Il nuovo Liruti

L’Età veneta – Introduzione

Il territorio

Tavola orteliana acquerellata del Friuli in un rifacimento di Pietro Marchetti, 1598.

Nel 1557 Giovanni Andrea Vavassori detto Guadagnino così descriveva la Patria del Friuli nel lungo cartiglio che accompagna la carta geografica del territorio stampata a Venezia: «La vera descritione del Friuli et patria con città, terre, castelli, ville, monti, fiume, valle, porti de mare, campagne e paesi per li quali possino gli oltramontani e barbari passar in Italia. La Patria antedetta confina da Levante con l’Istria e Iapidia, al presente detta Carso, da Ponente con il territorio Tervisano, Belunese, da Settentrione con l’alpe de Alemagna e, da Meggiogiorno con la parte dil mare Adriatico qual è tra il porto del fiume Timavo e Livenza. Il circuito suo si è miglia CCL, la longeza si è miglia LXXII, la sua alteza si è miglia LXVI. Il capo e metropoli del Friuli è Udene dagli antiqui nomata Foro Iulio per honore di Giulio Cesare suo fabbricatore, da moderni veramente Udene, e per essere stata instaurata da gli Humni populi e Atila suo re. La ditta è nobilissima e grande et populosa et in meggio di essa siede uno bellissimo castello fabricato sopra un monte fatto manualmente, et è irigata da doi corni mirabilmente condutti fuora del fiume Torre. Le terre murate sottoposte a Udene sonno queste: Cividal, altrimenti detta Città de Austria humetata dal fiume Natisone, Porto Gruaro posta sopra il fiume Lemene, da Plinio detto Romatino, Concordia sopra il detto fiume, Pordenon dal fiume Naucello, Sacile, Motta et Brugnera dal fiume Livenza, Polcenigo dove nasce Livenza, Caneva et Portia e Cordubato, San Vito, Valvason e Spilimbergo posto sopra le ripe del Tagliamento, San Daniel, Giemona, Venzon e Tolmezo, alle mure del quale batte il Tagliamento, Belgrado diviso dal fiume Varano, e Montefalcone forteza inespugnabile, e similmente Goritia da Strabone detta Noreia, Gradisca detta Hemopoli bagnate dal fiume Lisontio, Aquilegia dal fiume Natissa e la Tisana dal fiume Tagliamento, al presente sono sottoposte a ditione separate. Vale. In Vinegia per Giovanni Andrea Valvassorii detto Guadagnino, MDLVII».
Quantunque in questa descrizione sia facile cogliere approssimazioni ed errori anche clamorosi dal punto di vista storico (uno per tutti l’identificazione di “Forum Iulii” con Udine, a scapito di Cividale, ripresa dal De vetustate Aquileiensis patriae di Marcantonio Sabellico), le coordinate geografiche del Friuli fornite dal Guadagnino rimangono quelle accettate universalmente dai contemporanei, che resteranno tali per tutto il periodo preso in considerazione in questi volumi. Girolamo di Porcia le ripropone nella Descrizione della Patria del Friuli fatta nel 1567: «sebbene i confini si dicono dalla Livenza all’Isonzo, sono però molti luoghi di là dell’Isonzo, i qualli fanno colla Patria; e molti oltre la Livenza verso il Trivigiano, che pure fanno colla Patria». A riprova di tutto questo si può ricordare che ancora alla fine della dominazione veneziana, nel 1798, il “cesareo reggio ingegnere” Giovanni Antonio Capellaris disegnava una Carta topografica di tutto il territorio del Friuli Goriziano ed Udinese, delimitata dagli stessi «confini della Carintia, del Cragno, del Triestino, del Trevisano, del Bellunese».
Questi sono gli orizzonti e l’ambito territoriale nel quale anche il Liruti si muove, collocandovi le biografie degli «uomini letterati, e dotti, che nel tempo andato fecero onore a se stessi, ed alla loro Patria». In realtà, nell’introdurre le Notizie delle vite ed opere scritte da’ letterati del Friuli, egli si sofferma in particolare sui confini del Friuli col Trevigiano, tralasciando qualsiasi riferimento al confine orientale e ai rapporti tra Friuli veneto e Friuli asburgico. Scrive a questo proposito: «A buon conto la Provincia del Friuli si estende dalla parte di Ponente fino al fiume Livenza, o sia dalla di lui fonte, fin dove egli mette in mare», aggiungendo che «questa nostra Provincia fino d’allora accrebbe oltre la Livenza verso la Piave i confini del proprio territorio, ricevendo almeno un terzo del distretto di Oderzo tra i suoi confini […] Tra i luoghi assegnati al Friuli uno possiamo asserire con franchezza, che fosse la Motta […] Da questa divisione e compartimento però nacque, e si conservò sempre in Oderzo, Motta, Camino, Cavolano, Sacile, Serravalle, ed in altri luoghi più considerabili di questo tratto fra Livenza, e Piave aderenti al Friuli, una ritrosia, e renitenza insuperabile, nel riconoscere la città di Trevigi per loro capo e città diciam così, metropoli». A riprova delle sue affermazioni lo studioso di Villafredda ricorda che «gli Oderzini si matricolano tuttavia in Padova (nella Università) colla Nazione Friulana. E per appunto anco gli scolari degli altri luoghi soprammentovati si considerano nello Studio di Padova come Friulani, e si matricolano per antica consuetudine nella nostra Nazione Friulana, come sono quei della Motta, anche oggidì chiamata del Friuli». Questi brevi richiami alla dissertazione «de’ confini del Friuli» pubblicata a suo tempo dal Liruti in premessa del suo lavoro è indispensabile per comprendere le inclusioni di alcuni personaggi, che i curatori del Nuovo Liruti fanno proprie e che altrimenti sarebbero inspiegabili.
Seguendo una periodizzazione ormai consolidata nella storiografia friulana a partire dagli studi di Pier Silverio Leicht, Pio Paschini e Giuseppe Marchetti fino a quelli più recenti di Carlo Guido Mor, Amelio Tagliaferri, Giuseppe Francescato, Fulvio Salimbeni e Paolo Cammarosano (per citarne solo alcuni), con la conquista veneziana della “Patria del Friuli” avvenuta nel 1420 si apre una nuova epoca che si concluderà con la fine della Repubblica sancita dal trattato di Campoformido nel 1797. In merito alla periodizzazione, fatta propria dai curatori di questi volumi, c’è da aggiungere, a scanso di equivoci, che si tratta di un’approssimazione convenzionale, che se da una parte è ampiamente giustificata, dall’altra ha bisogno almeno di qualche chiarimento. Innanzitutto va precisato che le due date, poste all’inizio e alla fine del periodo qui preso in considerazione, si riferiscono direttamente agli ambiti territoriali della “Patria del Friuli”, che in età medievale aveva raggiunto una sua autonomia politica e che sotto la dominazione veneziana mantenne la sua unità dal punto di vista amministrativo. È difficile negare che l’eredità dello “stato” patriarcale sia stata determinante nella formazione di un’identità culturale del Friuli e di un comune senso di appartenenza che unisce ancora gli abitanti di questa terra. Riprendendo le parole di Amelio Tagliaferri, che in questo caso si occupa dei rapporti istituzionali tra Venezia e la terraferma avendo presente quanto Heinrich Schmidinger aveva scritto sul Friuli, «quello patriarcale è un periodo in cui il Friuli si era costituito come regione unitaria, come un territorio con una propria coscienza nazionale, con proprie consuetudini, con un proprio diritto, quindi come un vero land autonomo e indipendente». Per quanto queste affermazioni siano condivisibili, la storia politica e culturale del Friuli dal Quattrocento al Settecento non può essere appiattita in modo esclusivo sulle vicende della “Patria del Friuli” (il termine che alla fine prevalse per indicare il territorio ex-patriarcale), anche se esse rimangono pur sempre fondamentali per inquadrare il profilo biografico e culturale dei letterati vissuti in questa piccola parte d’Europa. L’occupazione veneziana del 1420 aveva posto fine allo “stato” patriarcale che estendeva la sua giurisdizione su gran parte del Friuli occidentale, ma non aveva compromesso l’autonomia politica della contea di Gorizia sotto la cui giurisdizione era compreso il Friuli orientale.

Il contesto politico-istituzionale

Le vicende delle città e dei borghi disseminati sul territorio confermano la complessità di un quadro politico-istituzionale, al quale bisogna necessariamente riferirsi per spiegare molti aspetti della storia culturale che qui viene raccontata e sono forse indispensabili per capire, almeno in parte, la dinamica dei rapporti esistenti ancora ai nostri giorni tra le varie aree che compongono il territorio. Udine e Cividale, ad esempio, sempre in conflitto tra loro per l’egemonia sul territorio, erano state patriarcali prima di sottomettersi a Venezia nel 1420. Pordenone, pur avendo «parlare e costumi friulani» (la citazione è presa dalla Descrizione della Patria del Friuli di Girolamo di Porcia), ebbe una storia diversa: la città era stata degli Asburgo e passò sotto Venezia solo nel 1508. Parlando di Pordenone, città natale degli Amaltei e di altre famiglie «che contar possono e per numero, e per qualità letterati di sommo pregio», il Liruti annota: «Pordenone, luogo nobile, e popolato, che col nome di città ne meritò i privilegi, e che fu sempre annoverato fralle città di questa nostra Provincia del Friuli, e sol da taluno, rispetto al dominio che n’ebbero un tempo alcuni principi oltramontani, fu tenuto come separato dal rimanente della Provincia, ch’era suggetta alla Repub­blica di Venezia». Gorizia, dove alla fine del Settecento, secondo la testimonianza di Anton Musnig, ci si esprimeva «triplici sermone, slavonico, germanico et furlano», entrò a far parte del dominio degli Asburgo nel 1500 alla morte del conte Leonardo ultimo della dinastia Gorizia-Tirolo, senza aver fatto parte del territorio patriarcale o veneto, e rimase fedele agli Asburgo fino al crollo dell’impero (1918). La galleria dei personaggi che occupano questa seconda parte del Nuovo Liruti, si colloca pertanto in un contesto politico-istituzionale profondamente mutato, rispetto al periodo precedente, con un territorio diviso tra Friuli veneto e Friuli austriaco, gravitanti rispettivamente su Venezia e su Vienna.

La classe dirigente

I tre ordini sociali in una silografia pubblicata da Tommaso Rangoni, Venezia, 1523 (?).

Le conseguenze di questa situazione si possono cogliere facilmente scorrendo buona parte delle biografie dei personaggi vissuti in questo periodo. In assenza di alternative di lavoro, dovute alla scarsezza dei mezzi e al mancato impiego nell’amministrazione dello stato, che era riservata alle famiglie veneziane, la classe nobiliare e in parte quella borghese erano costrette ad emigrare, dando luogo ad un fenomeno inverso a quello verificatosi nell’ultimo periodo della dominazione patriarcale. Mentre in età patriarchina si assiste a un consistente flusso di immigrazione toscana, lombarda e di altre regioni italiane che rispondeva alla domanda di una classe dirigente adeguata ai bisogni, in età veneziana si verificò un movimento opposto. Un gran numero di giovani appartenenti alle famiglie cospicue della Patria cercò e trovò lavoro all’estero. «In genere», scrive Carlo Tullio Altan, «questi emigrati nobili rientravano in età avanzata a morire a casa loro, dove facevano confluire il ricavato dei loro servizi, i libri letti e conservati poi nelle biblioteche nobiliari, i documenti della loro vita e le loro esperienze di mondo, che in qualche modo andava ad alimentare la cultura di quel gruppo sociale». Il Nuovo Liruti ricostruisce la carriera straordinaria di alcuni di questi personaggi, che avevano ricevuto una robusta formazione di base nelle scuole locali o sotto la guida di illustri precettori domestici, prima di iscriversi nelle università di Padova e di Bologna e di passare come ecclesiastici, diplomatici o militari al servizio della corte di Roma, degli Asburgo, di Venezia o di qualche altro principe italiano o straniero.
L’istruzione su cui i rampolli delle potenti consorterie potevano contare non si limitava allo studio delle lettere e delle scienze, ma si estendeva anche alla buona educazione e all’addestramento militare. Ciò da una parte implicava, oltre al maneggio delle armi e alla conoscenza delle strategie belliche, anche l’esercizio delle tecniche di fortificazione. Ne uscivano ingegneri militari in possesso di una solida cultura, formatasi sugli studi dei classici, e su una larga esperienza del mondo, costruita con la pratica delle corti e delle armi, i quali furono largamente utilizzati negli eserciti della Repubblica veneta e lasciarono anche testimonianza della loro preparazione scientifica e culturale in scritti editi e inediti. Emblematica a questo proposito è la figura di Giulio Savorgnan, il quale, educato in famiglia allo studio dei classici latini e greci sotto la guida del famoso filologo greco Giano Lascaris, era stato inviato dal padre Girolamo presso i signori di Mantova per apprendere la “bona creanza” e soprattutto la pratica delle armi, così come l’altro figlio Mario cinquant’anni più tardi avrebbe progettato d’inviare i nipoti in Germania e alla “corte di Franza” per far «prattica di queste due nobili et bellicosissime nationi». Giulio fu dei più autorevoli ingegneri militari della Repubblica, figura di spicco del ripensamento delle difese dello Stato veneziano seguito alla cruciale sconfitta di Agnadello. Dopo il tirocinio delle guerre in Lombardia, l’esperienza del Savorgnan si costruì lungo l’arco di un trentennio in Dalmazia e nelle Terre “da mar” della Repubblica, bisognose di difese contro la minaccia del Turco. Tra il 1572 e la nomina a soprintendente generale delle artiglierie e delle fortezze veneziane avvenuta nel 1587, il Savorgnan trascorse lunghi periodi in Patria, facendo di Osoppo un centro in cui coltivare gli interessi di studio e sperimentarne le applicazioni, con la costruzione di “machine” da guerra – come una “bottega d’arme” e un “magazino di macchine bellicose” –, ma anche ospitando illustri architetti e scienziati del tempo, uomini di cultura e di potere. L’ultimo suo progetto è legato alla fondazione di Palma, che prese avvio il 7 ottobre 1593: una fortezza per i tempi esemplare, modello della nuova arte fortificatoria. Il Savorgnan lasciò diversi scritti sulle fortificazioni e si occupò anche di salvaguardare le memorie di famiglia, riordinando le carte private e facendo copia delle pubbliche scritture che riguardavano il casato.

Nel 1749 Antonio di Montegnacco, qui raffigurato nel Consilium in arena di Giambattista Tiepolo (1750 ca.) davanti al gran maestro dell’ordine di Malta, dimostra la fondatezza della nobiltà dell’aristocrazia udinese.

La famiglia dei Savorgnan assume un valore rappresentativo anche nella difesa, nel 1514, del forte di Osoppo da parte di Girolamo Savorgnan, fedele alla Repubblica, dall’assedio delle truppe imperiali capitanate da Cristoforo Frangipane. La vicenda è un episodio della contrapposizione su due fronti in seno alla nobiltà friulana, lo schieramento filoveneto e quello a favore degli interessi imperiali, la quale a volte coinvolgeva membri della stessa famiglia. Parlando dei “castellani” del Friuli durante questo periodo, Giuseppe Trebbi osserva che «il problema cruciale era rappresentato dal confronto fra gli Asburgo e Venezia, che non poteva non concludersi a tutto vantaggio dei primi, per la maggiore omogeneità ideologica (giacché i Veneziani erano percepiti, non solo nell’impero, ma in tutta la Terraferma veneta, essenzialmente come mercanti), per la garanzia dei tradizionali assetti economico-sociali e per la fiducia con la quale gli Asburgo ricorrevano alla nobiltà, anche friulana, per cariche amministrative, militari ed ecclesiastiche, da cui invece la nobiltà della Patria del Friuli era sostanzialmente emarginata, a vantaggio dei Veneziani o addirittura, come nell’esercito, di condottieri stranieri». Una certa estraneità e diffidenza nei confronti della Repubblica si coglie a questo proposito negli scritti di Cornelio Frangipane di Castello, che pure diede un suo contributo alla celebrazione del “mito di Venezia”. Il Frangipane ricorda che nella Repubblica le magistrature si davano ai soli patrizi veneti: perciò Venezia «non è patria comune a tutti, sì come fu già Roma et è per adventura al presente» (con un riferimento ai molti nobili friulani che avevano fatto carriera presso la corte pontificia). «Tutti sono forestieri a Venetia che Venetiani non sono, e quivi ai forestieri sono chiuse le porte de la dignità». Giudizi critici non dissimili si leggono nella Cronaca di Roberto da Spilimbergo (1530) o nella Descrizione della Patria del Friuli di Girolamo di Porcia (1560), che sembrano voler ribadire un’ideale continuità col loro passato, ricollegandosi – nell’esaltazione delle tradizioni feudali, nella rievocazione nostalgica dei tempi patriarcali e nella critica serrata della politica di Venezia – alla posizioni politiche filoasburgiche.

Sulla base dei dati forniti da Giovanni Giuseppe Capodagli sulle famiglie nobili di Udine (Udine illustrata, 1665) e da Basilio Asquini (180 e più uomini illustri del Friuli, Venezia 1735), l’Altan rileva che la Dominante escluse la nobiltà friulana «dalla gestione effettiva del potere dello stato, diversamente da quanto accadeva nello stesso periodo nei territori soggetti al dominio arciducale […] Gli Austriaci offrivano anche favorevoli opportunità di scuole, al fine di richiamare a sé la nobiltà friulana. A questo fine venne istituito il collegio tenuto a Gorizia dai gesuiti». Per Venezia il Friuli era considerato territorio strategico per la sicurezza della Repubblica, a causa della sua posizione geografica. «Ciò che interessava quindi l’oligarchia veneziana era il fatto che la zona si mantenesse tranquilla e che non vi si sviluppassero eccessive e incontrollabili tensioni sociali», come avvenne in occasione della “crudel zobia grassa” del 1511, allorquando i contadini che appartenevano alla fazione filoveneziana degli zamberlani, spalleggiati da Antonio Savorgnan, si scatenarono contro la fazione filoasburgica degli strumieri. La rivolta, della quale si occupano ampiamente le cronache del tempo a cominciare da Gregorio Amaseo, Nicolò Monticoli e Antonio Belloni, è considerata la rivolta popolare più rilevante dell’Italia rinascimentale, che trova una spiegazione in profonde motivazioni di ordine sociale.
La nobiltà locale era esclusa non solo dalla gestione del potere dello stato, ma anche dalle maggiori cariche ecclesiastiche. A partire dalla conquista veneziana non ci fu neppure uno tra i patriarchi di Aquileia o i vescovi di Concordia che non fosse stato scelto tra i membri della nobiltà veneziana. In questo contesto era normale che ci fosse un notevole flusso migratorio che portava i membri della nobiltà e anche di parte della borghesia a cercare fortuna altrove. La curia del luogotenente veneto della Patria era composta, infatti, per lo più da notai, cancellieri, scrivani, giudici di origine veneziana o comunque veneta. Uno degli aspetti della vita culturale di questi secoli, che il Nuovo Liruti mette in luce, è il ruolo dei giuristi friulani nell’età moderna, ruolo tanto più significativo in quanto non ancora pienamente conosciuto. Molto articolata è infatti la fisionomia di un ceto quale quello degli uomini di diritto e molteplici sono le funzioni che grazie alla loro formazione giuridica vengono ricoprendo: notai, cancellieri, giudici, professori universitari, amministratori. Ci si trova di fronte a posizioni professionali e carriere diverse che riguardano sia il concreto ambito amministrativo della Patria del Friuli e, in alcuni casi, del più vasto territorio della Repubblica di Venezia, sia l’elaborazione dottrinale soprattutto nel campo del diritto penale e feudale. I giuristi, che il Nuovo Liruti presenta, sono figure capaci – nella pratica del diritto come nell’elaborazione teorica – di dar voce alle esigenze del territorio e al tempo stesso di costituire anello di comunicazione tra sistemi politici, giuridici e culturali di diversa matrice. Grazie alla loro azione poterono legarsi e convivere il sistema veneziano e la tradizione del diritto comune che si era sviluppata in Friuli e una grande importanza ebbe l’apporto tecnico di costoro alla politica veneziana di riforme nella materia feudale, che essi ben conoscevano. Una personalità minore, ma emblematica in questo senso, è quella del sanvitese Ottavio Menini, professore di diritto all’Università di Padova e amministratore pubblico a San Vito al Tagliamento. Egli, legato a Erasmo di Valvasone da un rapporto di amicizia e di collaborazione nelle vertenze sui suoi feudi, ebbe anche rapporti con Paolo Sarpi, di cui condivideva gli interessi storico-giuridici essendo autore di un discorso in difesa della Repubblica di Venezia dalle pretese temporalistiche papali. Più in generale, tali figure di esperti del diritto formarono un ceto di specialisti, i quali rappresentarono anche una nuova forza sociale che seppe emergere, grazie al suo sapere, soprattutto a Udine dove si ritagliò una larga rappresentanza nelle istituzioni municipali e nella elaborazione di una politica di affermazione della città come capitale del territorio friulano: eredità socio politica di lunga durata che attraversò l’età veneta costituendo presupposto anche delle fasi storiche successive. Si tratta di una forza sociale che sembra aver preso coscienza del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. Basti rileggere l’Elogio di Paolo Fistulario, storico e geografo del Friuli, pronunciato nel 1781 dal nipote Girolamo. L’elogio, a partire dall’appartenenza di Paolo al patriziato civico e a quello specifico gruppo di famiglie che al suo interno si erano rafforzate per le loro conoscenze giuridiche, per le battaglie antifeudali e per l’adesione al progetto di governo veneziano, tratteggia la figura di un uomo nel quale la cultura è messa al servizio della comunità e della riscrittura della sua storia con l’obiettivo di rafforzarne il ruolo di capitale del territorio.
Il discorso intorno alla nobiltà civile si era affermato nella trattatistica italiana ed europea agli inizi del secolo – ben presente nell’opera del veronese Scipione Maffei, sarebbe stato poi anche rappresentato nelle celebri parodie del nobile ozioso delle commedie goldoniane –, ed era stato ripreso, per quanto riguardava il Friuli, nel 1726 da Romanello Manin nei suoi Dialoghi. Sulla questione aperta intorno alla preminenza sociale tra i due corpi nobiliari della Patria, quello di ascendenza feudale e quello cittadino, il Manin demolisce il ruolo della nobiltà castellana, che non si era mai assimilata, né economicamente, né culturalmente alla dimensione cittadina, e si schiera a favore della nuova nobiltà che fonda il suo prestigio su virtù e fortuna. In questo contesto si può collocare anche la disputa famosa (famosa perché immortalata da Giambattista Tiepolo nel celebre Consilium in arena), che nel 1749 vide protagonista, davanti al gran maestro dell’ordine di Malta, Antonio di Montegnacco consultore in iure della Repubblica. Il Montegnacco, avvalendosi della sua esperienza giuridica e della sua convincente oratoria, riuscì a far ammettere all’ordine gerosolimitano i nobili udinesi, che in un primo tempo ne erano stati esclusi.

