LEPOREO LODOVICO

LEPOREO LODOVICO (1582 - 1645)

ecclesiastico, poeta

Nacque nel 1582 a Brugnera, probabilmente da Guerrino, cancelliere di quella comunità dal 1562 al 1611. Dopo aver ricevuto la prima educazione in Porcia o in Pordenone, fu avviato agli studi umanistici proseguiti all’Università di Padova, dove forse conobbe Paolo Beni, l’autore dell’Anticrusca, dal 1600 professore di eloquenza presso quell’ateneo, e diede le prime prove del suo talento poetico. Nel 1602 si trasferì a Roma e, onde trovare impiego alla corte di papa Clemente VIII, vestì l’abito talare e si pose al seguito del cardinale Ottavio Parravicino. Alla morte di questi, avvenuta nel 1611 o 1612, fece ritorno in Friuli, ove portò a compimento il Canto trionfale in onore del beato Carlo Borromeo (Conegliano, 1612) in centoventicinque ottave. Dopo una breve permanenza in patria, rientrò a Roma, dove sino alla morte lavorò come scrivano presso la Dataria apostolica. Se nell’ambiente ecclesiastico non trovò (né, forse, davvero cercò: le ammissioni di spensierata negligenza sono tema ricorrente nei suoi versi) opportunità di carriera, un relativo prestigio si meritò in quello letterario; tra i suoi protettori altolocati ci fu Giovanni Rinaldo de’ Monaldeschi, amante di Cristina di Svezia. Accanto a un poemetto d’occasione, La villa Borghese (Roma, 1628), due tra le prime opere di L. testimoniano di non superficiali interessi filosofici e letterari: i cento sonetti del Museo Aristoteleo (Roma, 1628) e la traduzione in versi sciolti dell’Arte poetica di Orazio (Roma, 1630). Entrato a far parte dell’Accademia dei Fantastici, costituitasi nel 1625, il L. ne onorò il motto oraziano “Quidlibet audendi” e diede le prime prove di “audacia poetica” con le centodieci deche (due quartine più un distico) del Decadario trimetro (Roma, 1634) e le trentadue ottave dell’Idillio trimetrico (Roma, 1637): “trimetri”, i versi, perché contenenti ciascuno tre rime, due interne e una finale. ... leggi L’oltranza sperimentale metrica e linguistica culminò nell’invenzione del “leporeambo”: sotto tale nome, coniato fondendo il proprio cognome con quello di Ditirambo, presunto poeta greco “inventore degli inni delle baccanti”, il L. comprese svariate forme metriche, dalla canzonetta al sonetto, accomunate dal fatto che le rime finali sono omoteleutiche e si differenziano soltanto per il timbro della vocale tonica. A ciò si aggiungono altri artifici stilistici, retorici e ritmici, che per lo più vengono indicati prima del titolo di ciascun componimento: il leporeambo è “alfabetico” se le vocali toniche si succedono nell’ordine alfabetico, “retrogrado” se l’ordine è inverso; “irrepetito” se nessuna delle parole in rima viene ripetuta; “unisono, duisono, trisono… sestisono” a seconda delle rime presenti in ciascun verso; “equidistante” se la distanza tra le rime è fissa; “canzoniero” se fa uso della rima al mezzo; “trimembre” se i versi sono suddivisi da due cesure; “trasponibile” se i versi possono assumere qualsiasi posizione all’interno del componimento; ecc. La sperimentazione del L. riguardò tutti gli aspetti della forma poetica e negli ultimi suoi anni si estese anche alla prosa e alla lingua latina: la Prosa rimata curiosa (Roma, 1652), l’Encomium Romanum Pamphylicum e i Centena distica (Roma, 1652) sono performance estreme di virtuosismo metrico, allitterativo, pangrammatico. La produzione propriamente leporeambica comprende: Leporeambo alfabetico eroico delle grandezze medicee (Roma, 1639), Leporeambi alfabetici musicali (Bracciano, 1639), Tributi alla sacra maestà cattolica di Filippo IV, re delle Spagne ed Indie (Roma, 1639), Leporeambo eroico alla sacra maestà cesarea di Ferdinando III imperatore romano (Roma, 1640), tutti di carattere encomiastico; Leporeambi nominali alle dame ed accademie italiane (Bracciano, 1641), Le poreambi distici trisoni alfabetici nella notte di natale del nostro s. Gesù Cristo (Roma, 1641), Leporeambo mosaico ottavario similitudinario alfabetico (Roma, 1641), Leporeambo alfabetico ottavario quadrisono in lode della città e vini di Albano (Roma, 1649) e la sua opera più nota e fortunata, la Centuria di leporeambi dedicata al Monaldeschi, che ebbe tre edizioni (Roma, 1651; Bologna, 1652; Udine, 1660) e fu compresa nel postumo Fascio primo di varie compositioni del signor L. Leporeo con l’aggiunta alle già stampate d’altre cavate da’ manoscritti, raccolte e date in luce da Giuseppe Corvo (Roma, 1682), che oltre alla Centuria e ai Leporeambi nominali comprende centoquarantanove sonetti inediti (fu il sonetto la forma privilegiata del leporeambismo). L’edizione 1660 della Centuria non è la prima udinese del «forlano» L., che mantenne contatti con il Friuli e fu più volte a Udine, dove la sua famiglia si era trasferita (suo fratello Niccolò nel 1637 era notaio della cancelleria pretoria), e presso l’editore udinese Schiratti pubblicò nel 1647 le Colpe e discolpe di Cupido e nel 1652 il Panegirico nella partenza dell’illustrissimo et eccellentissimo sig. Francesco Erizzo da lui pronunciato in onore del luogotenente veneto al termine del suo mandato. Della produzione poetica del L. fanno parte anche la Versione della sequenza de’ morti Dies irae (Roma, 1643), cinque Recitativi musicali a carattere sacro (Roma, 1650) che potrebbero aver ispirato gli Inni sacri del Manzoni, il Decadario leporeambo alfabetico Panfilico distico similitudinario (Roma, 1652), una Dozina di stringhe al cavalier Marino e un paio di sonetti d’occasione presenti in raccolte miscellanee. Il L. morì intorno al 1655, non sappiamo se a Roma o in Friuli. Dichiarato seguace del Berni e denigratore del Marino (ma sostanzialmente marinista), fu oggetto di censura sia morale – per la sua vita di gaudente, tanto più scandalosa per un prete, se davvero fu tale, e non posa – che estetica: l’arcade Giovanni Maria Crescimbeni giudicò la sua poesia «noiosa e insipida invenzione»; ne spregiarono le «prodezze stilistiche» Benedetto Croce, le «frascherie» Carlo Muscetta. La recente generale rivalutazione critica del barocco consente una diversa considerazione della sua opera quale «straordinario specchio del suo tempo» (Rienzo Pellegrini) e della modernità del suo «gioco giocato nella luce della ragione geometrica» (Giorgio Barberi Squarotti). Nel 1993 un’edizione di Leporeambi (comprendente la Centuria e i centoquarantanove sonetti del Fascio) è stata curata da Valter Boggione; nel 2005 tutte le Opere sono state edite a cura di Mario Turello, con una nota di Rienzo Pellegrini.

