-1853 e 1853-1854. Nel 1855, grazie all’iniziativa dell’agronomo Gherardo Freschi e del consigliere aulico Alvise Francesco Mocenigo di Alvisopoli, si era ricostituita l’Associazione agraria friulana, che mobilitò l’élite di proprietari terrieri che auspicava profonde riforme dell’economia agraria. V. assunse l’incarico di segretario dell’associazione e, dal 15 gennaio 1859, ne diresse il «Bollettino» per pochi mesi. Dopo il fallimento dei tentativi insurrezionali mazziniani, il Piemonte restava l’unica speranza contro la potenza dell’Austria e molti esponenti del Partito repubblicano, tra cui anche V., cominciarono a guardare alla monarchia sabauda come al motore del processo di unificazione nazionale. Il giornalista friulano, dopo l’infelice conclusione della guerra franco-piemontese del 1859 con l’armistizio di Villafranca, che per i «Veneti equivaleva ad una seconda Campoformido», temendo di essere arrestato, lasciò il Friuli e si recò dapprima a Torino e successivamente a Milano, grande centro dell’emigrazione veneta, con l’intento di dedicarsi a un’intensa attività propagandistica a favore delle popolazioni rimaste sotto il dominio dell’Austria. A Milano collaborò a «Lombardia», giornale popolare fondato da Emilio Broglio e diretto dal poeta Antonio Gazzoletti, che seguiva con interesse le tematiche relative ai nazionalismi antiaustriaci. Dalla sua fondazione, il 20 novembre 1859, al 1865 V. diresse il quotidiano «La Perseveranza», di orientamento monarchico-cavouriano, sostenuto generosamente dalle più facoltose famiglie dell’aristocrazia lombarda. In quegli stessi anni fondò, insieme al giornalista ebreo-ungherese Ignác Helfy, «L’Alleanza», proponendo sul foglio italo-ungherese influenzato da Kossuth una visione politica basata sulla ricerca di più stretti legami tra i movimenti nazionali dei popoli slavi e quelli italiano e magiaro. Era infatti persuaso che i problemi italiani non potessero essere definitivamente risolti indipendentemente dalle aspirazioni degli altri popoli europei, soprattutto quelli dell’area danubiana, chiamati a confederarsi al fine di veder riconosciuti i propri diritti. Tale confederazione, se i popoli fossero stati abbastanza saggi da farla riuscire, avrebbe determinato la «dissoluzione dell’Impero austriaco» e favorito la trasformazione in senso liberale della stessa Russia, esercitando un favorevole influsso sullo sviluppo pacifico e democratico di tutta l’Europa. Nel 1861 V. pubblicò anonimamente l’opuscolo Trieste e l’Istria e loro ragioni nella quistione italiana, in cui espose i motivi di carattere storico, etnografico, linguistico, culturale, economico e militare che giustificavano l’appartenenza all’Italia di quelle terre. A Milano entrò in contatto con gli intellettuali e i patrioti che si ritrovavano nel salotto della contessa Clara Maffei e nel palazzo del senatore Carlo D’Adda. Fece inoltre parte di numerosi sodalizi che raccoglievano gli esuli delle province venete. Con il trasferimento della capitale del Regno d’Italia da Torino a Firenze nel 1865, V., lasciata la direzione de «La Perseveranza» al giornalista e letterato napoletano Ruggero Bonghi, si trasferì nella città toscana, ove gli venne affidata la direzione della «Gazzetta del popolo», collaborando anche alla «Nuova antologia». Dopo l’annessione del Friuli al Regno d’Italia, sia pure amputato della sua parte orientale, rimasta, con la pace di Vienna del 3 ottobre 1866, sotto il dominio austriaco, V. si stabilì definitivamente a Udine, nominato dal commissario regio per il Friuli, Quintino Sella, membro della Congregazione provinciale e reintegrato nell’incarico di segretario alla Camera di commercio, che mantenne sino al dicembre 1887. A Sella il giornalista friulano aveva inviato un memoriale nel quale gli rendeva noti i problemi più urgenti della regione: la costruzione della ferrovia Pontebbana, di prevalente interesse nazionale, ma nel contempo di grande importanza per il Friuli; la costruzione del canale Ledra, per rifornire d’acqua la zona tra il Torre e il Tagliamento; la fondazione di un Istituto tecnico-agrario-commerciale, di una Cassa di risparmio affiliata a quella della Lombardia e di una Società di mutuo soccorso per gli operai; l’affrancamento dai vincoli feudali e il rafforzamento dell’Associazione agraria, per promuovere lo sviluppo dell’agricoltura regionale nel contesto più favorevole rappresentato dalla integrazione del Friuli nello Stato unitario. A Udine V. fondò il quotidiano politico liberale «Giornale di Udine», di tendenza moderata e filogovernativa, il cui primo numero uscì il primo settembre 