Lingua friulana e identità

Piatto anteriore delle Constitutiones totius patriae Fori Iulii volgarizzate da Pietro Capretto per lo stampatore Gerardo da Lysa, Udine 1484.

La storiografia contemporanea ha espresso su questo periodo valutazioni contrastanti, che vanno dalle posizioni filoveneziane di Pier Silverio Leicht e di Carlo Guido Mor, ai giudizi critici, talvolta privi di sfumature, di Giuseppe Marchetti, che potrebbero essere sintetizzati nelle parole di uno dei personaggi messi in scena da Carlo Sgorlon: «Ma il disastro più grande», così si esprime Geremia ne Gli dei torneranno, «l’avevano causato i Veneziani, distruggendo il glorioso Patriarcato, nel 1420, incamerandolo di fatto nel territorio della Repubblica […] Così l’antico Friuli era andato in pezzi, ed era cominciato il triste periodo della decadenza e della servitù. Era finito il Friuli medievale, rissoso e irsuto, litigioso e vestito di ferro, semitedesco, carinziano e slavone. Le pianure e le vallate avevano cominciato a essere percorse da raffinatezze veneziane, fiorentine e umanistiche, del tutto estranee all’indole e alla civiltà dei friulani […]». Per Amelio Tagliaferri, che si colloca nella scia del Leicht, «accanto a molti demeriti Venezia potè attribuirsi anche il merito di aver perlomeno preservato al Friuli la sua individualità etnica e culturale, inglobandone il territorio nel proprio vasto sistema e facendolo partecipe di una dimensione politica e sociale più allargata» (1978). Un giudizio molto articolato è anche quello espresso da Giuseppe Francescato e Fulvio Salimbeni in Storia, lingua e società in Friuli. Dopo aver riconosciuto che la Serenissima aveva riportato ordine e tranquillità nelle campagne, ponendo fine alle faide che avevano insanguinato e devastato la regione e garantendo taluni diritti fondamentali anche ai contadini, i due autori ritengono che il rientro del Friuli nell’orbita culturale italiana, dovuto alla dominazione veneziana, sia stato determinante nella salvaguardia e nello sviluppo della lingua friulana: l’affinità tra italiano, veneto e friulano avrebbe consentito «a quest’ultimo idioma di prendere forma, sia pure con le limitazioni proprie delle letterature dialettali, anche come linguaggio letterario». «L’autentica rivoluzione per ciò che riguarda la posizione sociolinguistica del friulano» avvenuta attorno alla metà del XVI secolo e implicante una scelta voluta e consapevole del friulano come lingua letteraria, sarebbe il risultato, apparentemente paradossale, della presenza di Venezia che avrebbe contribuito a salvare la continuità del friulano. Al di là delle interpretazioni, per inquadrare in modo obiettivo il problema della lingua friulana nel contesto più ampio di un discorso sull’identità friulana, c’è da aggiungere, che l’area friulanofona non coincide totalmente con i confini storico-geografici del Friuli, ma si sovrappone ad essi solo in parte. Basta leggere le dichiarazioni di scelta linguistica premesse dall’eclettico umanista Pietro Capretto alle Constitutioni de la Patria de Friuoli da lui volgarizzate; non però nella lingua friulana, «perché non è universale in tutto il Friule» e «perché mal se può scrivere e pezo lezendo pronunciare, et specialmente da chi non è praticho ne li vocabuli et accenti furlani».
Sul versante linguistico la situazione del Friuli tardo medioevale si presentava fluida e composita, anche a causa della relativa carenza di materiali e delle difficoltà di sintesi e di interpretazione. D’altro canto appariva gradualmente sempre più solida la consapevolezza della difformità del Friuli sul piano linguistico rispetto alle regioni contermini, come testimonia la descrizione del Friuli conservata in un codice del XIV secolo (Par. Lat. 965, f. 242r). Se gli statuti trecenteschi accordano preferenza al latino e sono pochi i laudari che danno spazio alla lingua friulana, i quaderni contabili e le carte notarili offrono ampie testimonianze della lingua parlata dal volgo. Alla fine del Trecento risalgono le più importanti testimonianze poetiche in friulano antico, come pure i primi esercizi di versione dal friulano al latino svolti in una scuola notarile cividalese. Si può affermare che con l’avvento del dominio veneziano l’impiego del friulano nell’uso documentario sia destinata a scomparire, mentre si afferma, soprattutto nel Cinquecento, una consistente produzione poetica che in modo più o meno sfumato o esplicito intende essere antagonista ai modelli linguistici codificati dal Bembo. È interessante a questo proposito passare in rassegna il filone dei sonetti in lode del friulano, che evidenziano personalità non comuni, quali quella di Nicolò Morlupino, notaio attivo a Venzone fra il 1528 e il 1571; quella del sandanielese Girolamo Sini, ormai coinvolto nella temperie del petrarchismo; e infine quella del più mordace Girolamo Biancone, che in un sonetto caudato poggia il suo antitoscanismo su un’eccelentie garantita al friulano dalla compresenza di tratti di lingue diverse. La formula dell’opposizione al volgare italiano rimane chiave di lettura privilegiata anche per la produzione di Giuseppe Strassoldo, primo esponente del Friuli orientale, seppure legato alla società udinese. Nella produzione in friulano, per quanto ristretta alle dimensioni di un circolo chiuso, la “Brigata udinese” produce i suoi frutti più eloquenti. Pseudonimi suggestivi (Lambin, Nator, Mitit, Ritit, Ritur, Rumtot, Ruptum, Turus) nascondono personalità che meriterebbero un’attenzione meno frettolosa: Girolamo Missio, Brunellesco Brunelleschi, Daniello Sforza, Giovanni Pietro Fabiaro, Francesco di Cucagna, Gasparo Carabello, Plutarco Sporeno, Paolo Fistulario. Di quest’ultimo esige un cenno almeno la versione (per una volta non parodica) del quarto e del quinto canto del Furioso, ma il manoscritto udinese lascia intuire anche la centralità del suo ruolo e delle sue prove. Per lo spilimberghese Eusebio Stella la circolazione clandestina è scelta obbligata, a motivo del carattere pericolosamente compromettente di molti dei suoi versi tanto italiani quanto friulani, soprattutto di quelli che rispondono alla concezione naturalistica di una istintiva e disinibita sensualità. La riserva moralistica spiega anche la tardiva fortuna critica delle poesie di Stella, così diversa dalla sorte riservata ai componimenti di un’altra colonna del Seicento friulano, Ermes di Colloredo. Per quasi un secolo la straordinaria circolazione dei suoi testi rimase affidata a manoscritti non autografi, e soltanto nel 1785 ricevette il conforto di un’edizione a stampa, curata a Udine dai fratelli Murero. L’opera del Colloredo è tenacemente radicata nell’età barocca, e tuttavia il successo straordinario ne supera di gran lunga i confini. Sulla sua scia si possono situare, nel Settecento, autori come Bernardino Cancianini e Gabriele Paciani, ma l’ampiezza dei rapporti, degli interlocutori e del pubblico rende ormai indifferibile un’investigazione attenta anche a zone rimaste finora periferiche e dimostratesi invece molto produttive proprio a cavallo dei due secoli. Gorizia è protagonista riconosciuta nell’opera di Giovanni Maria Marusig. Si colloca convenientemente all’insegna dell’originalità anche la produzione di un altro goriziano, il cancelliere arcidiaconale Gian Giu­seppe Bosizio, mentre appaiono piuttosto convenzionali e in linea con i tempi il contributo del gradiscano Fran­cesco Finetti, e quello di Marzio Strassoldo. Inconsueto, ma non meno significativo, è l’ambito nel quale risuona la voce friulana del primo arcivescovo di Gorizia, Carlo Michele d’Attems: di lui ci rimangono alcune prediche, una quantità esigua rispetto al materiale che dalla metà del secolo inizia a inondare gli archivi ecclesiastici. Più contenuto l’apporto delle altre aree periferiche. Nel Friuli della destra Tagliamento rimangono incerte le fisionomie di Giorgio Comini e di Giuseppe Spelladi: il primo autore di un’egloga pensata per la recitazione, il secondo di una commedia che tende al plurilinguismo dialettale, Il morto per equivoco o sia La vecchia corbellata. Bisognerà infine attendere l’Ottocento per incontrare nuovamente in Carnia protagonisti ben delineati.
Giuseppe Marchetti, che ha guardato con occhio particolarmente critico questo periodo, considera «la dominazione veneta responsabile di aver soffocato la libera maturazione dell’individualità friulana», mentre la casa d’Austria avrebbe lasciato alla contea di Gorizia «una concreta autonomia locale, senza per questo chiudere nessuna porta e nessuna strada a chi fosse stato fornito di capacità o animato da ambizioni che lo traessero fuori dall’ambito regionale». Giancarlo Menis, in modo più sfumato, riconosce la sopravvivenza dei tratti fondamentali della cultura friulana in questo periodo, nonostante la spartizione del Friuli tra Venezia e l’Austria, e parla di un tessuto connettivo rappresentato in modo particolare «dalla comune lingua parlata costantemente tanto a oriente quanto a occidente del frastagliato e contrastato confine fra la Repubblica e l’Austria»; un ulteriore elemento, a giudizio di Menis, sarebbe stato altrettanto determinante nel mantenere un vincolo unitario fra le due parti del Friuli: «l’amministrazione ecclesiastica del Patriarcato di Aquileia che […] continuò a tenere uniti in un’unica diocesi i sudditi veneti e i sudditi austriaci del Friuli». Senza entrare nel merito di quale sia stato il significato più profondo del Patriarcato di Aquileia, come è stato fatto in un convegno e in una mostra del 2000, non vi è dubbio che la Chiesa di Aquileia, pur privata del potere temporale che la legava in particolare alla Patria del Friuli, ebbe un ruolo determinante nel fissare la fisionomia culturale del Friuli in età moderna. La città di Udine conserva indelebili i segni della presenza dei patriarchi che per un lungo periodo vi abitarono: basti ricordare la biblioteca, fondata nel 1711 dal patriarca Dionisio Dolfin, e gli archivi, ai quali fanno ricorso gli studiosi dell’intera provincia aquileiese al di qua e al di là delle Alpi, come pure lo splendido ciclo di affreschi di Giambattista Tiepolo nella galleria e nelle sale del palazzo patriarcale. Altri ecclesiastici contribuirono all’incremento del patrimonio librario friulano: si pensi al fondo lasciato alla comunità di San Daniele del Friuli da Giusto Fontanini, vescovo titolare di Ancira, bibliografo e bibliotecario, docente di eloquenza alla “Sapienza” di Roma; come pure alle biblioteche dei seminari di Udine, Gorizia e Pordenone. Su libri, biblioteche e tipografi della regione sono state approfondite negli ultimi due decenni, sotto la guida di Ugo Rozzo, alcune importanti ricerche, che hanno consentito una migliore conoscenza di alcuni fra i protagonisti della vita culturale di questi secoli, quali i tipografi Gerardo da Lysa (che nel 1480 stampò il primo incunabulo friulano a Cividale del Friuli), Giovan Battista Natolini e Nicolò Schiratti che con la loro tipografia lavorarono per entrambi i versanti del Friuli, quello Veneto e quello Goriziano. La ricerca sulle biblioteche ha permesso in particolare di cogliere in tutta la sua importanza l’istituzione dell’Accademia Parteniana fondata nel 1538 dal nobile Adriano di Spilimbergo: qui si insegnava il latino, il greco e l’ebraico, in funzione soprattutto dello studio della Bibbia e in un contesto culturale influenzato dalla Riforma protestante.

Le arti figurative

Conversione di Saulo, olio su tela di Giovanni Antonio de Sacchis, detto il Pordenone, da un’anta interna dell’organo del duomo di Spilimbergo, 1524.

Nel campo delle arti figurative l’arrivo della Serenissima nel 1420 intensificò i rapporti tra gli artisti locali e Venezia. Dalla Dominante cominciarono a giungere, sempre più numerose, opere e artisti, che portarono a una fioritura intensa di esperienze e personalità. Domenico da Tolmezzo, Andrea Bellunello, Gian­francesco da Tol­mez­zo, Pellegrino da San Daniele e Giovanni Martini, sono tra i pittori che contribuirono maggiormente a introdurre anche in Friuli gli elementi tipici del linguaggio rinascimentale, utilizzando essenzialmente le forme maturate in laguna. Di grande rilievo, nello stesso periodo, fu la produzione ad intaglio, che diede luogo a una serie di opere di grande valore, sia per invenzione stilistica sia per qualità esecutiva (si pensi fra tutti agli altari lignei di Mortegliano e Prodolone). Relativamente alla pittura, il maggiore genio del Cinquecento friulano fu Giovanni Antonio Sacchis detto il Pordenone, emulato per tutto il secolo da una vasta schiera di artisti, a cominciare da Pomponio Amalteo. Antonio Carneo e Sebastiano Bombelli, gli esponenti più in vista della pittura locale del Seicento furono autori dalle notevoli qualità in grado di elevarsi oltre i confini regionali, come pure il comasco Giulio Quaglio che operò alla fine del secolo; mentre il Settecento vide a Udine l’esplosione cromatica e inventiva del genio figurativo del veneziano Giambattista Tiepolo.

Le scienze

Pietro Andrea Mattioli ritratto nell’antiporta del suo Comentaires… sur les six livres de Ped. Dioscor. Anazarbeen. de la matière medicinale, Lione 1579.

Per quanto riguarda le scienze, la figura di maggior rilievo nel XVI secolo è certamente quella di Pietro Andrea Mattioli, medico senese che da Trento, dov’era medico del vescovo Bernardo di Cles, fu chiamato nel 1542 dalla contea di Gorizia a coprire il ruolo di protomedico e a presiedere la riorganizzazione sanitaria che Francesco della Torre aveva intrapreso. Le sue doti si fecero ben presto apprezzare, non solo per aver isolato alcuni focolai di peste nella valle del Vipacco nel 1544, ma anche per le competenze dimostrate nell’esercizio della professione. Si assentò per lunghi periodi, chiamato da illustri personaggi ad Innsbruck o a Salisburgo, ma riuscì a completare a Gorizia la traduzione e il commento all’opera di Dioscoride Pedanio che pubblicò a Venezia nel 1544 con il titolo di Libri cinque della historia, et materia medicinale […]. Seguirono non meno di diciotto edizioni italiane, dieci latine e l’opera fu tradotta in francese, tedesco e boemo. È stato calcolato che almeno ventimila esemplari dell’opera siano stati stampati. Al Mattioli si attribuisce la prima esplorazione naturalistica del territorio friulano su basi scientifiche: descrisse accuratamente oltre un centinaio di specie vegetali raccolte nel Goriziano e nelle valli limitrofe, avviando la conoscenza della flora regionale. Un allievo di Pellegrino da San Daniele, Giorgio Liberale, si trasferì a Gorizia per fare le incisioni che avrebbero illustrato l’opera del Mattioli: si tratta di una serie di diverse centinaia di silografie che illustrarono la edizione del Valgrisi del 1554 e la traduzione in tedesco del 1563. Meno celebre, ma non meno eclettico, del Mattioli fu l’udinese Alvise, fratello di Francesco Luisini, laureato in medicina a Padova dove aveva seguito le lezioni di Oddo degli Oddi e Bernardino Tomitano: avendo tradotto Ippo­crate e Galeno e praticando la professione in Venezia, trovò il modo di celebrare Jacopo Sansovino con suoi versi per le statue di Marte e Nettuno che l’artista aveva creato per la Scala dei Giganti del Palazzo ducale a Venezia, di partecipare alle raccolte poetiche per la morte di Irene da Spilimbergo nel 1561 e di dedicare nel 1563 un suo trattato di medicina a Girolamo Savorgnan. Il Seicento fu un secolo che vide fiorire l’impulso delle idee nuove di Galileo, il quale oltre alla manualità tecnica che gli consentiva di approntare o perfezionare preziosi strumenti d’indagine, disponeva anche di una straordinaria capacità di immaginare sperimentazioni utili a chiarire i problemi che lo studio dei fenomeni naturali proponeva. Quando Galileo insegnava a Padova, molti friulani furono suoi allievi: alcuni furono apprezzati dallo scienziato che mantenne con loro una corrispondenza ricca ed interessante. Fra questi i due Antonini, Alfonso e Daniele, studiosi di astronomia, fisica e matematica. Fra i personaggi che frequentarono il Galilei sono da ricordare altri due friulani: fra Paolo Sarpi e Santorio Santorio, appartenente quest’ultimo ad una nobile famiglia di Capodistria, entrato all’Università di Padova a quattordici anni, dove si laureò a ventuno. Affascinato dalle scienze matematiche e soprattutto dalle misurazioni, si era impegnato, partendo dalle premesse di Galeno sui diversi modi in cui si verificavano gli squilibri fra gli “umori” che scatenavano le “discrasie” o malattie, a calcolare quante fossero le combinazioni possibili, e stabilì che fossero 80.000, deducendo che altrettante dovevano essere le malattie. Il Santorio curò Paolo Sarpi, nel 1607, vittima di un grave attentato. Santorio inventò quella che fu definita la “medicina statica” e le sue opere sul calore dell’organismo vivente, fondate su un metodo sperimentale rigoroso, possono essere considerate quelle che avviarono lo studio del metabolismo, molto apprezzate da Harvey e che sarebbero state considerate, nei primi decenni del Settecento, dal grande medico e fisiologo olandese Boerhaave «la più perfetta opera di medicina». A succedere alla cattedra di Santorio, nel 1625 fu chiamato l’udinese Pompeo Caimo, dotato di una fisionomia intellettuale complessa (commentatore di Dante, studioso delle lingue classiche, studioso di politica e filosofo), che godeva dei favori dei Riformatori dello Studio patavino, ma che non incontrò quelli degli studenti i quali lo accusarono di portare l’insegnamento della medicina su un piano squisitamente teorico e filosofico. Nell’ottobre del 1736, a Fanna, Anton Lazzaro Moro intuì la spiegazione della presenza dei fossili in montagna. Dopo qualche anno pubblicò il libro destinato a diventare una delle basi della geologia moderna: De’ crostacei e degli altri marini corpi che si truovano su’ monti, stampato a Venezia nel 1740. Le polemiche non mancarono: chi lo definì «bizzarro sistema» chi, come Scipione Maffei lo ringraziò per l’omaggio del libro scrivendogli che «ingegnosa e plausibile è la sua idea». Moro aveva proposto una teoria generale sull’origine delle terre emerse, dovuta ad attività vulcanica, dopo aver a lungo ragionato sulla comparsa di un isolotto vulcanico nell’interno della caldera di Santorini. Divenne ben presto famoso in Germania e poi in Francia dove l’Encyclopédie lo citò in due voci. Il suo lavoro è considerato come l’atto di nascita della geologia italiana. Il Settecento fu però il secolo di Carolus Linnaeus, ovvero il secolo della biologia descrittiva. In Italia la scienza tassonomica che da Linneo fu considerata la vera scienza, incontrò successo ed in breve molti studiosi si impegnarono a descrivere sistematicamente l’ambiente naturale seguendo il metodo linneano. In Friuli operarono con passione molti naturalisti, tutti provenienti da altre località d’Italia o dall’estero. Su tutti emerge la figura del medico e naturalista Giovanni Antonio Scopoli, trentino di Cavalese che per quattordici anni (dal 1753 al 1767) resse la condotta medica di Idria, nella Carniola, piccolo paese noto per le sue ricche miniere di mercurio. Lo Scopoli studiò con grande rigore scientifico la flora e la fauna della Carniola, raccogliendo i suoi preziosi dati in una serie di pubblicazioni che spaziano dall’entomologia alla flora di una regione omogenea che ha grandi affinità naturalistiche con il territorio della Patria del Friuli. Quando nel 1767 lo Scopoli, naturalista molto apprezzato da Linneo, riuscì a vincere una cattedra di metallurgia a Schemnitz in Slovacchia, fu sostituito nel suo incarico di medico condotto di Idria da Hacquet Balthasar, bretone e grande naturalista dell’ultima parte del Settecento: esplorò molte zone del Friuli orientale e so­prattutto il massiccio del Matajur. Sempre legato a Scopoli, soprattutto per interessi entomologici, è un terzo naturalista di rilievo, Francesco Saverio Wulfen, gesuita, docente presso il collegio gesuitico di Gorizia dal 1755 al 1761. A lui si devono studi sistematici sulla fauna del golfo di Trieste e soprattutto la scoperta di quell’endemismo terziario dell’area di Pramollo, la Wulfenia carinthiaca che il Wulfen rinvenne per primo il 12 luglio 1779 e che costituisce ancora oggi una preziosità della flora friulana e non solo. Ma se nel campo della esplorazione naturalistica nessun friulano emerge nel Settecento, un medico ed appassionato naturalista pordenonese, Andrea Comparetti, godette di grande prestigio presso l’Università patavina. Grande clinico, nel 1787 fu chiamato dai Riformatori dello Studio a coprire la cattedra lasciata dal celebre Dalla Bona. Il Comparetti si distinse per le idee innovative che informarono la sua riorganizzazione della didattica e soprattutto dell’assetto del nuovo ospedale patavino. La sua passione per gli studi di biologia lo portò ad affrontare indagini di carattere comparato sia in campo animale sia in quello vegetale che gli valsero gli elogi di Georges Cuvier, uno dei più influenti zoologi francesi dell’epoca. La presenza del concetto di “dinamica” nelle opere naturalistiche del Comparetti rappresenta il riflesso dei primi tentativi di quella linea di pensiero che, rifiutando un’immagine statica del mondo vivente, quella fissista di stampo linneano, individuava una forza vitale in continuo cambiamento nella complessità delle attività e delle proprietà fisiologiche degli organi, aprendo la strada alla nascita del concetto di evoluzione, quel concetto cardine della biologia dell’Ottocento che sarà alla base dell’opera di Darwin.

