MARTINI (MIONI) GIOVANNI

MARTINI (MIONI) GIOVANNI

pittore, intagliatore

Immagine del soggetto

Pala dell'altare della cappella di S. Marco, opera di Giovanni Martini del 1501 (Udine, duomo).

Immagine del soggetto

Santa Margherita, particolare dell'altare di Giovanni Martini della chiesa di S. Maria delle Grazie a Prodolone (San Vito al Tagliamento), 1515 ca.

Immagine del soggetto

Pietà, particolare della pala d'altare intagliata da Giovanni Martini per la parrocchiale di Mortegliano (1523-26).

È uno dei maggiori artisti friulani di tutti i tempi. La famiglia cui appartiene segna, attraverso i suoi membri, il Rinascimento nostrano. Il nonno era Candido Mioni da Tolmezzo, pellicciaio e calzolaio in Udine, sposo a Caterina fu Domenico della Fornace di Udine. Dal matrimonio nacquero due figli, Domenico, conosciuto come Domenico da Tolmezzo, pittore e intagliatore, e Martino, pellicciaio prima e in seguito pittore e intagliatore noto come Martino da Tolmezzo. Questi ebbe sei figli, due femmine (Anna e Bernardina) e quattro maschi, Giovanni, Vincenzo, Paolo e Giacomo, tutti artisti. Di questi, il più conosciuto è certamente G., ricordato nei documenti come G. di Martino o Iohannes Martini o de Martinis, ciò che permette di distinguerlo dal cugino e coetaneo Giovanni Mioni figlio di Domenico, lui pure intagliatore e pittore. Con tutta probabilità apprese l’arte nella bottega paterna o in quella dello zio, anche se non può essere scartata l’ipotesi che sia stato mandato da giovane ad imparar l’arte a Venezia, dov’erano attivi pittori come Bartolomeo e Alvise Vivarini o Cima da Conegliano della cui poetica alcuni suoi dipinti fortemente risentono. In questi ultimi anni è stata peraltro accantonata l’idea che sia stato allievo di Alvise Vivarini: la scritta che compare sul cartiglio di un quadro raffigurante la Madonna con Bambino conservato nel Petit Palais di Avignone come deposito dal Louvre, JO(HAN)N(E)S BAP(TIST)A DE UTINO P(INXIT) | DISCIP(U)L(U)S ALOVISII| VIVARINI, sembra infatti riferirsi non al M. ma al pittore Giovanni Battista da Udine (o da Sacile) la cui personalità è stata in qualche modo ricostruita. ... leggi Non molto è dato sapere della vita del M., se non che si sposò due volte, dapprima con Valentina, che morì nel 1511 durante l’epidemia di peste seguita al disastroso terremoto che aveva colpito il Friuli e che fu causa di morte anche di artisti come Bartolomeo Dall’Occhio e Gianfrancesco da Tolmezzo; poi, nel 1517, con Francesca figlia di Andrea Madrisio aromatario in Udine. Ebbe sette figlie, Valentina, Belisandra, Virginia, Cecilia, Lodovica, Vincenza, Ottavia. Il primo documento che lo riguarda lo vede testimone, nel 1497, ai testamenti di Elena Portinari e di Pellegrino da San Daniele. Privilegiò, agli inizi, l’attività pittorica: al 1498 risale una tavola, datata e firmata, raffigurante la Madonna con Bambino e i SS. Giuseppe e Simeone, di decisa tipologia veneziana, con rimandi ad Alvise e Bartolomeo Vivarini, dove tuttavia il pittore evidenzia alcune componenti tipiche del suo credo, in primo luogo quella maniera, per dirla con il Vasari, «crudetta, tagliente, e secca tanto, che non poté mai addolcirla né far morbida, per pulito e diligente che fusse». Che si ritrova anche nella pala di S. Marco (S. Marco in trono e i santi Battista, Stefano, Girolamo, Bertrando, Ermacora e Antonio abate) del duomo di Udine, commissionatagli dal consiglio della città di Udine ed eseguita nel 1501. Per il dipinto, peraltro non a tutti gradito per la forza icastica dei personaggi, dall’aspetto più guerresco che santorale, come si legge in una lettera inviata dal decano del capitolo di Udine al patriarca di Aquileia Domenico Grimani il 12 luglio del 1501, ricevette un compenso superiore al pattuito per aver dipinto più figure di quanto si fosse convenuto. Lo spirito rinascimentale, pienamente avvertibile nella composizione (che semplifica il modello offerto al pittore dalla pala di Belluno di Alvise Vivarini, andata distrutta), rende il M. forse il più aggiornato pittore friulano del tempo e giustifica alcune importanti commissioni di lavoro, quali l’esecuzione di un pregevole dipinto con la Presentazione di Gesù al Tempio per il duomo di Spilimbergo, con figure forse troppo rigidamente e simmetricamente disposte, ma con un’intelaiatura architettonica di tutto rispetto, e soprattutto la grande pala di S. Orsola per la chiesa di S. Pietro Martire a Udine, che nel 1503 il pittore si era impegnato ad eseguire entro due anni, ma che fu portata a termine solamente nel 1507. La pala venne purtroppo smembrata, probabilmente nell’Ottocento: si perse l’imponente cornice lignea che la conteneva, la parte centrale (S. Orsola e le compagne) finì nel museo di Brera a Milano, la lunetta (S. Domenico tra angeli musicanti) nel museo di Udine, delle tre scenette della predella una è in collezione privata