1866, prendendo il posto della «Rivista friulana» di Giussani. Nell’editoriale del primo numero si indicavano le due mete che la stampa provinciale doveva prefiggersi nella nuova fase della vita italiana: da un lato «portare nella provincia le idee, il movimento, i progressi dell’intera nazione» e, dall’altro, «rappresentare nella nazione la provincia co’ suoi interessi, co’ suoi bisogni, colla sua parte di attività a vantaggio comune». Il quotidiano udinese considerava inoltre come prioritario l’obiettivo di far uscire il Friuli dall’isolamento e dalla marginalità, favorendone il decollo agricolo e industriale. V. fu eletto alla Camera dei deputati per tre legislature (IX, X e XI) nei collegi di Cividale del Friuli, dal dicembre 1866 fino al settembre 1870, e di Montagnana, in provincia di Padova, fino all’ottobre 1874, senza tuttavia ottenere, come parlamentare, la stessa fama conseguita nella sua attività giornalistica. Intervenne raramente e lavorò soprattutto nelle commissioni parlamentari e come membro dell’ufficio di presidenza della Camera, posponendo sempre gli interessi del suo collegio a quelli nazionali. Nel suo lavoro più noto e apprezzato dalla critica, Caratteri della civiltà novella, pubblicato nel 1868 e dedicato a Niccolò Tommaseo, auspicava che il popolo italiano «popolo già civile, ma vecchio e decaduto», potesse risorgere attraverso un faticoso processo di elevazione morale e intellettuale. Da un lato riteneva che il «miglioramento fisico, morale e intellettuale delle plebi» fosse necessario per «evitare quella guerra sociale il cui germe sta nel disequilibrio esistente tra le varie classi», dall’altro lato chiedeva alla classe media, quella che «si trova tra lo stimolo del bisogno e le dolcezze del possesso», di fare dello studio e del lavoro la sua ricchezza e di mettersi al servizio della nazione. Un ulteriore fattore di rinnovamento sociale era per V. il comune, purché la sua azione «fosse libera il più possibile, poiché la libertà non si sente che esercitandola, e non si educa un popolo alla libertà se non mediante il governo di sé in tutti i gradi». Un ruolo fondamentale era assegnato dal giornalista friulano ad un organismo intermedio tra il comune e lo Stato, «dal punto di vista economico, sociale e civile […] un tutto preesistente nella natura», che definiva «Provincia naturale», di cui un esempio paradigmatico era dato dal Friuli dal Timavo al Livenza. La «Provincia naturale» avrebbe dovuto anche concorrere alla formazione di una delle due Camere, il Senato, chiamato a rappresentare gli interessi permanenti delle diverse realtà dello Stato italiano. V. riteneva che allo Stato non dovessero essere attribuiti compiti e funzioni d’interesse locale, non solo perché avrebbero potuto essere svolti in modo più efficace da comuni e province, ma anche per evitare che il suo intervento mortificasse «quelle forze e virtù che si devono svolgere equabilmente in tutte le parti della nazione». Lo Stato doveva invece perseguire l’obiettivo di garantire la raggiunta unità nazionale e di intervenire ogniqualvolta dovessero essere tutelati gli interessi generali del Paese, soprattutto nel campo dell’istruzione pubblica. In questo ambito riteneva si dovesse favorire soprattutto lo sviluppo dell’insegnamento tecnico, agrario, commerciale, nautico o in altro modo connesso alle necessità produttive del Paese. Nell’opuscolo La famiglia italiana ed il rinnovamento della nazione, pubblicato nel 1877, trattò dell’importanza sociale della famiglia e dell’educazione della donna; espresse inoltre un parere sfavorevole al celibato ecclesiastico, di cui chiedeva che si limitassero gli effetti negativi consentendo solo a chi avesse raggiunto la piena maturità di pronunciare i voti. V. pubblicò negli anni Sessanta una serie di saggi – Napoleone III (1861), La Russia, l’Europa e l’Italia (1862), L’Impero francese, l’Italia e la libertà in Europa (1868) – in cui affrontò temi relativi alla politica estera delle grandi potenze europee, in particolare della Francia, al fine di trarre dalla riflessione storica e dall’attualità politica alcune indicazioni sul futuro assetto geopolitico dell’Europa e sul ruolo che in esso l’Italia era chiamata ad assumere. Alle relazioni tra Stato e Chiesa, V. aveva prestato attenzione sin dal periodo in cui diresse «Il Friuli», con una serie di articoli in cui auspicava che il clero potesse esercitare una benefica influenza morale sulla società, contribuendo al perfezionamento delle istituzioni e della vita civile e politica. Egli non riteneva che nelle scuole pubbliche dello Stato si dovesse