L’architettura

La loggia di S. Giovanni con la torre dell’orologio ai piedi del colle del Castello di Udine.

In campo architettonico la loggia udinese di Nicolò Lionello accanto a quella di S. Giovanni di Bernardino da Morcote, rappresenta un vero e proprio manifesto della presenza politica veneziana in Friuli. Il Friuli del XVII e XVIII secolo visse indubbiamente di “riflesso” rispetto alla situazione veneziana, tanto che i principali interventi si devono proprio ad autori che risiedevano in laguna e inviavano per posta i loro progetti, che quindi erano spesso slegati dal contesto locale. Durante tutto il Sei e Settecento furono davvero esigue le iniziative architettoniche di origine pubblica, volute da Venezia: fra esse merita di essere ricordato almeno il progetto Palmanova, dove i proti veneziani costruirono le tre porte, su progetto del vicentino Vincenzo Scamozzi (1552-1616), e il duomo.
Maggiore sviluppo ebbe invece nel Seicento l’edilizia privata, con la sistemazione – nei centri maggiori – dei palazzi delle famiglie di più antica nobiltà e la loro costruzione ex-novo per quelle di più recente promozione aristocratica, dotate di cospicui mezzi finanziari. Così, Udine, Pordenone e Gorizia si arricchirono di una fitta teoria di edifici che ancora oggi adornano le principali vie cittadine. A Udine si diffuse un modello architettonico caratterizzato da facciate che presentano un portale, spesso di aspetto piuttosto rustico (con ampio uso del bugnato), sormontato da una polifora (soprattutto la cosiddetta “serliana”, prediletta da Palladio e dai suoi seguaci) con balaustrino. A Pordenone è lungo via Vittorio Emanuele che si sono concentrate, fin dal XV secolo, e soprattutto nei due secoli successivi, le dimore più prestigiose, producendo così una piacevole alternanza di stili architettonici, accomunati dalla presenza dei portici, sotto cui scorre la vita cittadina, e sopra i quali ricercate balaustrine si affacciano sulla strada. Oltre ai palazzi urbani, dal tardo Cinquecento la nobiltà friulana cominciò a edificare un gran numero di residenze anche in campagna, facendo propri gli stili di vita dell’aristocrazia veneta, e rispondendo all’esigenza di seguire più da vicino le proprietà agricole e le loro produzioni. Fu nel XVII secolo e in quello seguente che le ville friulane conobbero il momento di maggiore splendore (non sempre è possibile determinare con precisione la loro datazione), offrendo una serie di edifici di notevole valore, accomunati da alcune caratteristiche tipologiche di ascendenza palladiana, come il corpo centrale cubico, dotato di una facciata generalmente semplice e ritmata da aperture, all’interno di un ampio salone centrale, cui si affiancano o addossano degli ambienti di servizio (le barchesse), che sovente racchiudono una cappella. Fra tutte villa Manin di Passariano è senza dubbio quella di maggior prestigio e fama, la cui scenografica maestosità è conosciuta e apprezzata in tutto il mondo, emblematica rappresentante della grande “ci­vil­tà” delle ville venete. Ad essa nel 1707 Domenico Rossi (1657-1737), allievo di Baldassare Longhena, aggiunse la geniale soluzione dell’esedra a forma di ferro di cavallo, a richiamare il colonnato del Bernini per S. Pietro, che si raccorda con il nucleo principale attraverso dei portali. Da tale intuizione progettuale nacque un insieme che trasformò una parte della pianura friulana in una scenografia barocca degna dei maggiori complessi monumentali europei. A Domenico Rossi sono legate diverse realizzazioni in Udine, quali la sistemazione del palazzo Patriarcale, la riforma del presbiterio del duomo, la cappella Manin, il cui raffinato insieme architettonico è completato da uno splendido ciclo scultoreo del Torretti. Né mancano testimonianze della sua presenza a Pordenone, dove si possono ancora ammirare l’interno del duomo o palazzo Gregoris, espressione di una robustezza plastica che deriva dalla lezione veneziana del Longhena. Tra le opere superstiti anche il duomo di San Daniele (1707-25), con una facciata d’ispirazione palladiana (che ricorda S. Stae a Venezia). Un altro grande architetto, Giorgio Massari (1686 circa-1766), tra i maggiori del suo tempo, lasciò in Friuli opere di grande rilievo, il cui esempio si è riverberato a lungo sull’arte locale (basti pensare alla facciata della chiesa di S. Antonio abate a Udine).
Nel goriziano operò soprattutto l’austriaco Christoph Tausch (1673-1731), gesuita allievo a Roma di Andrea Pozzo, fautore – fra il 1721 e il 1723 – della facciata di S. Ignazio a Gorizia, la chiesa dei gesuiti, dove egli fuse la ricerca dell’effetto chiaroscurale, tipicamente romana, con suggestioni derivate dalle tradizioni nordiche, nelle due torri campanarie con copertura in rame a forma di cipolla. All’interno ne affrescò il coro, con effetti illusionistici e prospettici. Ma certamente chi lasciò il maggiore segno nella Gorizia del Settecento fu Nicolò Pacassi (1716-1790), il quale visse a Vienna – sotto la protezione della potente famiglia Attems –, dove ebbe il prestigioso incarico di architetto di corte (conferitogli nel 1760). Per il capoluogo isontino Pacassi progettò la fontana del Nettuno (1756) e di Ercole (1775), di fronte a S. Ignazio, i palazzi Attems-Santacroce (del 1740, ora Municipio, con pesanti modifiche ottocentesche), Attems-Petzenstein (1745, attualmente sede dei Musei provinciali) e Attems-Petzenstein a Piedimonte/Podgora (distrutto). Si tratta di costruzioni eleganti, dallo sviluppo maestoso, in cui le scenografiche raffinatezze rococò si sposano a un classicismo che, forse, affonda le sue radici nella cosiddetta scuola di Fontainebleau, il cui stile aveva avuto largo seguito nella capitale dell’Impero.

La musica

Angeli cantori che reggono nelle loro mani uno spartito musicale, affresco di Giambattista Tiepolo (Udine, duomo).

Per quanto riguarda la musica, l’avvento della dominazione veneta non rappresentò per il Friuli una rottura con il passato. Da rilevare innanzitutto è la presenza di maestri franco-fiamminghi: il secolo infatti si apre con Nicolò da Liegi, cantore e compositore a Cividale, e si chiude con Guglielmo Morescot (Marescotti), dal 1480 mansionario e copista presso la basilica di Aquileia, e successivamente, dal 1486 alla morte nel 1496, maestro di cappella. Accanto ai fiamminghi altre presenze significative sono quelle di maestri provenienti da diverse regioni italiane, che toccarono le nostre terre portandovi nuove conoscenze teoriche e aggiornate tecniche contrappuntistiche: tra questi Cristoforo da Feltre o «de Monte», prete, cantore, compositore, mansionario negli anni Trenta del Quattrocento presso la cattedrale di Udine, che si trovò a collaborare con pre Nicolò da Capua, trattatista musicale e compositore, pre Natale organista (e forse pure compositore), «Andrea cantor» e «Leone organista». Lungo il secolo le cappelle musicali delle cattedrali e delle chiese collegiate furono dotate gradualmente di maggiori risorse materiali e acquisirono compiti sempre più precisi, aumentando il numero dei cantori e inserendo nell’organico un organista e più tardi alcuni strumentisti. Si trattava perlopiù di preti mansionari, il cui numero variava caso per caso a seconda del luogo, dei tempi e delle disponibilità economiche delle singole chiese, i quali dovevano conoscere il “cantus planus” (la monodia gregoriana) ed essere abili nel canto mensurale, ovvero polifonico, per accedere al beneficio. Queste istituzioni e le “scholae” ad esse annesse, in diversi casi controllate e sostenute per diritto di giuspatronato dalle comunità civili quali Udine, Gemona, Pordenone o da signori feudali come gli Spilimbergo, i Valvasone, i Porcia, ebbero fino al XVIII secolo un ruolo fondamentale ed insostituibile nella promozione e nello sviluppo dell’attività musicale in Friuli, ove mancò il mecenatismo di grandi corti principesche paragonabili a quelle degli Sforza, degli Este, dei Gonzaga, dei Medici, degli Aragonesi e le risorse messe in campo dalla committenza civile e dalle principali famiglie comitali friulane, pur importanti, mancarono di continuità e furono alquanto modeste e senza grandi ricadute nel territorio. Alla guida delle cappelle musicali era posto il “cantor” (prevalentemente, ma non sempre, un ecclesiastico), in seguito chiamato maestro di cappella o “magister chori”, responsabile primo dell’istruzione musicale di preti, laici e “zaghi” (fanciulli cantori), delle esecuzioni musicali all’interno dei riti liturgici, del reperimento delle composizioni necessarie, fossero proprie o di altri compositori. La provenienza di questi maestri variò molto tra Quattrocento e Settecento: dopo la stagione dei franco-fiamminghi conclusasi sostanzialmente nella prima metà del XVI secolo, friulani e veneti si alternarono spesso, ma non mancarono musicisti provenienti da altre parti della penisola (Bergamo, Brescia, Monza, Lodi, Mantova, Parma, Ferrara, Bologna, Cesena, Pistoia, Lucca, Siena, Pesaro, Urbino, Ancona, Roma, Napoli, Capua, Taranto, Bisaccia). L’avvicendamento alla guida di queste istituzioni fu generalmente piuttosto rapido (il caso del fiammingo Giovanni Bayli che diresse la cappella di Udine per quasi quarant’anni è assolutamente eccezionale) dal momento che Venezia da una parte e le corti dell’Europa centrale dall’altra (non solo quelle asburgiche, ma anche quelle bavaresi, tedesche, polacche e danesi) erano poli di attrazione molto allettanti per chi mirava a progredire nella carriera e a cospicui miglioramenti economici.
All’interno di queste cappelle e delle “scholae” ad esse annesse si trasmise il sapere musicale e si formarono diverse generazioni di musicisti e di compositori attivi poi sia in ambito sacro sia profano: molti maestri di cappella si dedicarono più alla composizione di forme musicali “profane”, quali ad esempio i madrigali, che alla composizione di musiche destinate al servizio liturgico. Il periodo più intenso e significativo di queste istituzioni – tra le quali si distinsero maggiormente quelle di Udine, Cividale, Aquileia, San Daniele del Friuli, Palmanova, Tolmezzo, Gemona, Pordenone, Concordia, Sacile, Spilimbergo, Valvasone, San Vito al Tagliamento, Go­ri­zia – si ebbe indubbiamente nel Cinquecento e nella prima metà del Seicento, ma anche oltre vi furono musicisti di grande valore e momenti particolarmente intensi dal punto di vista artistico (come durante il magistero del veneziano Bartolomeo Cordans in duomo a Udine tra il 1735 e il 1757). Dalla seconda metà del XVII secolo il diffondersi del teatro musicale aprì gradualmente la strada a nuove opportunità per i musicisti, nonostante mancassero in loco compagnie stabili in grado di dare piena e continua occupazione (ancora un secolo più tardi la celebre cantante Adriana Augusta Ferrarese, nativa di Valvasone e formatasi probabilmente a Udine, dovette costruire la sua carriera fuori dal Friuli).
Per quanto riguarda gli strumenti, va detto che nel corso del Quattrocento diverse chiese si dotarono di organi, nuovi o in sostituzione dei primi strumenti trecenteschi, opera di maestri come Giorgio d’Alemagna attivo a Tolmezzo e Gemona, Antonio Dilmani a Sacile, Marco del fu Nicolò da Venzone a San Daniele, Pietro Albus a San Daniele, Gemona e Tolmezzo. Questa tradizione organaria conobbe uno straordinario sviluppo nei tre secoli seguenti, tanto che frotte di artigiani, molti dei quali locali, percorsero in lungo e in largo il Friuli per costruire nuovi strumenti o acconciare quelli già esistenti. Il quadro non si presenta altrettanto vivace per quanto riguarda la costruzione di altri tipi di strumenti musicali, anche se non mancano esempi notevoli di costruttori di virginali, come Antonio Monsutto attivo a Udine nella seconda metà del Seicento, o di liutai, come gli udinesi Francesco Gobetti e Santo Serafino e il goriziano Francesco Pilosio.
Allo sviluppo e alla diffusione della musica strumentale un notevole contributo venne dalle compagnie di suonatori (comprendenti, in proporzioni variabili nei diversi periodi di sviluppo, bombarde, cornamuse, trombe, tromboni, cornetti, cialamelli, flauti dolci, tamburi di varia foggia) che diverse comunità del Friuli come Cividale, Gemona, Latisana, Spilimbergo, Por­cia, Udine e Gorizia, ebbero al loro servizio, a partire dal XIV-XV secolo, per scandire i più importanti momenti della vita pubblica, per concerti ed esecuzioni pubbliche nelle piazze e, dal XVI secolo almeno, anche per solennizzare i riti liturgici dentro o fuori le chiese. Su tutte la più importante e longeva fu la compagnia di Udine, vera e propria fucina di nuovi talenti, che giustamente un cancelliere comunale nel 1592 non esitò a definire «seminario, dal quale soleva ogni altro dì sorgere alcuna novella pianta per dovere a suo tempo dare in quella professione que’ dolci frutti, che sono hoggi tanto stimati, et apprezzati da tutti i principi de l’Europa».

Tra Venezia e gli Asburgo

La partenza dei rampolli di Strassoldo per il liceo dei gesuiti di Gorizia, particolare da un dipinto settecentesco (collezione privata).

Come si vede da questi rapidi cenni alle scienze, alle arti figurative e alla musica, e come meglio si vedrà nel saggio di Claudio Griggio dedicato alla civiltà letteraria, qualsiasi tentativo di valutazione critica sulla cultura di questi secoli non può partire da un preconcetto ideologico, ma deve fondarsi sulla “realtà effettuale” che questo dizionario si propone di ricostruire. Forse le valutazioni critiche su quattro secoli di storia del Friuli e in particolare sulla dominazione veneziana, che si estendeva su gran parte del territorio, anziché contrapporsi una all’altra mettono in luce varie sfaccettature di un’unica realtà. Se è indubbio che la conquista veneziana interruppe un processo di autonomia politica avviato da diversi secoli, sul piano culturale e forse anche su quello linguistico il giudizio è indubbiamente più complesso e articolato. La ricerca di un’identità culturale del Friuli, che ha nella storia e nella lingua le sue radici più profonde, non può ignorare che i protagonisti di questo periodo (letterati, giuristi, storici, ecclesiastici, artigiani, artisti, musicisti, scienziati, imprenditori) ricevettero la loro linfa vitale in modo diretto o indiretto dalle correnti più significative della cultura e dell’arte italiana ed europea in cui erano immersi. Fondamentale, a questo proposito, fu la rete di scuole diffusa sul territorio e sostenuta dai Comuni, che proponeva contenuti e metodi di insegnamento comuni a una vasta area geografica. Senza entrare nel merito dei testi latini o greci che si leggevano in queste scuole, è qui sufficiente ricordare la grande mobilità dei maestri di grammatica e di retorica che si trasferivano in via ordinaria da una città all’altra dell’Italia nordorientale o da una sponda all’altra dell’Adriatico. Ognuna di queste città era in grado di offrire un livello omogeneo di preparazione, che facilitava tra l’altro l’ingresso delle giovani matricole nelle università. A riprova di questa comune civiltà letteraria si pensi ai legami di Guarnerio d’Artegna con i circoli umanistici di Venezia, Roma e Firenze nel pieno Quattrocento o alla corrispondenza con Ludovico Antonio Muratori dei grandi eruditi settecenteschi, quali Giuseppe Bini, Francesco Beretta, Gi­ro­lamo de Rinaldis, Gian Giuseppe Liruti, Bernardo M. de Rubeis.
Si tratta di rapporti e corrispondenze che non sembrano condizionati dall’esile linea di confine che separa Venezia dagli Asburgo: il goriziano Sigismondo d’Attems per completare la sua preparazione era stato inviato dalla madre, una Coronini Cronberg, nel collegio dei nobili di Modena, dove ebbe occasione di conoscere il Muratori e di stringere amicizia con Scipione Maffei. Dopo Sigismondo, anche i suoi fratelli Lodovico e Carlo Michele (divenuto in seguito primo arcivescovo di Gorizia), entrarono nello stesso collegio. Qui aveva appena terminato il suo corso di studi Sigismondo, che si era trasferito a Salisburgo per seguire gli studi giuridici. Pare che la scelta di Modena per l’educazione dei tre fratelli Attems fosse divenuta un fatto di moda tra Seicento e inizi del secolo successivo per i rampolli delle famiglie nobili di area friulana e triestina. Vi erano passati i figli dei Colloredo, Pers, Manin, Spi­limbergo, Valvasone, Porcia; da Trieste avevano scelto Modena, per l’educazione dei figli, i Petazzi e i Brigido.

L’Illuminismo

Né di sola accademia o di problemi antiquari si tratta, allorquando cominciarono ad affacciarsi più o meno timidamente anche in Friuli le nuove idee dell’Illu­minismo veicolate dai viaggiatori e soprattutto dai libri, la circolazione dei quali era impossibile rallentare o sopprimere. Aperto alla cultura francese, all’illuminismo, all’esperienza contemporanea fu il salotto di una donna udinese di fine Settecento, Lavinia Dragoni Florio, che attrasse l’aristocrazia colta e i principali intellettuali del periodo. In pieno secolo dei lumi molti borghesi, nobili ed ecclesiastici, fra i quali Fabio Asquini, Pietro Someda, Daniele Florio, Antonio di Monte­gnacco, Gian Giu­seppe Liruti, condivisero gli stessi interessi culturali con l’economista Antonio Zanon, che si era fatto in particolare promotore e divulgatore di idee di rinnovamento economico ed agronomico. Lo Zanon, che aveva maturato il suo pensiero sui testi della nuova cultura europea (francese e inglese soprattutto), poneva al centro della sua riflessione l’economia finalizzata alla comune utilità e alla pubblica felicità. A questo scopo egli proponeva di istituire accademie agrarie e cattedre di commercio. Le accademie, alle quali pensava, ripresero nuova vita anche in Friuli: forme associative espresse dal mondo civile per dibattere «gli argomenti più utili alla società e che soli possono formare la potenza e la ricchezza degli stati e l’umana felicità». A titolo di esemplificazione lo stesso Zanon segnalava tra i personaggi che meglio di altri contribuirono allo sviluppo economico e culturale del Friuli nel Settecento la figura del carnico Iacopo Linussio: «[…] non vi fu mai né nel Friuli, né nella Carnia un’impresa meglio formata, o condotta con maggiore coraggio, fermezza ed abilità di quella del signor Iacopo Linussio, il quale in pochi anni stabilì la più grande manifattura in tele che sia in Europa, tanto in riguardo all’ampiezza e magnificenza delle fabbriche, quanto alla qualità del prodotto: uscendo ciascun anno da essa circa quarantamila pezze di tele di vari e vaghi lavori, ricercate da tutta l’Italia e dalla Spagna».

Non sembri arbitrario aver chiuso questo breve percorso introduttivo con un riferimento ad Antonio Zanon, mercante e scrittore. Nel 1760 lo Zanon leggendo la sua Prolusione davanti all’Accademia di Udine, che lo aveva nominato socio, affrontava il rapporto tra mercante e filosofo, uniti nella ricerca di un utile comune e di una pubblica felicità: in questo obiettivo condiviso anche il mercante “onorato” e “civile” avrebbe trovato una sua collocazione. Lo stesso anno vedeva la luce a Venezia il primo volume di Gian Giuseppe Liruti sulle Vite ed opere scritte da’ letterati del Friuli, finanziato dallo stesso Zanon, «che le volle generosamente pubblicare con quel decoro, e con quegli ornamenti, che gli furono suggeriti dal suo cuore magnanimo». Il Liruti nella Prefazione della sua opera avrebbe voluto aggiungere qualcosa di più a queste parole, augurandosi che «forse altri un giorno» supplissero a queste omissioni e alle «moltissime cose che vi mancano». Ora anche lo Zanon è ampiamente ricordato e insieme con lui circa un migliaio di altri personaggi che hanno contribuito a definire la fisionomia culturale del Friuli durante i secoli della dominazione veneziana. Anche se questa nuova fatica non sarà sempre all’altezza del compito che il progetto si era prefissato, i curatori di questi volumi sono tuttora convinti che per la quantità dei dati raccolti e per le competenze scientifiche messe in campo dai collaboratori, le pagine che seguono contribuiranno in modo significativo alla ricostruzione di quattro secoli di storia culturale del Friuli.

Cesare Scalon

Qui di seguito si danno solo alcuni riferimenti bibliografici essenziali di carattere generale:

P.S. Leicht, Studi di storia friulana, Udine, Società filologica friulana, 1955; Marchetti, Friuli; Paschini, Storia, 19904; C.T. Altan, Udine in Friuli, Udine, Casamassima, 1982; Venezia e il Friuli. Problemi storiografici, a cura di A. Tagliaferri, Milano, Giuffrè, 1982 (Istituto di storia dell’Università di Udine, Serie monografica di Storia moderna e contemporanea, 2); Pellegrini, Tra lingua e letteratura; L. Lago – C. Rossit, La Patria del Friuli ed i territori finitimi nella cartografia antica sino a tutto il secolo XVIII, I, I documenti premaginiani; II, Il seicento e il settecento, Trieste, Lint, 1988; C. Scalon, La formazione del concetto di «Patria del Friuli»: un contributo al dibattito sull’identità friulana, «Atti dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Udine», 84 (1991), 175-193; G.C. Menis, Storia del Friuli, Udine, Società filologica friulana, 19969; G. Trebbi, Il Friuli dal 1420 al 1797. La storia politica e sociale, Udine, Casamassima, 1998; Patriarchi. Quindici secoli di civiltà fra l’Adriatico e l’Europa Centrale, a cura di S. Tavano – G. Bergamini, Milano, Skira, 2000; P.S. Leicht, Storia del Friuli, Udine, La biblioteca del “Messaggero Veneto”, 2003 (= Udine, Libreria editrice “Aquileia”, 1970); Tavano, Gorizia: Friuli e non Friuli; G. Francescato – F. Salimbeni, Storia, lingua e società in Friuli, Roma, il Calamo, 2004 (Lingue, culture e testi, 9).