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Bibliografia

L. LEPOREO, Leporeambi, a cura di V. BOGGIONE, Torino, RES, 1993; ID., Opere, a cura di M. TURELLO (con una nota di R. PELLEGRINI), Pordenone, Accademia San Marco, 2005.

LIRUTI, Notizie delle vite, IV, 230-235; D. VAGNONI, Leporeo, Ludovico, in DBI, 64 (2005), 676-678; A. BENEDETTI, Unicuique suum, o della patria di Lodovico Leporeo, «Il Noncello», 30 (1970), 37-62; B. CHIURLO, Rassegna di letteratura friulana, «Giornale storico della letteratura italiana», 47 (1931), 346-347; N. COSSU, L. L., «Letterature moderne», 8 (1958), 302-320; L. HUETTER, Spunti romani in Ludovico Leporeo, in Studi di bibliografia e di argomento romano in memoria di Luigi De Gregori, Roma, Palombi, 1949, 201-209; G.R. HOCKE, Il manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria esoterica, Milano, Il Saggiatore, 1965, 35-39; M. TURELLO, Proposte per una rilettura dell’opera di L. L., «Ce fastu?», 70-71 (1974-1975), 154-199; C. CHIODO, Il gioco verbale. Studi sulla rimeria satirico-giocosa del Seicento, Roma, Bulzoni, 1990, 11-36; G. POZZI, Poesia per gioco. Prontuario di figure artificiose, Bologna, Il Mulino, 1984, 6, 109, 115-115, 145, 157; S.M. MARTINI, Sul Leporeo. Con una dozina di stringhe al cavalier Marino, «Philologica. Archivio barocco», 1 (1992), 31-66.

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