a Roma, delle altre due si sono perse le tracce. Quanto rimane attesta tuttavia delle grandi capacità pittoriche del M., che qui pare influenzato soprattutto dall’arte di Vittore Carpaccio, che nel 1496 aveva dipinto, per la stessa chiesa, il noto quadro raffigurante Cristo e gli strumenti della passione ora in museo. Non sono numerose le sue opere pittoriche, tolte quelle a lui in precedenza attribuite ed oggi assegnate a Gaspare Negro o a Giovanni Battista da Udine, figura di artista, quest’ultima, riportata in luce da una corretta lettura dei documenti, di recente effettuata. Si possono ricordare una Presentazione al tempio del 1515 nel duomo di Portogruaro ed una figura di S. Antonio abate già nella chiesa di Cuccagna ed ora in collezione privata. Del resto, l’attività principale di G. M., soprattutto dopo il 1507, anno nel quale vennero a mancare il padre e lo zio Domenico, riguarda la scultura lignea, arte nella quale, più che attenersi ai modelli cari a Domenico da Tolmezzo (Antonio Vivarini e Squarcione, Giovanni d’Alemagna, Bartolomeo Golfino), preferì accostarsi al mondo più chiaramente rinascimentale di Giovanni Bellini, alle sue cornici fastose e robuste, alla cultura figurativa lombarda del primo Cinquecento. Nei primi altari di una certa monumentalità, quelli della chiesa di S. Stefano (ora nella parrocchiale) di Remanzacco (1510 circa) e della chiesa di S. Maria delle Grazie a Prodolone di San Vito al Tagliamento (1515 circa), adottò una forma largamente diffusa nel mondo veneto: solidi pilastri divisori con motivi a candelabro di tipo rinascimentale e capitelli corinzi, robusti architravi ed una cimasa che sovrasta il nicchione centrale e diviene l’elemento tipico dei suoi altari. Questa soluzione, che non compare nei lapicidi lombardi operanti in Friuli, può essergli stata suggerita dalla visione del monumento al doge Andrea Vendramin di Tullio Lombardo nella chiesa veneziana dei SS. Giovanni e Paolo (1495). Nell’altare di Remanzacco (con dieci grandi statue nei due ripiani e altre sei tra cimasa e cornicione superiore) il M. adoperò, più che altrove, il pressbrokat, cioè quella speciale tecnica della decorazione impressa che rende splendidi sfondi e abiti delle figure: tecnica di origine nordica, adoperata raramente da altri intagliatori in Friuli, la quale mostra a sufficienza la larga cultura dell’artista udinese. Simile per fattura l’altare di Prodolone, anch’esso con spartimenti “vitruviani”: la fastosità dell’intaglio, che crea veloci giochi chiaroscurali, i richiami stilistici, l’uso abbondante dell’oro lo rendono uno dei pezzi più importanti e costituiscono la premessa per il grandioso, celebre altare della parrocchiale di Mortegliano, alto più di cinque metri e ricco di una sessantina di statue, terminato nel 1526 e pagato la cifra, per allora enorme, di 1180 ducati. Abbandonato lo schema tradizionale della ripartizione in tanti campi quante sono le figure, lo scultore, che qui si serve di numerosi aiuti, così che non sempre omogenea è la qualità artistica, adotta una struttura a tre piani separati da ornate cornici e sostenuti da eleganti colonnine, culminanti con una trabeazione ed un’ampia lunetta; in ognuno dei piani, al centro, una scena glorificante la vita della Vergine (Pietà, Dormitio, Assunzione, Incoronazione). Fanno da cornice alle scene, in armonica sintesi, assieme alle strutture architettoniche, le statue dei dottori della Chiesa e di molti santi cari alla devozione popolare. Abbondante è la produzione scultorea del M.: tra le opere di minor dimensione, ma altrettanto valide, andranno ricordati almeno gli altaroli di Brazzano (in parte rifatto), di Montina (restituito allo splendore originario dal recente restauro) e di Faedis (coloratissimo). Numerose anche le statue isolate, in genere resti di distrutti altari, a Buttrio, Caminetto, Coseano, Clauzetto, nei musei diocesani di Udine e Pordenone. Un’attività decisamente interessante, che tuttavia presenta non poche difficoltà di valutazione, soprattutto per il non ancora definito rapporto di lavoro intercorso con il coetaneo e amico Antonio Tironi, stante la poetica che per molti versi li accomuna. Tra i suoi aiutanti si può forse annoverare il fratello Giacomo, che risulta attivo tra il 1508 e il 1545 e del quale si ricordano nei documenti numerose opere, tuttavia per lo più andate perdute: le statue che di lui rimangono (una Madonna con Bambino nella chiesa di Resia e due santi, già nella pieve di Moruzzo, ed ora in deposito al Museo diocesano di Udine) lo mostrano vicino al fratello nel modo di intagliare, ma più statico. Due suoi figli furono egualmente intagliatori, Sebastiano (altare, 1547, in S. Gottardo a Sostasio) e Giovanni Battista (ancona di S. Nicolò a Forgaria, 1556).

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Bibliografia

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