Civiltà letteraria del Friuli*

Siede la patria mia tra il monte, e ’l mare,
 quasi theatro, ch’abbia fatto l’arte,
 non la natura, a’ risguardanti appare,
 e ’l Tagliamento l’interseca, et parte:
 s’apre un bel piano, ove si possa entrare,
 tra ’l merigge, et l’occaso, e in questa parte
 quanto aperto ne lassa il mar, e ’l monte
 chiude Liquenza con perpetuo fonte.

Erasmo di Valvasone

 

* La presente introduzione, lungi da qualsiasi ambizione di completezza o di
organica trattazione, si propone di tentare una prima sistemazione di autori e
di temi che sembrano riflettere un frammentismo culturale e una polivalenza
linguistico-letteraria difficili da ricondurre a una visione d’insieme. Si spera di
offrire dei punti di riferimento aggreganti, quali sono stati indotti dalla analisi
e dalla combinazione dei singoli pezzi biografici, e delle mappe orientative per
il lettore o lo studioso, in un “paesaggio” storico variabile e distinto in rapporto
allo spazio e alla geografia, oltre che al tempo.

Ad intendere la svolta storica del 1420 che segnò l’avvento ufficiale della Repubblica di Venezia in Friuli e il dischiudersi dell’età veneziana fino al 1797, giova riandare indietro di qualche decennio nel tempo, al 1368. In quell’anno a Udine l’imperatore Carlo IV di Lussem­burgo fu accolto, in occasione della seconda discesa in Italia, con grandi onori il 27 aprile, facendo il suo ingresso da Porta Aquileia. Tenne un vertice con i suoi principali alleati secondo il programma preparato dal fidato Marquardo di Randeck, patriarca di Aquileia dal 1365. Insieme con la delegazione dei Carraresi era presente anche Francesco Petrarca, legato all’imperatore da antica stima e devozione. Venezia in quella vicenda era rappresentata da una delegazione di ambasciatori in una posizione defilata, benché la lenta marcia di espansione politica e culturale verso la terra del Friuli fosse iniziata. Poco dopo i Veneziani cominciarono a dare non pochi problemi al patriarca Marquardo e, in seguito alla sua morte il 3 gennaio del 1381, proseguirono spediti nella politica di assimilazione del Friuli, agendo soprattutto su Udine e facendo leva sulla fedeltà filoveneziana di Tristano e Francesco Savorgnan. I Savorgnan entrarono nel Maggior consiglio della Serenissima nel 1385. Dal 1411 la Repubblica di Venezia aveva intensificato il sistema delle pattuizioni con i feudatari del Friuli Occi­dentale, indice da un lato della frantumazione politica e amministrativa del Friuli, dall’altro della risoluta volontà di Venezia di assicurarsi il controllo di un’area di grande importanza strategico economica, «all’incrocio tra aree politiche e culturali diverse» come hanno sottolineato nei loro studi Gherardo Ortalli, John Easton Law, Dieter Girgensohn e Gino Benzoni. Il procedimento, prima militare e poi politico, consentiva a Venezia di accrescere il dominio per accumulazione di realtà distinte, nelle quali si lasciavano sopravvivere antiche autonomie, conciliandole con le esigenze di dedizione al «mutato ordine politico». Il resto fu opera dei Friulani e delle loro discordie, come ebbe ad osservare Pio Paschini con misurata amarezza alla fine di uno dei capitoli più densi della sua Storia del Friuli dal titolo la Fine dello stato patriarcale. Con tutto questo Venezia legava a sé il Friuli, considerandolo un territorio necessario alla sua sicurezza. Guardando da un altro punto di vista, si potrebbe dire che dopo parecchi secoli e rivolgimenti della storia tornavano i discendenti dei profughi di Aquileia che fondarono Venezia, fuggendo dal «furore di Attila».

Molti patriarchi di Aquileia furono espressi da grandi famiglie veneziane: pensiamo a Marco Barbo, 1420-1491, patriarca dal 1471, ai Grimani (Domenico, 1461-1523, patriarca dal 1497, cardinale di S. Marco dal 1503, figura di mecenate di altissimo prestigio; Marino, 1488-1546, patriarca nel 1517 e cardinale nel 1528; Giovanni, 1506-1593, nipote di Domenico, che scelse come vicario Giovanni Maracco per alleggerire i sospetti su di sè di eresia), ai Barbaro (Ermolao il Giovane, diplomatico sottile e uno dei massimi interpreti di Aristotele, perseguitato dalla madrepatria per avere accettato la nomina a patriarca dal papa Innocenzo VIII il 6 marzo 1491 senza l’approvazione di Venezia, che lo destituì da ambasciatore; Daniele, 1514-1570, classica figura del Rinascimento veneziano, editore delle opere di Ermolao il Giovane e dei padri della Chiesa; Francesco, 1546-1616, personalità carismatica per le istituzioni ecclesiastiche del Friuli nello spirito dei dettami tridentini, capace di porsi contro Venezia e il Sarpi nella crisi dell’Interdetto e di riconoscere il friulano come lingua della diocesi; Ermolao II, 1548-1622, che subentrò a Francesco nel 1616), ai Dolfin dinastia di protettori delle arti e bibliofili (Giovanni, 1617-1699, patriarca dal 1657, autore ap­prez­zato di tragedie e accademico della Crusca; Dio­ni­sio, 1663-1734, patriarca dal 1699, chiamò a Udine il gio­vane Tiepolo; Daniele, 1688-1762, patriarca dal 1734): tutti esponenti di famiglie patrizie che passarono dalla carriera politica a quella ecclesiastica per controllare il Patriarcato e si distinsero spesso per la loro sensibilità culturale. In questo quadro dei mutati rapporti politici e giurisdizionali del Patriarcato di Aquileia con la Re­pubblica, assume peso e rilievo l’attività del servita Paolo Sarpi, quale è delineata ora da Pasquale Guaragnella. A parte le osservazioni sul carattere “friulano” del frate, la sua riservatezza, una certa pensosità, l’inclinazione al silenzio e un «senso ‘stoico’ del dovere» – tutti caratteri contrastanti con la natura aggressiva del padre, originario di San Vito, descritta dal biografo F. Micanzio –, sono interessantissime le considerazioni che mettono in luce il Sarpi conoscitore della Patria del Friuli e la saldezza metodologica del «consultore in iure della Repubblica», oggetto degli studi di Corrado Pin. Col Trattato sulle giurisdizioni del Friuli e con le sue ricerche d’archivio sistematiche, il Sarpi «incitava» la Repubblica a ristabilire la sovranità e i diritti «intaccati dai patriarchi», fino a venire in dura polemica con Francesco Barbaro e Giovanni Grimani. Non solo, ma l’intento principale del Trattato resta quello di dimostrare che i «più pericolosi avversari non solo di Venezia, ma di ogni stato, sono gli ecclesiastici».

L’influenza culturale di Venezia, e più in generale del Veneto col suo Ateneo patavino, sulla cultura friulana – moderata se non debole nei secoli XIII e XIV –, si andò progressivamente potenziando in concomitanza con la crescente rinascita degli studia humanitatis e dei classici sul finire del secolo XIV, al punto che – come ebbe a riconoscere Giuseppe Marchetti – proprio «per il tramite di Venezia la ventata dell’Umanesimo italiano raggiunse prontamente il Friuli». Il Friuli con le sue buone scuole pubbliche di grammatica e di retorica era discretamente preparato ad accogliere le novità del nascente movimento umanistico e per antica tradizione, dai tempi di Pileo di Prata, guardò a Padova come sede canonica e quasi obbligata per la prosecuzione degli studi superiori, che gli studenti della “Nazione” friulana tendevano a compiere nell’intero corso accademico. Appare, ad esempio, singolare il caso dell’udinese Giovanni Baldana, che si licenziò nell’Università di Pavia, città d’origine della sua famiglia, nel 1425 e si addottorò in ritardo nel 1427. D’altra parte questa sezione del Nuovo Liruti, che andiamo presentando, propone anche una serie di personalità di origine friulana che assimilarono il nuovo modello di studi o svolsero professione letteraria al di fuori del Friuli, ad esempio nell’ambiente accademico-curiale romano.

Sul versante del volgare, è bene ribadirlo, non vi sono state testimonianze di rilievo della fortuna in Friuli di quei modelli letterari illustri, che, invece, avevano goduto di diffusione e di forme di imitazione nel vicino Veneto. Solo a partire dalla seconda metà del Trecento affiorano episodi di interesse per la trascrizione di componimenti poetici italianeggianti nei registri dei notai, per esempio, sullo sfondo di un incontro tra tradizione poetica italiana e nascente poesia friulana. La cosa che stupisce in questo quadro povero di elementi è il fatto che nel tessuto linguistico culturale del Friuli non sono rimaste tracce evidenti del volgare toscano trecentesco, nonostante la fitta presenza di Toscani, le loro frequenti migrazioni e ramificazioni sul territorio.

Le biblioteche religiose in Udine dei domenicani di S. Pietro Martire e dei minori osservanti di S. Francesco della Vigna possedevano, in ogni caso, importanti patrimoni librari, che includevano anche testi di devozione in prosa volgare del Trecento e del Quattrocento o volgarizzamenti di scritti ascetici che fungevano da veicolo dell’italiano.
Senza dubbio la vera grande novità culturale del Friuli quattrocentesco è costituita dalla Biblioteca Guar­ne­riana di San Daniele del Friuli. è una realtà di alto valore umanistico librario, nonché architettonico, di cui si è avuto coscienza scientifica piena sull’onda del movimento di rinascita, che ha percorso il Friuli uscito dal terremoto del 1976, ed ha portato alla riscoperta, su basi paleografiche codicologiche e filologiche nuove, dell’immenso patrimonio rappresentato dalla Guarneriana. La sua ideazione, la formazione e la conservazione si realizzarono in circostanze irripetibili e di densa sperimentazione in collegamento con le realtà politiche, scientifiche e culturali veneziane. Fu allestita da Guarnerio d’Arte­gna (1410 circa-1466), vicario patriarcale, che fece maturare germi culturali gettati nelle scuole dei centri del Friuli tra fine Trecento e Quattrocento, innestandoli nella nuova cultura umanistico-classica. I presagi neo-umanistici, dei quali non si può ignorare il peso nella prospettiva della Guarneriana, di cui si dirà meglio oltre, sono individuabili nell’affioramento di segnali di attenzione per alcune opere latine del Petrarca e del Boccaccio.

Michele da Rabatta, di famiglia originaria del Mugello, la stessa di Forese da Rabatta protagonista con Giotto della novella VI 5 del Decameron, trasferitasi a Udine agli inizi del Trecento, fu ambasciatore dei Carraresi, maresciallo e vicedomino della Patria dal 1394 al 1395. I suoi interessi per il Petrarca sono documentati in Friuli dalla richiesta rivolta qualche tempo prima del 1408 al nipote Bernardo da Rabatta, canonico aquileiese, di procurargli un codice del De vita solitaria. Inoltre risulta che fosse in circolazione un manoscritto delle Variae di Cassiodoro, opera ben nota a Petrarca fin dagli anni giovanili, della quale oggi resta un frammento in cui sono individuabili delle postille di ascendenza petrarchesca. Ma più rilevante fu l’insegnamento a Udine di Giovanni Conversini da Ravenna, sul quale si può vedere la precisa voce di Letizia Leoncini compresa nel volume primo del Nuovo Liruti. Il Conversini può essere considerato uno degli ambasciatori del magistero preumanistico del Petrarca e del Boccaccio, non solo, ma grazie all’eredità del padre Conversino del Frignano venne in possesso di codici provenienti dalla biblioteca napoletana di Roberto d’Angiò. Tuttavia, la sua permanenza nel Friuli fu troppo breve, come ha rilevato Vittoria Masutti, «per permettere un significativo riscontro locale e un sensibile rinnovamento culturale», che sarebbe giunto, a nostro modo di vedere, proprio con Guarnerio d’Artegna. Discorso simile credo si possa fare, sul versante del volgare, per il padovano Domizio Broccardi (1390?-dopo 1457), imparentato con i Savorgnan e presente a Udine come capitano della città dal 1421 al 1422, per un periodo troppo breve per far sentire benefici influssi della sua produzione, ricca di suggestioni petrarchesche fin dal titolo del suo canzoniere Domitii Brocardi Patavini vulgaria fragmenta e soffusa di una malinconia elegiaca, come è stato ben sottolineato da Antonio Carlini.
Altro precursore della nuova età umanistica può essere considerato Antonio Pancera (1360-1431), dapprima impiegato presso la Curia papale e poi patriarca d’Aquileia. Teneva presso di sé un codice che è un Florilegio delle Familiari del Petrarca (Guarneriano 138) e allestì un importante Epistolario che meriterebbe uno studio particolareggiato (Guarneriano 220).
All’altezza del 1429 nella biblioteca di Giovanni da Amaro, maestro di grammatica e di retorica a Cividale, erano presenti opere latine del Petrarca quali il Bucolicum carmen, il De vita solitaria e il De sui ipsius et multorum ignorantia. Nella seconda metà del Quattrocento (1475) nella biblioteca di Palazzino da Palazzolo facevano la loro comparsa la De Terencii vita e l’Africa. Molto flebili gli echi petrarcheschi dai Rerum vulgarium fragmenta e dai Trionfi. Sono rintracciabili in una Lamentatio in ottava di Gentile Belloli da Ravenna, che insegnò a Cividale dal 1397 al 1403. è una rara testimonianza di cultura letteraria e linguistica in volgare di impronta settentrionale, intessuta di tenui riflessi danteschi e forse appunto petrarcheschi. Nella prima metà del Quattro­cento non abbiamo incontrato testimonianze rilevanti dell’opera in volgare del Petrarca, almeno fino al 1456, quando nel primo inventario dei manoscritti della Guarneriana compare un codice registrato de «Li soneti del Petrarca», sul quale, purtroppo, non si hanno successivi riscontri. Il crescente interesse per il Petrarca e la tradizione petrarchesca sarà più evidente nella seconda metà del Quattrocento, allorché, ad esempio, è rintracciabile una nota di acquisto nella bottega dello stampatore e libraio Gerardo da Lysa di libri dei Rerum vulgarium fragmenta e dei Trionfi nel 1488 da parte di An­tonio Altan, personalità vicina a Giordano Orsini, rappresentante del papa insieme con il Traversari nel Concilio di Basilea, vescovo di Urbino e nunzio pontificio in Scozia. Antonio Altan è il committente degli affreschi del palazzo di famiglia a San Vito al Tagliamento, illustrati da scene ispirate al tema dantesco della monacazione di Costanza d’Altavilla e a figure del De mulieribus claris del Boccaccio, come ha fatto vedere nei suoi studi Enrica Cozzi. A questa famosa famiglia appartennero Antonio Altan (1505-1570) poeta, seguace del Bembo, vissuto appartato e incline alla riflessione religiosa, Enrico Altan il Vecchio (1570-1648) autore di commedie rappresentate in tutta Italia, Enrico Altan il Giovane (1653-1738) buon conoscitore dei classici, Federico Altan studente nel collegio di Anton Lazzaro Moro e collaboratore della Raccolta del Calogerà con importanti Memorie e biografie.
Anche nel caso del Boccaccio le tracce e i rivoli della fortuna delle sue opere si rivelano molto frammentate e insufficienti, almeno alla luce dei dati disponibili, a ricomporre un ordito che abbia un minimo di omogeneità e di coesione. Sorprende, per esempio, l’assenza di qualsiasi documentazione di circolazione del De casibus virorum illustrium, che contiene una delle vicende più impressionanti e travolgenti, ricostruita con intento morale dalla genialità narrativa del Boccaccio latino. Ci riferiamo al racconto De Romulda Foroiulianorum ducissa (IX 3), attinto dalla Historia Langobardorum (IV 37) di Paolo Diacono, rielaborato dal Boccaccio a tinte fosche e drammatiche che sembrano anticipare, come ha osservato Vittore Branca in una recensione al De casibus del 1983, «la grandiosa atrocità di certo teatro elisabettiano». Un secolo dopo l’argomento fu ripreso a Cividale da Nicolò Canussio nel suo De restitutione Patriae con un ulteriore pronunciamento di condanna di Romilda, la quale tradì il marito Gisulfo con il giovane conquistatore Catano, re degli Avari, di cui la donna si era invaghita. Sul «tragico amore» di Romilda indugiò lo storiografo Gian Giacomo Ischia (1678) e scrisse una tragedia pubblicata nel 1699 il nominato Enrico Altan il Giovane; l’argomento era troppo “impetuoso” per sfuggire alla serie di «curiosità» raccontate da Giuseppe Marcotti nel suo originale libro Donne e monache del 1884. Una simpatica difesa di Romilda è stata proposta dal latinista Paolo Mantovanelli.
Abbiamo notizia che nella biblioteca di Giovanni da Amaro, sunnominato, figurava un De montibus e che in quella di Palazzino da Palazzolo, nel terzo quarto del secolo XV, doveva esserci un’opera del Boccaccio latino, non ancora identificata.

La presenza pianificata di Toscani in Friuli, impegnati nei settori dell’economia, della finanza e della diplomazia, porterebbe a prefigurare una diffusione in loco del Decameron. I mercanti toscani sono stati gli “agenti” della prima diffusione del capolavoro del Boccaccio, che, tra l’altro, a Udine ambientò la novella X 5 di Madonna Dianora e di messer Ansaldo. Nonostante la relativa vicinanza spaziale, in area friulana non avviene nulla di simile a quello che già nel 1395 avveniva nella vicinissima Conegliano, dove Domenico Caronelli esemplava un manoscritto del Decameron, oggi Vaticano Rossiano 947, e dava un saggio di capacità imitativa di passi tolti dall’Elegia di Madonna Fiammetta. Non sappiamo neppure se le opere in volgare del Boccaccio registrate in inventari delle biblioteche private della prima metà del Quattrocento, soprattutto, fossero state procurate in loco o introdotte, come è probabile, dall’esterno. Non sappiamo nulla della sorte toccata ad un «Liber centum novellarum» incluso nella biblioteca del nobile Giacomo da Valvasone (1436), ambasciatore della Patria del Friuli dal 1411, il quale mostrava interessi per la poesia volgare col possesso singolare di un «Liber compositus per Franciscum Vanocii», cioè le Rime del padovano Francesco di Vannozzo, esponente di quella poesia in volgare fiorita nelle corti padane del Trecento e ricercata, probabilmente, dalla nobiltà friulana attratta, per antica consuetudine, da testi e letture che fossero espressione della civiltà cortese-cavalleresca o, come è stata de­fi­nita dal Folena, dell’«umanesimo cavalleresco». Un «Li­ber centum novorum [sic?] Iohannis Bochatii in pa­pi­ro coopertus corio albo», un Decameron dunque, è re­gistrato nell’inventario dei libri del 1452 di Antonio del fu Tommaso da Spilimbergo, morto poco prima a Venezia.
Sono coerenti con i gusti letterari della feudalità friulana la buona diffusione del Filostrato, registrato nell’inventario dei libri di Luigi di Montegnacco (1438), del Filocolo posseduto da Rizzardo da Castello (1454) e da Luigi del fu Carlo della Torre (1454) e l’Elegia di Madonna Fiammetta posseduta da Guariento da Percoto (1456), un’opera, come è risaputo, di transizione nella produzione narrativa del Boccaccio, che in Friuli doveva trovare molto apprezzamento negli ambienti aristocratici, se ancora nell’Ottocento la sua fortuna perdurava al punto da essere tra le letture predilette, come ha mostrato Fabiana di Brazzà, da personalità assai note di esploratori in Africa: Pietro e Giacomo di Brazzà.
Si accennava sopra alla ricorrenza di echi danteschi in Gentile Belloli maestro in Cividale tra fine Trecento e inizi del Quattrocento: segni piuttosto flebili di una fortuna di Dante in Friuli tutt’altro che scontata. Un ulteriore dato, in tal senso, è rappresentato da un Dante parziale «de manu Antonii Bacillerii», Antonio Bacillieri, un copista della Commedia non altrimenti noto. Il codice faceva parte della importante biblioteca di Giacomo Giscardi d’Arpino (1407), dottore in decreti, canonico di Cividale e di Aquileia, vicario generale, “in spiritualibus” su chiamata del patriarca Antonio Caetani (1360/1365-1412) e del successore Antonio Pancera (1360-1431). La biblioteca metteva insieme libri professionali con un alto numero di “libri humanitatis” e di testi religiosi. A metà secolo (1454), nell’inventario dei libri del nobile Luigi del Torre, accanto al Filocolo del Boccaccio, ricordato sopra, figuravano le tre cantiche dantesche. La fortuna di Dante sembrerebbe, dunque, registrare un ritardo ri­spet­to a quella del Petrarca e del Boccaccio.