insegnare la religione della maggioranza ed espresse la propria netta contrarietà alla precoce «educazione speciale al ministero religioso». Nel 1859 caldeggiò, in un saggio apparso sulla «Rivista contemporanea» di Torino, l’adozione della soluzione federalista, condizionandola alla creazione di un forte Stato nell’Italia settentrionale, con l’unione del Veneto alla Lombardia e al Piemonte e la riduzione del potere temporale del papa ad un minimo tale da non turbare, sotto pretesto di interessi religiosi e cattolici, l’indipendenza nazionale italiana. Verso la fine degli anni Sessanta, dopo l’unione del Friuli al Regno d’Italia, sostenne invece sul «Giornale di Udine» l’ineluttabilità della fine del potere temporale e, in un opuscolo uscito a Venezia nel 1869, La soluzione della quistione romana, affermò l’incompatibilità dell’unità dell’Italia con quella di un principato assoluto, teocratico e cosmopolitico, anche se di modeste dimensioni, collocato nel centro del Paese. V. era tuttavia consapevole delle difficoltà che sarebbero potute sorgere abbattendo il potere temporale e riteneva pertanto che il Regno d’Italia fosse tenuto a elaborare una soluzione accoglibile dagli altri Stati e soprattutto dall’opinione pubblica europea, impegnandosi a rispettare le istituzioni di carattere religioso nella città di Roma e concedendo al papato una dotazione perpetua e, come propria sede, la Città leonina, resa «immune da ogni sovranità». V. auspicava la fine del regime dei concordati, la cessazione di ogni religione ufficiale dello Stato, la libertà di coscienza e la elezione popolare dei parroci e dei vescovi, al fine di raggiungere la meta della «libertà della Chiesa». Condivideva inoltre la prospettiva religiosa di Lambruschini, secondo il quale era necessario purificare e rinnovare il cattolicesimo, attuando una riforma interna della Chiesa che la rendesse, da un lato, in grado di dialogare con le correnti di pensiero affermatesi nella modernità e, dall’altro, meno centralistica e autoritaria nella sua struttura. La fine del potere temporale non implicava, tuttavia, per V. che Roma fosse proclamata nell’immediato la capitale dello Stato unitario. Prima di diventare il centro politico dell’Italia avrebbe infatti dovuto assumere il ruolo di capitale della scienza e dell’arte. Negli ultimi anni della sua attività pubblicistica accentuò i tratti conservatori del credo liberale in cui sempre si riconobbe, esprimendo un giudizio del tutto negativo sugli strumenti di lotta che il nascente movimento operaio iniziava ad utilizzare, in particolare sullo sciopero, che reputava fosse non solo una grave perdita per datori di lavoro e lavoratori, ma addirittura un delitto. Lo sciopero, infatti, non poteva a suo giudizio essere separato dalla violenza contro «quelli tra gli operai che vogliono sottrarsi, violenza contro quelli che possono dare lavoro, violenza contro la società intera, contro l’ordine e la libertà». V. espresse inoltre una visione apologetica del capitale, che «è civiltà, che progredisce sempre e che tende a migliorare le condizioni delle moltitudini», mentre «la guerra al capitale è la barbarie, l’ignoranza e la miseria di tutti». Alla simpatia e alle aperture nei confronti dei popoli slavi degli anni Quaranta e Cinquanta subentrò in V., dopo l’unione del Friuli al Regno d’Italia, un atteggiamento di preoccupazione verso le mire dei tedeschi e degli slavi del Sud sull’Adriatico, che si rinviene ad esempio nel volumetto del 1871 L’Adriatico in relazione agli interessi nazionali dell’Italia. A partire dalla fine degli anni Sessanta, V. affrontò anche la questione coloniale, invitando il governo italiano a estendere la propria influenza sulla Tunisia, che ospitava la più consistente comunità di italiani stabilitisi in Africa, e impedendo che il Mediterraneo divenisse un lago francese. Critico nei confronti della politica estera italiana delle «mani nette» al congresso di Berlino del 1878, che aveva facilitato l’insediamento francese in Tunisia nel 1881, V. guardò con favore alla formazione della prima colonia italiana nella baia di Assab, persuaso che l’Italia non potesse esimersi dal partecipare allo “scramble for Africa” per difendere i propri interessi commerciali e non precludersi la possibilità di ambire al ruolo di grande potenza europea. Dopo il 1887, ceduta la proprietà e la responsabilità del «Giornale di Udine», continuò a collaborarvi fino ai primi mesi del 1891. Morì a Udine il 28 agosto 1893.

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Bibliografia

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