Ma al di là di questi rilievi, un dato nuovo è costituito dal fatto che nella complessiva riconsiderazione di tante questioni sollecitate dal nuovo dizionario, ora possiamo sostenere, con quasi certezza, che dei cinque codici della Commedia di Dante studiati da Antonio Fiammazzo, ritenuti tutti per formazione scrittoria esterni al Friuli, uno è stato scritto, appena oltre metà del Quattrocento, a Cividale del Friuli. è il caso di ricordarli: il manoscritto Bartoliniano 50, membranaceo del secolo XIV, manomesso da Quirico Viviani che voleva avvalorare la derivazione nientemeno che dall’autografo della Commedia e in tal modo sostenere la leggenda, nata da un fraintendimento di Giovanni Candido nel 1521, di un soggiorno di Dante in Friuli, a Tolmino; il codice della biblioteca dei conti Florio, ora conservato a Persereano (Pavia di Udine), presso il professore Attilio Maseri, membranaceo del secolo XV ineunte, descritto da ultimo da Cesare Scalon; il codice della Biblioteca Torriani, un «cartaceo del 1300», secondo il Fiammazzo, di cui si sono perse le tracce; il codice Fontanini della Biblioteca Guarneriana di San Daniele, no 200, membranaceo del secolo XIV exeunte, descritto da Gianfranco Contini nel 1978: «solenne non meno che sciammannato, è questo forse il codice più stravagante della Commedia», e la cui lingua porta fuori dalla Toscana; infine il codice che ci interessa, proveniente dalla biblioteca dei conti Claricini-Dornpacher, censito da Giorgio Petrocchi sotto Bottenicco (Moimacco). L’esemplare ora è custodito nella Biblioteca civica di Padova (segnatura CM 937). Non è solo di provenienza friulana: è stato trascritto a Cividale nel 1466, data storica per la fortuna della Commedia in Friuli. La sottoscrizione è stata riprodotta, dopo il Fiammazzo, in uno studio di Paolo Trovato del 2007: «Complevi ego Nicolaus de claricinis scribere hunc dantem die prima februarij: 1466. sit laus deo omnipotenti et gloriose virginis marie et beati donati, etc.»; «la patina linguistica – precisa il Trovato – indirizza piuttosto verso l’Emilia Romagna». Nicolò Claricini è il copista ed è anche autore delle postille latine alla Commedia come si può vedere nella voce curata da Saverio Bellomo, la quale ci informa anche che la nobile famiglia Claricini si trasferì da Bologna a Cividale in Friuli già dalla metà del secolo XIV, ricevendo nel 1368 da Carlo IV di Boemia imperatore la facoltà di acquisire feudi e di dare investiture. Ebbene, se vediamo non separate ma coordinate tre testimonianze raccolte nei preziosissimi regesti di fonti messe insieme da Cesare Scalon nel volume Produzione del 1995 numeri 367, 369, 469 (in quest’ultimo secondo noi c’è riferimento al codice in questione o a un suo gemello) e nell’altro Libri degli anniversari del 2008 (p. 270), risulterà evidente che nelle dette testimonianze compare Nicolò Claricini copista del codice di Dante, ora a Padova, e risulterà chiaro che la trascrizione per ragioni di cronologia non può che essere stata eseguita a Cividale. Dunque, quivi a metà del Quattrocento, ma anche prima, era disponibile un testimone dantesco della Commedia che potrebbe appartenere effettivamente al ramo β della tradizione manoscritta. Il che farebbe dedurre che quando i Claricini si trasferirono in Friuli avrebbero portato con sé un esemplare del ramo emiliano-romagnolo della Commedia. Ebbe sentore molto vagamente dell’origine del codice Raimondo de’ Puppi nel 1839, allorché lo collazionò con il Bartoliniano.

Merita almeno un cenno la parte avuta dal Friuli come terra di passaggio negli itinerari dei mercanti fiorentini diretti verso la Germania o l’Est europeo. Rinvio solo agli Itinerari di Bonaccorso Pitti, mercante fiorentino, che ha lasciato importanti testimonianze sul Friuli segnalate da Vittore Branca.
Nel contesto che si è cercato di illustrare, relativamente alla tradizione letteraria italiana nella prima metà del secolo, con qualche proiezione anche oltre, bisogna tenere nel giusto rilievo l’impulso venuto sul piano culturale dai contatti di personalità friulane operanti nel mondo ecclesiastico della Curia e dalla presenza di scriptores della Curia, quali Poggio Bracciolini, nel primo decennio del Quattrocento. Credo che il De magno schismate (ms 1194 della Palatina di Parma) di Antonio Baldana del 1419 vada inquadrato in questo clima che concorse a preparare da lontano il fenomeno culturale più importante dell’umanesimo friulano costituito, come si è accennato sopra, dalla formazione della biblioteca di Guarnerio d’Artegna. La biblioteca umanistica Guar­neriana, formatasi solo pochi decenni prima che l’introduzione della stampa trasformasse il sistema di produzione del libro e di rapporto con i lettori, rifletteva da un lato, come ha osservato molto bene Marcello Zicari, «un patrimonio culturale già preesistente nella regione friulana», dall’altro si avvaleva dell’apporto, innovatore e molto aggiornato dei classici, degli umanisti veneziani ed in particolare di Francesco Barbaro, autentico trait-d’union con i maggiori e più affermati umanisti italiani, dal Bruni a Poggio Bracciolini, dal Valla a Biondo Flavio, dal Traversari a Nicolò Niccoli ecc. Non c’è dubbio, poi, che l’esperienza di Guarnerio d’Artegna verso la fine degli anni Venti presso la Curia papale, dove si trovava insieme con Antonio Altan, a contatto con i fermenti umanistici creati dagli scriptores Antonio Loschi, Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni, giovò alla nascita e alla realizzazione della grande impresa libraria, dopo il suo rientro in Friuli tra il 1434 e il 1435. Iniziò una felicissima avventura culturale a partire dal 1446, quando Guar­nerio con la nomina a vicario patriarcale (fino al 1454) potè assicurarsi i «mezzi finanziari indispensabili per pagare copisti, miniatori e legatori», come accertato dal compianto Emanuele Casamassima e poi da Cesare Scalon, Laura Casarsa e Mario D’Angelo. Le loro schede biografiche su maestri, copisti, grammatici che caratterizzarono quella esperienza, riprendono da altro punto di vista i risultati delle massicce ricerche raccolte nel monumentale Catalogo del 1991, registrando anche ulteriori avanzamenti. I profili biografici e culturali dei protagonisti più e meno importanti di quella stagione – dai grammatici e docenti Giovanni da Amaro, Giovanni da Spilimbergo, e il suo successore nell’insegnamento a Udine Francesco Diana (allievo forse a Udine di Da­mia­no de Pola e corrispondente del Valla), Francesco di Fanna maestro a San Daniele, Palazzino da Palazzolo rettore di scuole a Sacile (possedeva gli Erotemata di Crisolora e una traduzione latina del Timeo di Platone, molto probabilmente quella del Bruni), ai notai e copisti Nicolò da San Vito, canonico di Udine, Battista da Cingoli, copista professionale, Giovanni Belgrado, Nicolò de Collibus, Giacomo da Udine, Nicolò Pittiani (a suo tempo da noi individuato come estensore del secondo inventario del 1461), Francesco Pittiani – completano oggi la ricostruzione dell’ambiente in cui Guarnerio realizzò la formazione della biblioteca e consentono di ripercorrere itinerari, individuare provenienze di libri o di antigrafi in rapporto a conoscenze di personalità del vicino mondo culturale veneto e veneziano. Questo piccolo mondo culturale, e altri che cercheremo di delineare relativamente a nuclei culturali rilevanti nella storia del Friuli dei secoli successivi, va considerato nella problematica più generale del «recupero della qualità e dello spessore delle diverse prospettive culturali delle periferie rispetto ai centri», quale è stato posto in termini metodologici da Vincenzo Fera in un suo saggio del 1990 sui Problemi e percorsi della ricezione umanistica. Il «caso» Friuli nel quadro delle cosiddette «periferie del Rina­sci­mento» offre campi di studio stimolanti dal punto di vista culturale, storico-linguistico, religioso e giurisdizionale.
Il secondo Inventario della Guarneriana riunisce centosessantacinque manoscritti con una percentuale di libri classici e umanistici superiore del dodici per cento rispetto ai libri ecclesiastici, come ha rilevato Cesare Scalon. Oggi possiamo ammirare e studiare la libreria nella sua unità pressoché integra grazie al vincolo testamentario voluto da Guar­ne­rio che con grande lungimiranza la trasformò da collezione privata in pubblica, sotto la custodia della chiesa e della comunità di San Daniele. La seconda fase di apertura della Guarneriana alla fruizione degli studiosi avvenne nel 1734 con il lascito con cui Giusto Fontanini cedette il suo fondo alla comunità, trasformando la Guarneriana in una struttura nuova nello spirito illuministico settecentesco. E di fatto la libreria si è conservata nel luogo originario: «in un modo – scrisse Casamassima – che ha del miracoloso». è un “tesoro” di testi classici, cristiani, patristici e neolatini nel cuore di una regione e di una tradizione linguistica di cui Dante aveva colto perfettamente la individualità rispetto ai dialetti veneti nel De Vulgari Eloquentia (I. xi 6). Nella biblioteca di Guarnerio mancano opere in greco. Ciò non significa che nel Friuli già dalla prima metà del secolo XV non vi fossero conoscitori del greco antico. Due uomini di religione, il francescano Ludovico di Strassoldo e il domenicano Leonardo Mattei da Udine, per quanto sappiamo, iniziarono una tradizione di studio e di interesse per il greco, che avrebbe avuto dei continuatori nell’Egnazio, in Adriano di Spilimbergo, Mario Savorgnan, Leonardo  Fosco, stimato dal Bembo, Romolo Amaseo e il figlio Pompilio lettore degli Excerpta antiqua di Polibio, Vincenzo Rigoni discepolo del Delminio, Girolamo e Giovan Battista Amal­teo (poetò in greco per celebrare Lepanto), gli Aleandro senior e iunior, Erasmo di Valvasone, Iacopo Florio, traduttore di Eliano, amico di Antonio Belloni e di Francesco Robortello che lo mise in contatto con il grande filologo Pier Vettori, Marco Antonio Grineo, Robortello stesso e il suo allievo Marcantonio Tritonio, Raffaele Cillenio, Fabio Paolini iniziato al greco da Bernardino Partenio, Iacopo Fannio, e, oltre, il medico Giuseppe Daciano,  Francesco e Luigi Luisini, il poeta Vincenzo Giusti, traduttore di Omero in ottava rima, Marco Antonio Fiducio, Giovanni di Strassoldo, Pompeo Caimo e più avanti nel tempo Enrico Altan il Giovane, Giusto Fontanini, Filippo della Torre, Francesco Florio ecc.

I luogotenenti inviati a reggere il Friuli a partire dalla delibera del Senato veneziano del 20 giugno 1420 dovevano essere eletti tra le maggiori famiglie aristocratiche veneziane. Dotati di buoni studi umanistici, spesso portavano con sé cancellieri, notai e funzionari capaci di diffondere la nuova cultura umanistica e di dare impulso al radicamento della civiltà veneziana e insieme alla rivitalizzazione della cultura in Friuli. Prima di Fran­cesco Barbaro fece da precursore Leonardo Giustinian, luogotenente del Friuli nel 1432, quando fu accolto da un discorso di Giovanni da Spilimbergo. Allievo del Conversini e di Guarino, esponente tra i più prestigiosi di un umanesimo veneziano civile e religioso, poeta in volgare d’argomento sacro e profano, riunì intorno a sé in Friuli una schiera di dotti, a partire dal segretario Sebastiano Borsa, corrispondente con Giovanni da Spi­limbergo, legati da una rete fittissima di rapporti e di circuiti professionali e letterari. Ospitò Ciriaco d’An­cona durante una visita del grande epigrafista ad Aquileia. E sullo stesso piano credo si possa porre Lu­dovico Trevisan (1401-1465), patriarca d’Aquileia nel 1439 («Ludovicus cardinalis Aquileiensis») e assai noto per i suoi rapporti con Valla, Tortelli, Decembrio, Poggio, Filelfo e soprattutto con Francesco Barbaro. Un ritratto molto noto di Andrea Mantegna lo raffigura come personalità «forte e determinata», non dissimile dal diplomatico influente della Curia delineato nel saggio di Pio Paschini del 1939.
Quando Ludovico Foscarini subentrò nel ruolo politico di luogotenente (1461-1462) a Francesco Barbaro, che tanta parte aveva avuto nei rapporti con Guarnerio e nella formazione della parte moderna della Guarneriana, proseguì anche l’attività culturale aperta dal predecessore, prediligendo lo studio degli storici antichi. Conobbe Guarnerio nel 1445; della sua politica è nota l’ostilità contro la proliferazione delle comunità ebraiche.
Se da un lato la biblioteca di Guarnerio segnò, ai nostri occhi, il momento di affermazione della nuova realtà culturale umanistica a metà Quattrocento, dall’altro l’antica tradizione religiosa connaturata con il Patriarcato, inteso come stato territoriale governato da un ecclesiastico di nomina papale, facilitò l’incontro tra politica e religione nel clima dell’umanesimo rinascimentale sensibile a istanze di rinnovamento e di riforme della Chiesa. Come si è detto, molti patriarchi di Aquileia provenivano da famiglie veneziane di antica aristocrazia e passarono dalla carriera politica a quella ecclesiastica. Spesso non risiedevano in Friuli, eppure in molti casi fecero sentire il peso e l’influenza della loro tradizione.

All’accrescimento territoriale di Venezia nel Quattro­cento si accompagnava una sistematica irradiazione della civiltà umanistica veneziana con i suoi peculiari connotati politico-civili, cui faceva riscontro un acceso dibattito tra i diversi centri della società e della cultura friulana. La disputa tra Udine e Cividale, ad esempio, riguardante la loro origine e antichità, si prolungò oltre il Cinquecento e il suo valore simbolico travalica il valore effettivo dei testi che la documentano. I termini della questione ora sono piuttosto chiari dopo la pubblicazione nel 1990 del De restitutione patriae del notaio Nicolò Canussio, un’opera rimasta inedita e quasi sconosciuta, benché rappresenti la contestazione dalla parte di Cividale della presunta centralità di Udine, così come fu elaborata dal filoveneziano Marcantonio Sabellico nel suo De vetustate Aquileiae et Foriiulii del 1482. A giudicare dalla fortuna dello scritto, a poco valsero le buone ragioni del Canussio volte a dimostrare, con metodo archeologico che ha illustri precedenti in Biondo Flavio e in Ciriaco d’Ancona, la infondatezza della negazione dell’identità di Civitas Austriae (Cividale, nome che indicava la parte orientale del regno longobardo) con l’antica Forum Iulium o Foroiulium, città della X Regio Venetia-Histria, sostenuta dal Sabellico, il quale aveva dalla sua parte la fama di umanista affermato e di autorevole interprete della politica culturale di Venezia e della nascente storiografia ufficiale. A questo filone tendenzioso volto alla “nobilitazione” di Udine si associano altre voci, come quella di Giuseppe Sporeno (1490-1560), notaio, che scrisse l’opera Forumiulium in esametri con dotto intento, criticato a sua volta da Paolo Fistulario in età settecentesca.

Il periodo che sta tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento è, a nostro modo di vedere, tra i più interessanti e fecondi della storia culturale del Friuli, perché la dialettica tra il latino e il volgare si fa più mossa, articolata e innervata anche da istanze religiose. L’aspetto affascinante della analisi dei profili delle personalità che animano questo periodo, risiede nel tentativo che si deve fare ora di individuare i fili e i reticoli che le legarono o contrapposero, i circoli che quasi a macchia di leopardo ne caratterizzarono l’attività poetica, latina e volgare, letteraria e intellettuale. Si tratta per lo più di grammatici e rettori di scuole, alcuni «itineranti», di poeti o letterati per passione, di notai attratti dalla poesia e dall’erudizione fin dagli studi universitari, di piccoli editori come Gerardo da Lysa o, infine, di nobili colti che svolgevano insieme l’esercizio delle armi, della matematica e delle lettere. Alcuni fecero sentire la loro influenza a Venezia, che restava una delle capitali della filologia e dell’editoria in Europa, o in Germania, come nel caso di Riccardo Sbruglio (n. 1480 circa), che seguì l’amico Christoph Scheurl di Norimberga e poi entrò nella cerchia di letterati della corte viennese di Massimiliano I d’Asburgo. Molti rapporti intellettuali maturarono e si svilupparono nelle piccole accademie o nelle scuole o nei circoli poetici e culturali, espressione di un «umanesimo di provincia», come ebbe a definirlo Carlo Dionisotti trattando di Nicolò Liburnio, «quieto» ed estraneo alle polemiche troppo accese, allo scontro intellettuale e alle invettive che contrapposero spesso gli umanisti nei loro rapporti.

A San Daniele del Friuli, luogo simbolo dell’umanesimo friulano, a cavallo tra i due secoli fiorì una sorta di cenacolo poetico in latino sul quale le voci di Laura Casarsa fanno notevole luce. Ne facevano parte Giovanni Pietro Astemio (1505-1567), che fu maestro di poesia a San Daniele e sposò Benedetta figlia di Antonio Belloni. Ebbe tra i suoi tanti allievi Erasmo di Valvasone, Giacomo di Montegnacco e Tranquillo Liliani. Gravi­ta­va nell’ambiente Francesco Pittiani notaio e maestro a San Daniele, nipote dell’omonimo copista di Guarnerio, autore di carmi latini in cui ritrasse suoi amici contemporanei molto prestigiosi (oltre all’Astemio stesso, Marco Antonio Grineo, Giovanni Battista Amalteo, Girolamo Rorario, Antonio Filermo, Girolamo Amaseo, Cinzio da Ceneda), celebrò i condottieri Bartolomeo d’Alviano e Girolamo Savorgnan. Il Pittiani sposò la sorella di Giorgio Cichino (1509-1599), anche lui poeta latino del cenacolo sandanielese, militò nell’esercito di Carlo V e fu un vivace e «fecondo verseggiatore» in latino ed ebbe rapporti con Marino Grimani, con Cornelio Frangipane di Castello ed Erasmo di Valvasone. Alla scuola dell’Astemio si educò anche Leonardo Carga (m. 1604) autore di un corpus poetico latino; e con lui Leonardo Coricio Carga. Un altro Astemio, Giovanni Marco, è conosciuto per le premesse ad opere di Erasmo edite da Lorenzo Lorio e per una dedica ad Antonio della Frattina di una edizione del Decameron del 1526, stampata da Niccolini da Sabbio.

Appare ora chiaro che le scuole pubbliche distribuite nell’area friulana costituirono gli ambienti nei quali la poesia neolatina in particolare, ma anche le timide prove di composizione in volgare, trovarono il terreno più adatto per manifestarsi. Lo stesso doveva avvenire anche in alcune isole colte, inclini a coltivare la poesia di imitazione classica e attente al dibattito che si andava sviluppando anche in periferia sul rapporto tra la lingua latina e il volgare, ancor prima che uscissero alla stampa le Prose della volgar lingua del Bembo (1525).
Un circolo culturale avanzato come quello creato da Iacopo di Porcia a Pordenone, le Accademie pordenonesi di Princivalle Mantica e di Bartolomeo Viviani, la corte letteraria di Bartolomeo d’Alviano «musarum liberalis hospes» (accolse, mentre la guerra divampava tra il 1508 e il 1509, uomini di lettere e di scienza come Andrea Navagero, Giovanni Cotta, Giovan Battista della Torre e Girolamo Fracastoro), l’esperienza dell’Acca­demia fondata dal Partenio a Spilimbergo, il ruolo centrale di Giulio Camillo Delminio e l’influsso della sua lezione su Cornelio Frangipane il Vecchio (1508-1588, grande oratore e penalista, sensibile alle idee luterane, autore sul quale si sente la necessità di una complessiva monografia che tratti anche del Dialogo d’amore uscito postumo nel 1588), su Alessandro Citolini, su Cornelio Musso, su Giovan Francesco Fortunio e in qualche modo anche su Pietro Edo: sono frutti dell’apprendistato umanistico e del radicamento dei nuovi programmi di studio umanistici. I precursori, dunque, furono maestri di scuola quattrocenteschi, operanti in diversi centri dell’ex Patriarcato e veri suscitatori di una intensa circolazione di idee e di esperienze culturali, in taluni casi tuttaltro che provinciali e aperte al rapporto nuovo tra latino e volgare, frutto di riflessioni retorico-linguistiche vivissime nel Friuli occidentale tra Pordenone, San Vito, Gemona e Vittorio Veneto. Alludiamo al magistero di Antonio Baratella, da Loreggia nel padovano, rettore di scuola a Udine dal 1423-1424; dell’amico Antonio Baldana, del nominato Giovanni da Spilimbergo, di Francesco Diana (1430 circa-1501?) anello di trasmissione in Friuli di opere polemiche del Valla e docente a Venezia, Udine, Cividale, il quale ebbe allievi divenuti famosi e amici come Raffaele Zovenzoni; pensiamo a Fran­cesco da Fanna grammatico a San Daniele; a Bar­tolomeo Uranio (1440 circa-1519) e al figlio Giam­battista (1468-dopo 1495), di famiglia bresciana, insegnante in città del Veneto e a Cividale; a Francesco Mottense, antenato probabilmente del più tardo Liberale Mottense.
La riprova è nel fatto che gran parte di questi maestri si mossero tra i circoli culturali sunnominati, primo quello di Iacopo di Porcia a Pordenone, che a ragion veduta ha attirato l’attenzione di Giuseppe Trebbi e di altri studiosi della Pordenone “asburgica” dell’inizio Cinquecento. E in questa realtà operarono i Mantica originari di Como e all’epoca schierati con l’Austria, come i Ricchieri. Princivalle Mantica (1477-1506) fu allievo del Cimbriaco ed ebbe rapporti con tutti gli intellettuali e letterati gravitanti intorno a Iacopo di Porcia. Sebastiano Mantica (1447-1553) fu testimone dell’invasione turca del 1499, subì la reazione di Venezia dopo la vittoria di Bartolomeo d’Alviano sugli eserciti di Massimiliano I e fu autore di una Cronaca di Pordenone dal 1432 al 1544. A Udine potè avvalersi del contributo di ottimi maestri (Giambattista Uranio, Francesco Diana, Agostino Geronimiano, Gregorio Amaseo), il notaio e umanista Antonio Belloni (1480-1554), scoperto dagli studi benemeriti di Paolo Tremoli. Fu al servizio di Domenico Grimani, in contatto con l’ambiente umanistico della Curia; svolse importanti incarichi politici che gli procurarono grande autorevolezza. La sua opera in prosa – l’Epistolario e il dialogo sull’educazione De ratione sodalium – e in poesia è quasi tutta in latino, in accordo con le posizioni di Romolo Ama­seo; ebbe interessi anche per la mnemotecnica, probabilmente condivisi con il genero Robortello.
Intorno a Iacopo di Porcia (1462 circa-1538), divenuto in età matura un mecenate e vigoroso «organizzatore della cultura umanistica» latina e volgare in Friuli, si coagularono un gruppo di intellettuali conquistati dall’amore delle lettere. Secondo Giuseppe Trebbi agì su di lui il magistero di Francesco Mottense e, a Venezia, quello di Benedetto Brugnoli. La fonte principale di questa vicenda culturale è il suo epistolario in latino, stampato senza indicazione di luogo e di tempo (1505?), secondo alcuni, ma forse post 1519. è probabile che un contributo alla creazione di questo intraprendente circolo rinascimentale di Pordenone sia venuto dal Cimbriaco (1449 circa-1499) maestro e poeta in latino che fu in Friuli, essendo vicentino, dal 1468. Fece scuola a Pordenone ed ebbe allievi tra gli altri i tre fratelli Amalteo: Cornelio Paolo, Marco Antonio e Francesco. Nello stesso ambiente furono attivi più direttamente o fecero sentire la loro influenza o godettero di protezione i già nominati Bartolomeo Uranio e il figlio Giambattista, maestro anche a Portogruaro, il Caviceo, che proveniva da Parma e fu maestro dei Mantica, Pietro Edo Capretto, Giovan Francesco Fortunio, Marcantonio Amalteo, Romolo Amaseo, Antonio Belloni, Girolamo Rorario. Sono personalità non irrilevanti nella discussione sulla lingua: agivano a Pordenone, divenuta, anche geograficamente per la sua equidistanza da Vittorio Veneto e da Spilimbergo, luogo di incontro delle esperienze culturali, religiose e linguistiche di questi altri due centri. Vittorio Veneto viveva una stagione culturale di tutto rispetto con Marcantonio Flaminio (1498-1550), personalità rigorosa e complessa sul piano religioso, teorico dell’educazione, poeta latino raffinato e insieme incline alle posizioni linguistiche volgari del Fortunio e alla lingua del Castiglione. Lo stesso si può dire per le ricerche rivoluzionarie sulla mnemotecnica e sul teatro della memoria di Giulio Camillo Delminio (1480 circa a Zoppola?-1544) e per le sue posizioni linguistiche rispettose del latino ciceroniano e insieme attente alla lingua madre. In un suo scritto sull’imitazione, composto in polemica con Erasmo da Rotterdam, espresse importanti riflessioni retorico-linguistiche, con le quali contrassero molti debiti scritti come la Lettera in difesa de la lingua volgare del Citolini (1540), nativo di Vittorio Veneto, e gli Avertimenti a un giovane, che voglia con giudicio studiare del Frangipane, che contengono una originale definizione di lingua “italiana” su base veneziana. Il suo acuto interesse per il Petrarca volgare non riuscì, tuttavia, a stimolare il petrarchismo in Friuli, assai esile e privo di rilevanza poetica.
Francesco Fortunio (1460/70-1517) fu un giurista pordenonese, e insieme grammatico e, forse, filologo della lingua italiana. Si spostò a Venezia almeno dal 1502, secondo Dionisotti, e qui operò, benché le sue Regole della volgar lingua siano state stampate ad Ancona nel 1506. La sua analisi filologico-linguistica fondata sulle «Tre Corone» aveva solide basi nella conoscenza dei grammatici antichi e contribuì in modo sostanzioso alla codificazione del toscano letterario. Tra il 1502 e il 1503 prese le difese dell’anziano Sabellico nella dura polemica con il giovane e valente Giovan Battista Egnazio intrapresa da questi nelle Racemationes, una fine miscellanea di filologia.
Pietro Edo Capretto (1426-1504) è una figura di umanista e poeta, anche in volgare, piuttosto eclettica e non priva di contraddizioni, forse in relazione alla natura “militante” della sua attività, molto vicina e in sintonia con quella di Iacopo di Porcia. Entrambi sentivano l’importanza di non svilire il Medio Evo nel rapporto con la nuova cultura umanistica. Questa convinzione, unitamente alla condizione di uomo di religione, probabilmente sono all’origine della contrapposizione del Ca­pret­to a Lorenzo Valla in difesa del potere temporale della Chiesa, posizione non anacronistica se pensiamo che in terra salentina un umanista peraltro di alto livello come Antonio de Ferrariis manifestò identità di vedute portando in dono a Giulio II nel 1510 una copia manoscritta dell’atto di donazione di Costantino. Sul piano della questione della lingua, pur essendo entrambi sostenitori del latino, sulla linea di Romolo Amaseo, del Belloni, del Rorario, mostrarono una apertura inequivocabile per l’importanza del volgare in relazione alle finalità della comunicazione pratica e sociale. Traduttore instancabile dal latino, l’Edo sul versante del volgare propugnò una lingua di sostrato toscano, ma fortemente caratterizzata in ambito sovraregionale, che egli definì «lengua trivisana» della Marca, utilizzandola in luogo del toscano per la sua traduzione delle Constitutioni de la Patria de Friuoli, stampata da Gerardo da Lysa nel 1484. Ai nostri occhi il Capretto si presenta come un esponente, certo «di periferia», ma non privo di una sua fisionomia ben bilanciata tra l’umanesimo latino e la tradizione letteraria classica di Dante, Petrarca, Boccaccio, che egli imitò per la prima volta, forse, in misura non episodica. La sua produzione letteraria riesce a far convivere un trattato matrimoniale, che prosegue a suo modo il filone tematico aperto nel 1416 dal De re uxoria di Francesco Barbaro, e insieme l’imitazione di Leonardo Giustinian nella sua produzione laudistica e musicale. Aspetti di questa sperimentazione sono stati messi in luce dagli studi di Giulio Cattin, di Francesco Luisi e dai facsimili musicali editi da Andrea Benedetti, che si aggiungono alle prime edizioni curate da Knud Jeppesen.

Sarà interessante far notare come in quest’area tra Livenza e Tagliamento, e anche al di là, dove per decenni il volgare letterario era stato accolto con freddezza, la discussione abbia avuto intensi sviluppi, avendo come caposcuola della propensione per il latino un esponente delle più importanti famiglie del Friuli: Romolo Amaseo (1489-1552). Molto esperto di lingua greca (tradusse la Anabasi di Senofonte) e latina, che aprì a nuovi modelli classici come Apuleio, possedeva anche nozioni di ebraico. Fu docente a Bologna, dove ebbe molto seguito tra gli studenti stranieri, e a Padova; dal 1544 si stabilì a Roma su insistenza di Paolo III. La sua fama giunse al culmine quando durante il Congresso di Bologna tra Carlo V e Clemente VII pronunciò l’orazione De pace. Le due prolusioni ai corsi accademici («scholae duae») De latinae linguae usu retinendo (1529) figurano a pieno titolo tra i più significativi testi riguardanti la storia della lingua nel Cinquecento. Strenuo campione della latinità, ebbe tra gli allievi letterati che proseguirono le sue teorie linguistiche: Raffaele Cillenio, Antonio Belloni, di cui si è detto, Bernardino Partenio, Girolamo Rorario e soprattutto Francesco Robortello, che esamineremo più avanti.
Il Partenio, poi, fu uno dei protagonisti dello studio del greco e del latino nel Friuli occidentale, impartito nella Accademia di Spilimbergo, fondata nel 1538 con il sostegno del nobile intellettuale Adriano di Spilimbergo e ospitata nel palazzo degli Spilimbergo di Sopra in Valbruna, sui quali, Accademia e Palazzo, si possono leggere importanti contributi negli Atti del Convegno Partenio e l’Accademia di Spilimbergo curati da Caterina Furlan. L’Accademia fu attraversata da fermenti culturali e religiosi erasmiani e riformisti. Le sue posizioni filoamaseiane espresse nella Pro lingua latina oratio pubblicata a Serravalle nel 1545, dopo il suo passaggio a Vicenza nella villa di Cricoli del Trissino, furono sfumate con aperture alla letteratura “classica” in volgare, attuate nella pratica pedagogica e didattica, e contenute nel dialogo Della imitatione poetica, edito a Venezia nel 1560, steso questa volta in volgare, ma poi prontamente tradotto in latino. Il trasferimento delle competenze umanistiche dal latino al volgare avvenuto nel Quat­rocento, poteva procedere ora in senso opposto.
Nato a Pordenone nel 1485 (morì nel 1555/56), Girolamo Rorario rappresenta un esponente filoasburgico che con l’avvento dei Veneziani nel 1508 scelse la via dell’esilio e non smise più la sua avversione a Venezia. Dopo gli studi con Francesco Amalteo e con il Sabellico, entrò al servizio di Massimiliano I assumendo incarichi di rilievo europeo. Fu impegnato nella Curia e in seguito alla battaglia di Mohács nel 1526 svolse una importante missione nell’Ungheria sconvolta dai Turchi. La sua attività letteraria è piuttosto singolare. Scrisse dei Dialoghi alla maniera di Luciano tra il 1513 e il 1530. Trasferì in latino l’Orlando furioso ariostesco e dei racconti del ciclo carolingio. L’opera sua più originale è un trattato Quod animalia bruta saepe ratione utuntur melius homine, pubblicato postumo in Francia dal Naudé nel 1648, a distanza di cent’anni, in un clima di discussioni postcartesiane. In quest’opera interessantissima manifestò chiaramente la sua propensione per le tesi linguistiche di Romolo Amaseo, evidenti in riprese testuali fedeli dalle “scholae” amaseiane. Il figlio Fulvio compose delle Rime spirituali, pubblicate a Venezia nel 1581, intrise di un forte spirito controriformistico.

Riflessi tardi del progressivo affermarsi del volgare anche nella letteratura divulgativa scientifica si possono cogliere in un Trattato della peste e delle petecchie dello stimato medico di Tolmezzo Giuseppe Daciano, pubblicato a Venezia nel 1576. L’opera fu voluta in «lingua volgare italiana, acciò che da tutti sia intesa», attirandosi le censure della corporazione dei medici che riteneva più consono il latino.
Già si è detto, a proposito della questione della lingua, di Romolo Amaseo e della sua difesa ad oltranza del latino. Ma prima di lui si sarebbe dovuto parlare del padre Gregorio Amaseo (1464-1541) e della madre suora Fiore di Marano, monaca di S. Chiara. Per il loro amore illecito furono processati e Gregorio subì una condanna in contumacia commutata in bando per sei mesi. Di­scen­deva insieme con i fratelli Leonardo (1462-1510) e Girolamo (1467-1517) da una famiglia bolognese emigrata in Friuli nel Trecento. Girolamo fu allievo del Sabellico, del Poliziano e di Giano Lascaris. Gregorio ebbe fama di poeta e, soprattutto, di docente conoscitore profondo dei classici e loro assiduo lettore. Ebbe come collega a Brescia l’Uranio e succedette a Venezia a Giorgio Valla nel 1501. L’allievo forse più famoso di Girolamo e di Gregorio Amaseo fu il maggiore giurista cinquecentesco Tiberio Deciani, docente a Padova. L’opera di Gregorio più nota, i Diarî udinesi, è una sorta di tardo libro di famiglia, scritto in volgare veneto e nato fuori dall’ambito tradizionale toscano. Erano stati cominciati dal fratello Leonardo nell’anno 1508 e proseguiti fino al 1510; furono ripresi quindi fino al 1512 dal cronista udinese Giovanni Antonio Azio, al quale subentrò, infine, Gregorio. Come testimone diretto descrisse nell’Historia della crudel zobia grassa […] in la città di Udine et Patria del Friul del 1511 lo scontro crudelissimo del 27 febbraio tra gli zamberlani, manovrati da Antonio Savorgnan, “Scharioth” nella cronaca, e gli strumieri, i Colloredo, filoimperiali e nobili castellani avversi a Venezia. In quell’anno orribile e fatidico sopravvennero anche il terremoto e la peste, che falcidiarono la popolazione di Udine con diecimila morti. Su quelle atrocità negli anni successivi tornarono molti storici e cronisti da posizioni diverse, che la storiografia moderna – da Furio Bianco, molto attento alla tradizione del testo dell’Hi­storia e alla documentazione accessoria, a Edward Muir –, ha trattato con crescente interesse.

In relazione ai fatti di sangue e alle violenze la Repubblica veneziana, con l’intenzione di sanzionare equamente le responsabilità che furono attribuite in buona misura alle mire di Antonio Savorgnan di estendere il suo potere, trovò l’appoggio di Girolamo, appartenente a un ramo parallelo della famiglia Savorgnan, il quale in seguito avrebbe dato grandi prove di capacità militari e di fedeltà a Venezia con la difesa del monte di Osoppo e di tutto il Friuli contro l’esercito imperiale nel 1514. Egli ebbe anche una buona statura culturale e letteraria, testimoniata dal vigore delle sue scritture epistolari e dalla decisione di affidare l’educazione umanistica dei propri figli al dotto greco Giano Lascaris. Accanto a Mario, già nominato anche per le qualità letterarie, fu Giulio ad eccellere come stratega nell’esercito veneziano e in veste di ingegnere tra i responsabili della realizzazione della fortezza di Palmanova.
Al partito strumiero, invece, appartenne lo storico udinese Giovanni Candido (1450 circa-1528), autore di otto libri di Commentarii aquileienses (Venezia 1521, tradotti in volgare nel 1544): era stato allievo del Sabellico e del Cimbriaco, stimato dal Belloni e da Iacopo di Porcia. Tra gli storici che si occuparono della strage del 1511 va ricordato Nicolò Monticoli, notaio (1464-1523), che redasse una Descrittione del sacco 1511 seguito in Udine edita nel 1857, ed inoltre una Cronaca delle famiglie udinesi. Nell’ambito della famiglia degli Amaseo trovò ospitalità il ferrarese Francesco Alunno (n. 1484), lessicografo e grammatico che visse tra Venezia e Udine.

La famiglia degli Amalteo fu in modo singolare costituita da una schiera di poeti e umanisti che ebbero il loro principale raggio d’azione tra Motta di Livenza, Oderzo e Pordenone; un ramo si stabilì a San Daniele. A questa famiglia appartenne anche Pomponio Amalteo, il grande pittore nato a Motta di Livenza nel 1505, che prese il nome dalla madre Natalia Amalteo e sposò la figlia di Giovanni Antonio Sacchis, detto il Pordenone, «il maggior artista friulano del Rinascimento». Su di lui si deve vedere ora il volume “Genthilomeni, artieri e merchatanti”. Cultura materiale e vita quotidiana nel Friuli occidentale al tempo dell’Amalteo (1505-1588) uscito nel 2005 e il Catalogo che ha accompagnato la mostra (San Vito al Tagliamento, 29 settembre – 17 dicembre 2006). Il primo esponente Cornelio Paolo Amalteo (1460-1517) veniva dalla pregevole scuola del Cimbriaco. Svolse attività di maestro a Motta di Livenza, a Belluno e a Feltre. Inoltre frequentò l’ambiente viennese dal 1505, conseguendo il riconoscimento dell’alloro poetico. Fu un fiero oppositore del protestantesimo. Le sue poesie al pari di quelle dei fratelli Girolamo (1507-1574) e di Giovan Battista (1525-1573) ebbero larga diffusione dopo che furono riunite in antologia per la prima volta nel 1627, Trium fratrum Amalteorum […] carmina, dal nipote Girolamo Aleandro il Giovane, figlio di Amaltea nata da Girolamo. Quanto a Giovan Battista va ricordato per i suoi componimenti in volgare e per i suoi rapporti con personalità eminenti del Cinquecento quali Paolo Manuzio, Sperone Speroni, Pietro Aretino, Girolamo Fracastoro e Girolamo Muzio. A Ragusa conobbe Ludovico Bec­cadelli, figura rilevante nella storia della critica del Petrarca. Poeti e letterati furono anche gli altri fratelli Marcantonio Amalteo nato nel 1474, ora più conosciuto per la sua poesia latina grazie agli approfondimenti di Cristante, di Ferracin e di Venier, e Francesco meno conosciuto. Nel Seicento emersero Aurelio Amalteo, nato a Pordenone nel 1626, e vissuto tra il Friuli, dove fu in relazione con Ciro di Pers, e Vienna in un periodo in cui cominciava a profilarsi il crescente interesse per la produzione librettistica prima della vera grande esplosione del melodramma al tempo di Apostolo Zeno e del Metastasio; la sua produzione poetica è in gran parte manoscritta e attende una analisi che metta in luce temi e modi poetici che vanno al di là di quelli evidenti del repertorio marinista. E si distinse anche il fratello Ascanio Amalteo (1630 circa-1691), che soggiornò a Pa­ri­gi. Del ramo di San Daniele merita essere ricordato Luigi Amalteo, notaio vissuto tra il Cinque e il Seicento, segnalato da Vincenzo Joppi per un suo sonetto in friulano Sulla fabrica del Escurial.

Da Motta di Livenza, tipica area di transizione tra Veneto e Friuli, proveniva un’altra solida e considerevole famiglia, quella degli Aleandro, che ebbe fama notevole con Girolamo il Vecchio e Girolamo il Giovane, i quali entrambi operarono oltre i confini del Friuli. Girolamo il Vecchio (1480-1542) fu umanista di vasta cultura, ebraica compresa, e uomo di grande potere e prestigio anche al di fuori dell’Italia e della Curia, dove svolse gran parte della sua attività molto apprezzata sul piano politico e culturale, in un momento in cui erano ricercate le sue conoscenze profonde del mondo luterano e la sua autorevolezza. Studiò a Venezia con Benedetto Brugnoli e quivi frequentò l’officina filologica di Aldo, conobbe Erasmo ed, essendo un ottimo esperto di greco e di latino, assimilò a fondo l’umanesimo veneto; dapprima nel 1495 era a Pordenone alla Scuola di Cornelio Paolo Amalteo e divenne amico del fratello Marco Antonio. Frequentò il sodalizio letterario di Bartolomeo d’Alviano, autentica testa di ponte della più raffinata cultura veneziana e veneta. A Parigi dove soggiornò furono pubblicati importanti suoi lavori, frutto delle ricerche classiche su Plutarco, Cicerone, Sallustio, Ausonio, e sugli autori gnomici; contribuì a diffondere il metodo filologico, che era uno dei vanti della cultura umanistica più matura. è probabilmente suo un commento ai primi due libri della Antologia Planudea su cui si è fermata l’attenzione di Anna Meschini Pontani. Nel 1520 fu inviato in Germania per dare seguito alla condanna di Lutero. Divenne cardinale nel 1538, nonostante una condotta di vita privata non irreprensibile.
Girolamo il Giovane nacque a Motta di Livenza nel 1574. Fu una figura, egli pure, di portata europea nell’età della Controriforma, letterato raffinato, esperto di Aristotele e insieme calligrafo e disegnatore. Fece i suoi studi a Treviso, si laureò a Padova nel 1594. Ebbe corrispondenza erudita con il Peiresc. Molta parte della sua vita si svolse a Roma presso il cardinale Ottavio Bandini. La sua produzione poetica è in latino, ma non mancano delle rare prove in lingua volgare; la sua opera forse più nota, la Difesa dell’Adone, poema del cav. Marini per risposta all’Occhiale del cav. Stigliani, uscì postuma nel 1629 a Venezia. Non c’è dubbio che egli sentì intensi i legami familiari e affettivi con il Friuli, che non si esaurirono nel contributo più esplicito dato con la pubblicazione della produzione poetica degli zii materni friulani Giovan Battista, Girolamo e Cornelio Amalteo. La poesia dell’Aleandro è in genere d’occasione, ma di alta finezza stilistica e formale benché indulga come era di moda nella poetica del tempo alle maniere manieristiche e barocche.

Nel quadro complesso e frammentato dei circoli e delle identità intellettuali, poetiche e letterarie del Friuli cinquecentesco crediamo occupi un suo posto abbastanza delineabile il gruppo che chiamerei dei “Tolmezzini”, e in particolare la cerchia dei Cilleni, che improntarono con il loro magistero e la loro vocazione poetica il clima di fervore culturale della Tolmezzo cinquecentesca.
Maestri di scuola e poeti furono: Nicolò Cillenio il Vecchio autore di un’opera in distici Psyches. Rapsodiae duae, scritta dopo il 1577; il figlio Raffaele attivo nella seconda metà del Cinquecento; e il figlio di quest’ultimo Nicolò il Giovane (m. 1616), al quale sono attribuiti anche conoscenze di greco. Meno famoso di costoro fu Anteo Cillenio, che scrisse versi latini con accentuato intento moralistico di condanna del malcostume e della corruzione, affidata alla descrizione della peste, che sarebbe stata, in perfetto spirito controriformistico, inviata a fini punitivi. Sul fronte della poesia in volgare prende risalto la figura del poeta Giuseppe Cillenio, al quale è stato attribuito un Canzoniere adespota, apografo del secolo XIX, che è una timida, ma significativa testimonianza del petrarchismo in Friuli a metà Cinquecento. L’editore moderno Ermes Dorigo (1988) non conferma l’attribuzione per difetto di documentazione e preferisce intitolarlo ad un poeta “Anonimo” da Tolmezzo. Completano l’insieme di questa realtà abbastanza connotata, pur nella sua sostanziale modestia sul piano estetico-culturale, Fabio Quintiliano Ermacora e Francesco Ianis. L’Ermacora (1540 circa-1610), notaio, è considerato il primo storiografo della Carnia. Fu allievo di Raffaele Cillenio e compose una storia De antiquitatibus Carneae, conservata in un apografo inedito, e divulgata in una traduzione dal latino di G.B. Lupieri stampata nel 1863 e, forse, per tal via, nota al Mommsen. Quanto allo Ianis, giurista e letterato, merita ricordato un suo diario di viaggio in Spagna (1519-1520), di cui resta un compendio di Marin Sanudo. A Napoli, da dove salpò, rese omaggio a Iacopo Sannazaro. Tolmezzino fu anche il medico Giuseppe Daciano di cui si è già detto a proposito della lingua volgare usata per stendere la sua opera di medicina. E tolmezzino, probabilmente, fu il poeta «schivo e appartato» Girolamo Biancone (m. tra il 1589 e il 1593), che recava ancora impressa la memoria storica delle conseguenze della faida tra strumieri e zamberlani del 1511. Fu presente al processo di Matteo Bruno di Tolmezzo accusato di adesione e propaganda luterana, egli stesso sospettato di simpatie eterodosse. Ebbe contatti con il poeta tolmezzino Rocco Boni, che celebrò Ferdinando I nel poemetto Austriade pubblicato a Vienna nel 1559.

Ma l’anima letteraria del Cinquecento in Friuli è rappresentata, secondo noi, da Erasmo di Valvasone (1528-1593), una personalità la cui opera attende una sistemazione filologica organica e definitiva, dopo gli studi sulle Rime di Cerboni Baiardi, sull’Angeleida di Luciana Borsetto e di Roberto Norbedo, sul suo “post-petrarchismo” di Salvatore Ritrovato e dopo le acquisizioni documentarie di Franco Colussi. Anche Erasmo crebbe alla scuola retorico-classica e, insieme, ricca di ingegni creativi dell’Astemio a San Daniele. Oggi la sua immagine vulgata di poeta appartato e solitario è venuta meno, mentre è venuto chiarendosi l’impegno politico e pratico da lui svolto in relazione al suo ruolo di feudatario e ai rapporti intrattenuti con Venezia. L’esordio poetico avvenne in occasione della pubblicazione dell’antologia Rime di diversi […] autori in morte della signora Irene da Spilimbergo (1561), curata da Dionigi Atanagi e nella raccolta De le rime di diversi nobili toscani (1565) dello stesso curatore. Il suo poema Lancillotto uscì nel 1580 per le insistenze di Cesare Pavesi. Seguì il poemetto sacro la Giudith, d’argomento biblico caro alla produzione tragica del Seicento, Le lagrime di Santa Maria Maddalena […] e, soprattutto, l’Angeleida (1590), poema sacro, modellato sugli esempi del Sannazaro, del Vida e del Tasso, molto fortunato al punto che sembra abbia influenzato il Paradiso perduto di John Milton, curiosamente tradotto in Friuli da Carlo Narducci (1691-1779). Trattò del tema de La caccia in un bellissimo poemetto in ottave, strutturato con l’impostazione didascalica che si ritrova anche nel trattato su La difesa della ‘Georgica’ di Virgilio che dedicò a Cornelio Frangipane. L’opera sua più rilevante di traduttore riguarda la Tebaide di Stazio, in ottava rima, un modello con cui si dovettero confrontare altri traduttori successivi; tradusse anche l’Elettra (1588). In Friuli Erasmo di Valvasone ebbe un convinto imitatore in Scipione di Manzano, poeta di Cividale (1560-1596), autore di un’opera Le lagrime di penitenza di David, di un poema eroico I primi tre canti del Dandolo, sull’esempio del Tasso, oltre ad un Discorso in difesa della Angeleida e una favola marina Aci in cui è lodata Venezia.

Vincenzo Giusti fu un contemporaneo di Erasmo, abbastanza conosciuto come poeta, come autore di opere teatrali e di un Dialogo delle belle donne di Venzone; è stato rivalutato anche per un suo Memoriale udinese, collegato con la sua professione di notaio e insieme espressione di un genere, quello dei libri di famiglia, che è piuttosto insolito fuori dalla Toscana e che ha un precedente in Friuli nei Diarî amaseiani. I pregi della sua prosa «boccaccesco-bembiana» sono stati sottolineati da Silvia Morgana.

Un capitolo interessante in terra friulana è rappresentato da quegli uomini d’arme che nel Cinquecento praticarono la matematica, le scienze e le lettere. Le testimonianze più significative sono – oltre ai nominati Giorgio Cichino, Bartolomeo d’Alviano, Mario Savorgnan –: Giovanni di Strassoldo, Daniele Antonini (1588-1616), allievo e corrispondente di Galileo Galilei per il tramite del Micanzio, Alfonso Antonini (1584-1657), matematico, fondatore dell’Accademia degli Sventati, ed erede nell’esercizio delle armi del fratello Daniele morto a Gradisca, così Fabrizio Montereale, giurista esperto di greco, che combattè a Lepanto (morì nel 1607). Di Mario Savorgnan (1511-1574) si conosceva l’ottima formazione classica, la stima che godeva presso Pietro Bembo – lo avrebbe voluto come marito della diletta figlia Elena –, e la fama di ingegnere militare e costruttore di fortezze. In tempi recenti ci è avvenuto di mettere in risalto il suo legame con Andrea Navagero, di cui copiò l’esemplare più autorevole dell’Itinerario in Spagna e Francia, e le dotte conoscenze delle Storie di Polibio, in particolare dei meno noti Excerpta antiqua riguardanti l’istituzione militare dei Romani e la loro costituzione legislativa.
Quanto a Giovanni di Strassoldo le conoscenze hanno compiuto parecchi progressi grazie anche agli Atti del convegno internazionale tenutosi nel novembre del 2000 ed editi nel 2005 per le cure di Doimo Frangipane Strassoldo. Il Liruti pone la sua data di nascita nel 1544, l’anno in cui nacque il Tasso, il 3 settembre; Doimo Frangipane ha indicato il 1547; noi propendiamo per la data del Liruti sulla base di una lettera dello Strassoldo a Giovanni Antonio Magini, nella quale l’autore stesso la indica chiedendogli di «calcularla […] per le Tavole del Tichone». Ebbe una formazione molto simile a quella degli umanisti e dei patrizi veneziani dell’età del Bembo, ben armonizzata tra tradizione latina (e greca) e tradizione classica volgare. Dai maestri come il Delminio e Fausto da Longiano derivò l’interesse per Petrarca, che egli conosceva e leggeva oltre a Dante, Boccaccio e poi Ariosto, Bembo, Della Casa e Castiglione, Marino e il Tasso, e il rimario del Ruscelli. Fu matematico e astrologo, benché si fosse dedicato come da consuetudine allo studio del diritto a Padova. Quivi tra il 1560 e il 1567 conobbe il giovane Tasso, che era già un poeta famoso e amato; dunque lo conobbe ancor prima di parlarne entusiasticamente con Erasmo di Valvasone. Come soldato prese parte con il grado di sopracomito di una galera alla battaglia di Lepanto, che poi celebrò in versi unendosi al coro immenso dei poeti più o meno improvvisati che esaltarono l’impresa. Decantò con lodi sperticate Filippo II e la «fabrica de lo Escoriale» promuovendo una antologia pubblicata dal Natolini a Udine nel 1592. La silloge Dei componimenti volgari e latini […], curata dal figlio Giulio e uscita a Venezia nel 1616, include anche testi di Erasmo di Valvasone e di An­drea dell’Anguillara, secondo un costume di partecipazione antologica, per così dire, molto diffusa, come ve­dremo oltre, anche in Friuli.

L’evoluzione della solida tradizione grammaticale espressa nelle buone scuole quattrocentesche del Friuli nelle nuove metodologie retorico-critiche cinquecentesche, frutto in altre aree d’Italia di forti presupposti filologici latitanti nella nostra area, pone all’attenzione alcune personalità di commentatori e studiosi di retorica e di poetica aristotelica sui quali emerge Francesco Robor­tello. Marco Antonio Grineo (1468-1550) lasciò una testimonianza rilevante della sua attività di maestro nelle postille e annotazioni esegetico-critiche che segnò fittamente in una cinquecentina dell’opera di Virgilio conservata nella biblioteca del seminario di Udine, sulla quale ha fatto luce Matteo Venier. Da questo punto di vista il Grineo seguiva una tradizione di commentatori dell’E­nei­de che aveva avuto un interessante anticipatore in Pietro Leoni (Cinzio da Ceneda), fonte utile per ricostruire attraverso il suo commento a Virgilio quello del suo maestro Pomponio Leto, da cui dipende in larga misura.

Sono secondo noi vicini tra loro e assimilabili due letterati che ebbero in comune la formazione a Padova sotto Lazzaro Bonamico e alcune amicizie comuni, prima fra tutte quella con Cornelio Frangipane: alludiamo a Francesco Luisini e a Fabio Paolini.
Il primo, udinese (1524-1568), fu allievo, come tutti i figli della «Luisina familia», di Fausto da Longiano e fu in corrispondenza fra gli altri con Trifon Gabriele, con l’Egnazio, sulla cui cattedra di umanità concorse col Partenio e col Robortello. Fu precettore di Alessandro Farnese e contribuì all’antologia Helice (1566) con tre epigrammi latini. Condivise col Robortello l’interesse di lettore e commentatore dell’Ars poetica di Orazio. Poeti e letterati furono anche i fratelli Luigi (1526-dopo 1577), medico, autore di un singolare commento al sonetto del Petrarca «Il mal mi preme…» (R.V.F. 244), Federico (n. post 1530) e Marco Antonio (1533-1576), medico e loro cugino, insieme riuniti con le loro poesie latine e volgari nel manoscritto Bartoliniano 20 allestito da Domenico Ongaro. Il Libro de la bella donna di Federico Luisini curato dal Ruscelli (Venezia 1554) è stato accostato dalla Morgana, per il tipo di prosa «boccaccesco-bembesca», allo stile del sunnominato Vincenzo Giusti, a riprova della discreta fortuna di Boccaccio goduta in Friuli e delle eleganti qualità di scrittura di questi due autori che celebrarono la bellezza femminile. Tradusse in versi saffici il sonetto del Petrarca «Quand’io veggio dal ciel…» (R.V.F. 291).
Fabio Paolini fu figlio di Alessandro maestro e letterato nato a Tricesimo agli inizi del Cinquecento, a sua volta allievo di Lazzaro Bonamico a Padova, dell’Amaseo a Bologna, e amico di Nicolò Cillenio, di Cornelio Fran­gipane, del Partenio e del Robortello. Nacque, come ora precisa Fabio Vendruscolo, a Tricesimo nel 1550 e morì nel settembre del 1604. Fu iniziato allo studio del greco dal Partenio, coltivò la filosofia e la medicina. Sono una ventina le opere a stampa, tra le quali la più nota, le Hebdomades sive Septem de Septenario libri del 1589, contiene un commento al verso dell’Eneide VI 646 «riferito al mitico cantore Orfeo». Come già Partenio e il Delminio si occupò del De ideis di Ermogene e negli stessi anni della maturità si concentrò sulla medicina.

Tipica figura di umanista nel quale la filologia aveva ceduto il passo alla preminenza della retorica, alla poetica e alla critica, Francesco Robortello, udinese di nascita (1516), ma di famiglia originaria di Ceneda, fu personalità di respiro europeo, come giustamente osserva Sergio Cappello. Fece un matrimonio prestigioso prendendo in sposa Camilla, la figlia del notaio Antonio Belloni, figura molto influente in Friuli. Come molti altri giovani friulani di ingegno, andò a Bologna a seguire la lezione del maestro friulano Romolo Amaseo. Perfe­zionò le conoscenze del greco e del latino, approfondendo gli studi sulla Rethorica e sulla Poetica di Aristotele, rilanciata dalle riscoperte di Ermolao Barbaro il Giovane e dal Poliziano, da un lato, e dall’Ars poetica di Orazio dall’altro. Orazio era diventato un modello assai imitato dai poeti neolatini del Cinquecento, come già avveniva in Francia. I suoi interessi di editore e di studioso si estendevano anche ad Eschilo e ad Eliano, del quale tradusse in latino l’opera Sulle milizie nel quadro di una fortuna considerevole degli scritti sull’arte della guerra che andò aumentando nel Cinquecento. «Operazione pioneristica» a ragione è considerata l’edizione del trattatello Del sublime riscoperto e via via sempre più apprezzato nel Cinquecento fino al Tasso. Lo stesso credo si possa dire per il suo De historica facultate nel quale attinge idee di teoria storica da autori particolari come Luciano e come Sesto Empirico, che erano tornati a nuova vita proprio sul finire del Quattrocento. Il Robortello nelle opere storico-biografiche correnti fu dipinto come una «personalità arrogante, polemica e vanagloriosa», e questa immagine negativa incominciò ad essere riconsiderata in modo più obiettivo e critico proprio dal Liruti. Iniziò così un cammino di rivalutazione critica del Robortello, come rilevò il Carlini, che, al di là delle confusioni e dei fraintendimenti generati dagli eccessi polemici del suo spirito critico – basti ricordare lo scambio di invettive col Sigonio –, ci consegna l’immagine più obiettiva dell’umanista e filologo udinese, assurto a fama europea.

Prima di lasciare il Cinquecento sarà opportuno gettare uno sguardo su un fenomeno poetico, culturale ed editoriale che si andò sviluppando anche in Friuli nella seconda metà del secolo: il fenomeno delle antologie poetiche che, probabilmente, hanno un modello nella raccolta di Rime per Irene di Spilimbergo (1561) e poi in quella delle Rime de gli Academici Eterei, apparsa a Padova nel 1567 per i tipi di Comin da Trino. L’orga­nizzazione di queste antologie, il loro valore letterario e culturale, i criteri di selezione sono temi su cui va concentrandosi l’interesse degli studiosi del Cin­quecento, che le vanno riproponendo con studi appropriati. Si tratta di raccolte miscellanee nate all’interno di sodalizi letterari e allestite per corrispondere a gusti e interessi del pubblico e per celebrare uomini politici, governanti o eventi rilevanti che nel Friuli andavano dal cambio del luogotenente alle costruzioni di fontane in piccoli centri della periferia friulana. Acquista sempre rilievo il ruolo degli ideatori e delle ragioni che le hanno sollecitate. Spesso queste miscellanee in volgare sono affiancate da sezioni di testi in greco e in latino, rappresentando sul piano linguistico il valore delle tre grandi tradizioni sancite dal Rinascimento. Un lavoro che si attende è proprio quello di uno studio sistematico di queste antologie, così come si sta facendo per quelle di area veneta e toscana, concentrando l’attenzione anche sull’oratoria politica e civile che appare molto praticata.
Qui ci limitiamo a segnalare quelle friulane più note che comprendono testi poetici di autori già affermati o letterati d’occasione, che devono essere tenuti presenti per capire le ragioni e le sollecitazioni civili e politiche di una profluvie di componimenti poetici, nati spesso dalla iniziativa di una società aristocratica di provincia non priva di ambizione. Cornelio Frangipane aveva dato un saggio insieme ad altri autori friulani nelle Rime diverse […] edite a Venezia da Gabriel Giolito de Ferrari: il libro primo uscì nel 1545 e il secondo nel 1547. Le succitate Rime in morte di Irene di Spilimbergo in onore di una nota figura di donna friulana apprezzata dai contemporanei e secoli dopo da Pietro Giordani e dal Croce, furono affidate alla editoria veneziana degli stampatori Do­menico e Giovanni Battista Guerra (1561) con l’intento di rivolgersi a un pubblico sovraregionale (vi sono compresi componimenti di Erasmo di Valvasone, di Marcantonio Tritonio, di Giovan Battista Rorario).

Al pari si registra una numerosa e qualificata rappresentanza friulana (Cornelio Frangipane, Tiberio Deciani, Erasmo di Val­vasone, Federico Frangipane, Bernardino Partenio e nella sezione latina Francesco Robortello e ancora Cornelio Frangipane e il Partenio) nel Tempio della divina signora Geronima Colonna d’Aragona, raccolta pubblicata a Padova da Lorenzo Pasquati nel 1568.
Consona alla natura del «Frioli, paese quantunque freddo lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare ‘fontane’» mi sembra un’altra famosa antologia di Rime, et versi di vari compositori de la Patria del Frioli sopra la fontana Helice, stampata anch’essa a Venezia nel 1566, al Segno della Salamandra per le cure del già ricordato Cornelio Frangipane, che volle così onorare Orsa Hofer (Helice è il nome greco dell’Orsa maggiore), dopo la morte, con la costruzione di una magnifica fontana a Tarcento in ricordo dell’ammirazione e della simpatia che egli nutrì in vita verso di lei. L’antologia mette insieme poesie di «oltre sessanta autori friulani», come annota puntualmente Silvano Cavazza. Vivono di questo clima encomiastico e celebrativo, in vita o in morte tante altre di queste antologie che per ragioni di brevità citiamo in parte. Nel 1568 a Venezia usciva alle stampe una miscellanea poetica curata da Vito di Dornberg, diplomatico austriaco (1529-1591), Il sepolcro de la ill. Beatrice di Dorimbergo con sonetti di Bernardo e Torquato Tasso che comparivano accanto a quelli, ad esempio, dei friulani Tranquillo Liliano e Giovanni di Strassoldo. Quest’ultimo realizzò una raccolta di Poemi scritti in parte in lingua italiana volgare, et parte latina da diversi nobili ingegni della Patria del Friuli in lode de la Sacra Real fabrica de lo Escurial, dunque, una raccolta istituzionalmente regionale in omaggio di Filippo II e nella temperie controriformistica dell’epoca. Com­paiono in questa antologia piuttosto diseguale nello stile e nel pregio poetico, ma unitaria nel tema, personalità note: Giulio Liliano, Vincenzo Giusti, Federico Frangipane, Erasmo di Valvasone, e meno note quali Valconio Valconi, Pietro Marchettano, Giovanni Spica ecc. Rapidamente ricorderemo le Poesie di diversi volgari et latine, per la morte di […] Alfonso Belgrado (Venezia, Rampazetto 1593); le Rime di diversi nobilissimi ingegni friulani per il matematico e ingegnere Marc’Antonio Barbaro raccolte da Tommaso Sabbadini e pubblicate dal Natolini nel 1594; le Rime di diversi elevati ingegni de la città di Udine raccolte da Giacomo Bratteolo, dedicate a Lidia Marchesi ed edite a Udine dal Natolini nel 1597; le Poesie latine, et volgari […] in lode […] di Nicolò Contarini […] uscite a Udine per i tipi del Natolini nel 1598; le Rime […] in morte […] di Giorgio Gradenigo, Udine, Natolini 1600; i Componimenti volgari et latini […] in lode […] di Vincenzo Capello […] luogotenente raccolti da Goffredo Sabbadini e stampati a Udine da Pietro Lorio del 1615. L’elenco potrebbe continuare. Ma non è qui il caso di andare oltre, perché crediamo che a questo genere di miscellanee celebrative, vere e proprie feste ed esternazioni di poesia collettiva con forte significato politico e sociale si debbano dedicare studi complessivi.

Prima di fermare l’attenzione sulla figura poetica eminente dell’età tardo cinquecentesca controriformistica e secentesca, Ciro di Pers, è opportuno far presente che si incontrano scorrendo il nostro Dizionario una serie di personalità, alcune di origine popolare, che sono state sospettate e accusate di luteranesimo o di eresia.
Senza entrare nel vivo di questo campo di studi assai complesso studiato da Adriano Prosperi e da altri storici, ci limitiamo a richiamare i nomi di Pier Paolo Vergerio il Giovane, nato a Capodistria nel 1498 e laureato a Padova nel 1524: dopo l’accusa di eresia, si dovette rifugiare in Svizzera e poi a Tubinga. In Friuli ebbe rapporti, come fa vedere bene Ugo Rozzo, con Vanni e Giuseppe degli Onesti, col notaio Marco Antonio Fiducio, con le clarisse di Udine. Ai «fratelli di Udene» avrebbe inviato tramite il nipote Aurelio suoi scritti; secondo Pio Paschini, addirittura avrebbe attraversato il Friuli durante un viaggio che lo avrebbe fatto incontrare con Mattia Hofer a Duino, con Cornelio Frangipane e con Pietro Percoto. E a questo proposito non si può non ricordare il romanzo storico di Fulvio Tomizza Il male viene dal Nord.
Tranquillo Liliani, nato a S. Daniele intorno al 1525, buon poeta cresciuto alla scuola dell’Astemio, di Raffaele Cillenio e del Partenio, e laureato in utroque iure a Padova, dovette trovare rifugio a Gorizia, dove morì nel 1581, sospettato anche lui di eresia.
È estremamente interessante, poi, il caso di Isabella della Frattina, proveniente da Padova (1542-1601), allieva del Citolini e sposa di Marco della Frattina di antica feudalità friulana: fu difesa dalla accusa di eresia proprio da Cornelio Frangipane, di eresia a sua volta sospettato come il Citolini.
La vicenda tragica di Domenico Scandella, detto Me­nocchio, nato a Montereale in Valcellina nel 1532, processato ripetutamente per le sue idee eretiche, piuttosto singolari, e infine condannato al rogo nel 1599 è molto nota per essere stata raccontata in modo rigoroso ed elegante da Carlo Ginzburg, per gli studi di Andrea del Col e per le indagini promosse da Aldo Co­lonnello. Chi studia la storia del Friuli deve essere preparato a casi e a situazioni anomale, talvolta estreme, createsi nelle sue vallate isolate sia della parte occidentale sia della Carnia.
Infine, nel Cinquecento, ebbero problemi con la vigilanza inquisitoriale Paolo Vasio (1498-1592), il già nominato Girolamo Bianco, Michele Braccetto pordenonese, forse allievo del Delminio, poeta in latino e in volgare, Orazio Brunetto (1521/22-1587), medico e autore di Lettere volgari edite nel 1548 presso Andrea Arrivabene toccate dal luteranesimo, Eusebio Pichissino, notaio gemonese conosciuto per un suo capitolo di intonazione burlesca, Nicolò Cillenio, di cui si è detto, e Giovanni Battista Clario (1570-1614), medico, poeta e letterato che fu coinvolto con Tommaso Campanella e Ottavio Longo da Barletta in una azione inquisitoriale per ateismo. Fu perseguitato per le sue idee ereticali il musicista settecentesco Domenico Franchini.

Poeta noto per «l’oltranza sperimentale metrica e linguistica», come osserva Mario Turello, estesa anche alla prosa latina e volgare, Ludovico Leporeo (1582-1655 circa) merita di essere ricordato per l’impronta marinista della sua poesia, pur essendo un «denigratore» del Marino.

Poeta a sé, nel suo moderato marinismo, Ciro di Pers (1599-1663) è una figura di assoluto rilievo nazionale anche per il prestigio e il carisma etico e umano che seppe esercitare su altri poeti e intellettuali che godettero della sua amicizia e frequentazione. Fece gli studi universitari a Bologna, dove divenne amico di Girolamo Preti e di Claudio Achillini. Visse l’intero dramma della guerra dei Trentanni, con l’appendice friulana della guer­ra di Gradisca (1615-1617), combattuta tra Venezia e l’Austria, l’invasione turca del 1645 e le epidemie del 1630 e del 1657. La sua vita, dunque, attraversò uno dei periodi più mutevoli e funesti del Seicento in Friuli, investito da «accidenti strani e nuovi; crudeltà e cortesie; remissioni volontarie e isforzate; disfide; abbattimenti, scaramuccie, rincontri, fazioni sanguinose, scorrerie, incendi assedi, invasioni […], espugnazioni di forti, di castelli e di terre, […], non senza sterminio di più di sessantamila persone estinte dal ferro, dall’infermità, dalla fame e da altri simili disagi e mali occorsi per l’occasione della guerra», come scrive all’inizio della sua Historia (Venezia 1623) Faustino Moissesso (1582-1625/27), storiografo piuttosto contestato, che, tuttavia, partecipò direttamente alla guerra di Gradisca. Il Pers fu di natura schiva, solitaria e sensibilissima, al punto che, dopo la morte di Taddea di Colloredo (Nicea) da lui amata, entrò a far parte dell’ordine di Malta. La sua poesia è un elegante equilibrio tra l’imitazione del Marino e i modi del classicismo tradizionale, maturato in una personalità riflessiva che si era nutrita delle letture dai grandi storici e filosofi greci e latini, Senofonte e Tucidide, Tacito, Seneca e S. Agostino, dai quali aveva la consuetudine di scegliere aforismi e massime, secondo una pratica letteraria tardo-cinquecentesca e secentesca piuttosto diffusa. L’into­nazione pensosa della sua poesia, dominata dal tema della morte, negli anni della maturità si compone in singolare continuità con le rime che egli scrisse in vita e in morte di Nicea, influenzate in modo misurato da stilemi ed echi petrarcheschi e agostiniani, con qualche concessione agli artifici della poesia dell’età barocca. La sua «dimensione» poetica, come sottolinea Salvatore Ritrovato, va oltre il marinismo ed ha un respiro europeo. Alcune sue composizioni civili, molto dignitose, le canzoni L’Italia avvilita e L’Italia calamitosa, sull’esempio petrarchesco, recano in sé una carica umana e civile e una capacità di rappresentazione dei mali dell’umanità, quali la guerra, la peste e le carestie, che sembrano precorrere la grande meditazione manzoniana. È significativo che tra i suoi amici ci sia stato il padovano Carlo de’ Dottori, che fu tra i poeti barocchi più sensibili, e tra i poeti stimati Giuseppe Salomoni (n. 1570), rivalutato dai maggiori critici della poesia barocca. Dopo l’edizione di Michele Rak e le acquisizioni di Lorenzo Carpané, credo sia giunto il momento di riprendere, come già si è detto per Erasmo di Valvasone, un lavoro di edizione e commento organico dell’opera di Ciro di Pers, comprendendo soprattutto la sistemazione del suo carteggio.
Vicinissimo per tante ragioni a Ciro di Pers fu il sandanielese Giulio Liliani (1560-1633), una delle figure più rilevanti della poesia del Friuli del primo Seicento. Studiò sotto la guida di Valconio Valconi e di Leonardo Carga, e fu tra i soci fondatori dell’Accademia degli Sventati. Svolse l’incarico di segretario patriarcale e conobbe l’esperienza dolorosa della detenzione carceraria rievocata in due capitoli in terza rima Il Forno e Il Camerone, che per fierezza e indignazione umana, ironia e sarcasmo verso ogni forma di servilismo costituiscono la parte migliore della sua poesia. L’altro grande nucleo tematico, ispirato dal sodalizio con Ciro di Pers a partire dal 1629, consiste nei sonetti In morte di Nicea e sugli Horologi. Prevalgono la dimensione religiosa e inquietante del tempo che scorre e la meditazione sulla morte. Quasi ottantenne la attese con uno spirito che appare molto discosto da quello ossessivo che dominò tanta parte della poesia e delle scritture secentesche: «Non deve temersi la morte, ma l’oltraggio della morte, la quale è più facile dove è meno temuta; anzi ella è bona, perché è fine de’ mali; è legge di natura, tributo e ufficio di tutti gli huomini, e se le cose naturali sono buone, buona è la morte perché il morire è naturale. È giusta, perché egguaglia le imparità del nostro nascimento. Nasciamo diseguali, pari moriamo. Picchia alle capanne de’ Pastori, egualmente alle Regge de’ Principi. All’altare di questo Nume dell’Erebo non s’appendono voti; perch’ella a tutti inesorabile non gli ammette, non gli essaudisce. Nessuno deve atterrirsi del suo fine, e se non sa, dove la morte l’aspetti; l’aspetti egli in ogni luoco, e pensi, che s’all’imortalità precede il ben morire, al ben morire debba precedere il ben vivere» (Biblioteca civica di Udine “V. Joppi”, ms 30, c. 1). Alla luce di siffatta meditazione, che riprende gli accenti mesti del poemetto religioso in ottave le Lagrime di penitenza, una sorta di congedo dell’autore dalla vita terrena, sorprende che la sua notorietà sia venuta dalla attribuzione al Tasso del poemetto L’impertinenza di Giuda da parte di Giacomo Scaglia, libraio veneziano che lo fece stampare nel 1627. Tra gli estimatori vi fu anche Lucella Zucco, donna colta che compose un sonetto di lode compreso nell’edizione del poemetto stampato dal Natolini a Udine nel 1601.
A Ciro di Pers fu legato anche Liberale Mottense, pordenonese (1591-1665 circa). Fu associato all’Accademia degli Sventati, degli Incogniti di Venezia – due sue novelle comparvero nella raccolta delle Novelle amorose del 1651 –, e alla Accademia degli Oscuri di Pordenone. Riunì il corpus delle sue poesie nel codice Marciano IX 258 (=7555) secondo una ripartizione che potrebbe essere stata esemplata su quella del Tasso. Nei suoi versi l’imitazione petrarchesca e marinista, echi classici e danteschi, o dal Pastor fido del Guarini, sono armonizzati con la lezione poetica di Ciro di Pers dominante tra i tanti altri poeti contemporanei, piuttosto modesti, che furono anche suoi corrispondenti o compagni in accademia. I momenti più riusciti della sua poesia sono in quei sonetti in cui raccoglie confidenze imbarazzanti di donne ascoltate nell’atto della confessione.
Il fenomeno della imitazione della poesia di Ciro di Pers non si esaurì con la fine della sua esistenza. Il poeta Nicolò Aloi, originario di Udine dove nacque nella parrocchia di S. Giorgio, può essere considerato un tardo epigono di Ciro di Pers. Studiò legge a Padova ed esercitò l’attività di notaio e di cancelliere nella città d’origine. Partecipò all’Accademia degli Sventati e alla Colonia Giulia dell’Arcadia. È singolare nell’Aloi il tentativo di un trattato filosofico Theses ex universa Aristotelis philosophia ad mentem Scoti doctoris Subtilis, edito da Schiratti a Udine nel 1669. Sia che trattasse nella sua poesia temi occasionali, a volte stravaganti e cronachistici, o di argomenti civili, morali e religiosi, egli manifestò nella Raccolta di poesie italiane evidenti suggestioni da Ciro di Pers.

Un’altra grande voce poetica, tutta calata nella realtà del Barocco, è Ermes di Colloredo (1622-1692), cugino di Ciro di Pers. Seppe interpretare l’identità e l’anima friulane con senso “veristico” e satirico in unità con la lingua, benché molte vicende della vita lo avessero tenuto impegnato fuori dal Friuli, a Firenze presso i Medici, in Germania a servizio di Venezia. Prosegue una tradizione consolidata nel Friuli di figure dalla personalità forte e dall’ingegno versatile, che esercitarono l’arte delle armi e quella della poesia o della letteratura. «Nella storia degli scritti del friulano – sintetizza bene Rienzo Pellegrini – l’avventura di Ermes è in tutti i sensi straordinaria», e colpisce la fortuna postuma della sua Raccolta di sonetti edita nel 1772, e riedita dal Murero nel 1785. Appartiene, secondo noi, a quel tipo di poeta per vocazione naturale e per passione che compone versi per sé o per gli amici e non pensa ad un pubblico ampio di lettori. Depone per questa impressione la natura della sua poesia, in cui i temi tipici della realtà del suo tempo, volti a stupire e a suscitare meraviglia con uno spiccato gusto per la teatralità, si fondono con una garbata sensibilità autobiografica, con un fine scetticismo verso la vita di corte per i limiti che pone alla «cara libertà», con il senso dell’amicizia e con un sentimento di religiosità sincera. Ci siamo diffusi un po’ su Ermes di Colloredo perché rappresenta una delle punte della letteratura in lingua friulana. In esso si troveranno precisi riferimenti a quella caratteristica e simpatica Brigata udinese, che è stata uno dei centri animatori della “friulanità” poetica e accademica.

L’età del Seicento rappresentò un periodo fortunato per la famiglia Caimo che si distinse particolarmente in alcuni suoi esponenti. Eusebio Caimo (1566-1640) fu nominato vescovo di Cittanova e vicario patriarcale. Nel campo della medicina e della filosofia Pompeo Caimo (n. 1568) raggiunse una notevole autorevolezza, al punto che potè reggere un contrasto filosofico-medico a Padova col Cremonini. Fu stimato anche come teorico della storia per il suo Parallelo politico delle repubbliche antiche e moderne. Si impegnò poi come commentatore di Dante. Infine Giacomo Caimo (1609-1679), nipote di Pompeo, si fece apprezzare molto per la sua dottrina giuridica. L’Archivio di Stato di Udine conserva un cospicuo Fondo Caimo, che con quello Liruti e Florio costituiscono una miniera ricchissima di documentazione storica e letteraria.

Al pieno Seicento appartengono Marco d’Aviano (1631-1699), predicatore, proclamato beato nel 2003, e il gemonese Basilio Brollo (1648-1704), missionario francescano in Cina e autore di due stesure di un vocabolario cinese-latino.

Le associazioni aristocratico-letterarie, alcune trasformate in Accademie, dovettero essere luoghi di relativa libertà di pensiero, che, tuttavia, non produssero fenomeni collettivi di produzione o di avanzamento rilevabile del sapere, almeno fino alla istituzione della “Società pratica di agricoltura” di Antonio Zanon nel 1762 a Udine. Di queste accademie nel contesto culturale delle attività editoriali di Gerardo da Lysa, di Domenico Basa, dei Lorio, dei Natolini, di Schiratti e, nel goriziano, di Giuseppe e di Giacomo Tommasini e della storia delle biblioteche nell’età veneziana in Friuli, ha trattato Cesare Scalon nella sua Introduzione. Ci limitiamo a notare che ebbe una certa notorietà l’Accademia degli Sventati, sorta nel 1606, per iniziativa di un gruppo di nobili udinesi, tra i quali merita ricordata per i meriti culturali la famiglia dei Gorgo, nella casa del ricordato Alfonso Antonini, e indicata da Carlo Goldoni nei Mé­mories tra le realtà felici della «Nation» friulana: «Il y a à Udine entr’autres choses une Académie de Belles Lettres, sous le titre Degli Sventati (des Evantés), dont l’emblême est un moulin à vent dans le creux d’un vallon avec cette Epigraphe: ‘Non è quaggiuso ogni vapore spento’» [Inferno, XXXIII, 105].
Più tardi, agli inizi del Settecento, la tendenza dell’Accademia degli Sventati di occuparsi di argomenti frivoli e fantastici, estranei alla realtà della vita, generò, nonostante i tentativi di rilancio di Camillo Gorgo, una reazione nello spirito nuovo degli studi storico-eruditi e scientifici del Set­tecento, che diede vita alla Colonia “Giulia” dell’Arcadia, fondata nel 1704 per iniziativa di Nicolò Madrisio (1656-1729) con il programma di togliere certi eccessi artificiosi entrati nei meccanismi tematici e stilistici secenteschi. L’esempio fu seguito nella seconda metà del secolo a Gorizia da Giuseppe Coletti, che fondò la Colonia “Goriziana” nel 1777, frequentata da Rodolfo Coronini Cron­berg, da Federico della Torre ecc. Nel frattempo a Udine il patriarca Dionisio Dolfin, molto attivo sul piano culturale, istituiva l’Accademia delle Scienze (1731), seguita nel 1768 da quella di Gian Girolamo Gradenigo.

Il Settecento friulano partecipò a pieno titolo al grande movimento dell’erudizione e dell’antiquaria italiana ed europea. Appare saldamente agganciato sul piano del metodo e dell’azione culturale con l’attività promossa da Ludovico Antonio Muratori, da Scipione Maffei e da Apostolo Zeno. Attraverso di essi indirettamente l’erudizione friulana proseguiva l’esempio dei Maurini francesi di Saint-Germain-des Prés. Come si è detto nella Presentazione al primo volume, e a questo volume, ed è chiarito bene nella voce di Ugo Rozzo, Gian Giuseppe Liruti (1689-1780), formatosi a Venezia presso i gesuiti e poi presso i somaschi, e perfezionatosi alla scuola di Pier Caterino Zeno, va considerato a pieno titolo un continuatore di questa tradizione settecentesca divenuta in lui solidissima dopo la “conversione” dalla scienza alla storia. Nel Liruti, autore come è noto di una Autobiografia, agì anche l’influsso del Vico vivissimo nel Veneto e fondamentale per capire il concepimento del Progetto ai letterati d’Italia per iscrivere le proprie vite di Giovanni Artico di Porcia (1682-1743), discendente della nota famiglia comitale che molto diede al progresso delle idee e delle lettere in Friuli. Poeta, drammaturgo, storiografo, Giovanni Artico si formò a Venezia ed ebbe per suoi interlocutori intellettuali il Muratori, il Vallisnieri, il Maffei, lo Zeno e l’abate Conti, esponenti di quella “Res publica litterarum” sorta nell’umanesimo e floridissima nel Settecento, e rinvigorita dal sistema della comunicazione epistolare tornato in auge. Il Porcia, pur operando lontano dai grandi centri attraverso i quali scorrevano i flussi culturali più rigogliosi, come sottolineato da Gilberto Pizzamiglio, seppe concepire un progetto storiografico innovativo, che però non andò oltre la pubblicazione di uno specimen consegnato alla Rac­colta del Calogerà nel 1728, con la comparsa della Vita del Vico. Il Liruti, a nostro giudizio, proseguì, sviluppando a mo­do suo questo progetto innovativo.
Nel grande solco della erudizione settecentesca si inserì Giusto Fontanini, nato a San Daniele del Friuli (1666-1736), storico e letterato non esente da limiti, e a cui va riconosciuto un ruolo di sicuro prestigio. Studiò legge a Padova dove manifestò molto presto il suo amore per i libri, per i documenti e per le biblioteche. Bibliotecario della raccolta di G.B. Imperiali a Roma, quivi svolse l’attività come docente universitario di retorica e di belle arti. Scrisse su l’Aminta del Tasso da lui illustrata e difesa contro la censura di Bartolomeo Ceva e compose Della eloquenza italiana, un’opera dalle complesse vicende editoriali che rifletteva natura e struttura della sua biblioteca, donata (1734) per il tramite del fidato nipote Domenico alla Guarneriana, costituendone così il secondo fondo principale. La contesa tra gli Estensi e lo Stato della Chiesa per il possesso delle terre di Comacchio valse a compromettere i buoni rapporti che Giusto Fontanini aveva intrattenuto in un primo momento col Muratori e rivelarono ad un tempo la differenza di statura scientifica tra i due.
Alla matrice muratoriana e zeniana riconduce anche l’opera degli udinesi Nicolò Madrisio e soprattutto quella di Giovanni Francesco Madrisio. Nicolò (1656-1729) lasciò delle relazioni dei suoi Viaggi per l’Italia, Francia e Germania che documentano la natura del viaggiatore illuminista, più che dell’erudito, nel senso che nel corso dei suoi viaggi seppe far tesoro e selezionare delle osservazioni che sono alla base di attività imprenditoriali in Friuli, quali lo sfruttamento della torba avviato dall’agronomo Fabio Asquini (1726-1818) a Fagagna. Una sua raccolta di Poesie toscane […] uscì nel 1713 presso la Tipografia del Seminario di Padova, che costituiva una avanzatissima officina letterario-filologica e filosofica legata allo Studio. Giovanni Francesco (1683-1747) era apprezzato dal Muratori e pubblicò l’opera di Paolino d’Aquileia. Godette della stima del patriarca Dionisio Dolfin che era al centro di una vastissima rete di rapporti tra studiosi ed eruditi che andavano via via scoprendo il grande patrimonio documentario, antiquario e archeologico del Friuli. Vorrei citare l’esempio significativo di Angelo Maria Quirini (1680-1750), il quale avendo intrapreso il vasto lavoro di edizione dell’Epistolario di Francesco Barbaro, ebbe come prezioso “agente” delle sue ricerche e trascrizioni dei codici guarneriani in Friuli l’abate Domenico Ongaro (1713-1796), su incarico del Dolfin.
Collegato al «Giornale de’ letterati d’Italia», sorto a Padova nel 1709 da un incontro tra lo Zeno, il Maffei e il Vallisnieri, e alla Raccolta del Calogerà fu l’archeologo Filippo del Torre nato a Cividale nel 1657 e morto nel 1717. E nella Raccolta del Calogerà furono accolti lavori dei fratelli matematici pordenonesi Girolamo e Giuseppe de Rinaldis, cresciuti alla scuola di A.L. Moro.
La rassegna potrebbe continuare con riguardo ad altri eruditi settecenteschi legati alla lezione muratoriana, quali Giuseppe Bini (1689-1773) collaboratore del Muratori, socio dell’Accademia delle Scienze di Dionisio Dolfin e dell’Accademia ecclesiastica di Daniele Dolfin, il domenicano Bernardo Maria de Rubeis (noto per i Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, Venezia 1740), Francesco Giovanni Beretta (1678-1768), espressione dell’erudizione legata al Muratori e al Calogerà e autore di un Trattato sulla nobiltà sintesi di visione cristiana e pensiero illuministico, Basilio Asquini (1682-1745) barnabita, Giandomenico Bertoli, il conte Antonio di Montegnacco. Emblematica del clima sociale e culturale del tempo può essere la tela di Giambattista Tiepolo La Virtù e la Nobiltà trionfano sull’ignoranza, proveniente da palazzo Caiselli e ora conservata nei Civici musei di Udine, opera che è stata letta da Arnaldo Marcone in sintonia col nuovo corso della cultura del Friuli, critico nella parte più illuminata nei confronti di una certa tendenza della nobiltà friulana all’immobilismo.

In quest’ottica di rinnovamento intellettuale e pratico si colloca l’economista, «mercante filosofo», Antonio Zanon (1696-1770) e con lui un gruppo di personalità, per lo più gravitanti nella sua cerchia. Ci riferiamo ai nominati Fabio e Basilio Asquini, a Pietro Someda nato nel 1707, a Ludovio Ottelio naturalista e poeta morto nel 1773, ad A.L. Moro, a Pietro Arduino e, soprattutto, ad Angelo Maria Cortenovis (n. 1727), docente della scuola dei barnabiti di Udine, vero centro di formazione delle classi dirigenti udinesi a partire dalla fondazione nel 1679. In questa scuola, come nel collegio privato di San Vito inaugurato dal Moro e attivo dal 1729 al 1758, i programmi riservavano particolari cure all’italiano, al latino e alla matematica; inoltre a Udine fu introdotto lo studio delle materie economiche e dell’agraria. è probabile che lo Zanon ne sia stato allievo, prima del perfezionamento degli studi avvenuto a Venezia. Si dedicò personalmente al rilancio della sua azienda agraria e al setificio su basi produttive avanzate. Per l’impostazione razionalistica del suo pensiero e del metodo, per la capacità gestionale nel campo dell’agricoltura, per la sua apertura alla grande erudizione – conobbe Giuseppe Toaldo e il Vallisnieri e il naturalista toscano Giovanni Targioni Tozzetti –, e per la fiducia nel ruolo della Accademia agraria da lui fondata nel 1762, vero centro propulsore del progresso economico e civile teorizzato nel De utilitate morale […] delle accademie […] (Udine 1771), lo Zanon può degnamente essere messo alla stregua dei grandi “novatori” lombardi del Settecento. In ogni caso fu il protagonista di un “risorgimento” illuministico udinese. Non avvenne per caso che lo storico e letterato Pietro Custodi abbia pensato bene di inserire una antologia di sue lettere nella raccolta di Scrittori classici italiani di economia politica, agli inizi dell’Ottocento. Nell’opera principale Dell’agricoltura, delle arti e del commercio in quanto uniti contribuiscono alla felicità degli stati, sette tomi di dissertazioni strutturate secondo il genere della lettera scientifica, dimostrò la sua fiducia nel progresso inteso nello spirito dell’età dei Lumi. Oggi si può guardare a lui come a un precursore del moderno imprenditore colto e cosciente del suo ruolo sociale.

Coetaneo dello Zanon, ma personalità diversa soprattutto per l’influsso che su di lui esercitò la tradizione aristotelica e umanistica, pur in un quadro di sue buone conoscenze dei filosofi empirici inglesi e dei razionalisti francesi, fu Iacopo Stellini (1699-1770), che diede il nome al liceo classico di Udine. Iniziò i suoi studi a Ci­vidale presso i somaschi, li proseguì a Venezia arricchendo la sua formazione filosofica con l’apporto del pensiero del Vico. Fu docente di Etica presso l’Ateneo patavino. L’influsso vichiano, sul quale sono tornati a dibattere Ste­fano Perini e Matteo Venier, può aiutare a capire l’impostazione erudito-filologica di alcune sue opere. Citiamo tra le più importanti il De ortu et progressu morum e l’Ethica, che, considerate accanto a una antologia gnomica di autori greci preparata in collaborazione con Paolo Bernardo (Venezia 1746), danno un’idea delle finalità del suo lavoro intellettuale, portato in luce dall’allievo Antonio E­vangeli.

Può servire a completare il quadro di quegli anni ricordare la presenza a Udine del Goldoni, segnata da una prova interessante: Il Quaresimale in epilogo del 1726 (G.B. Fongarino) che è un compendio in versi di un «Sermon admirable» dell’agostiniano Giacomo Cattaneo, ascoltato durante il soggiorno nella città e in Friuli col padre. Su questo viaggio, sulla città di Udine e sulla provincia del Friuli («la Patria del Friul») il Goldoni ha lasciato un saggio di rara finezza descrittiva nei Mémories (I, 15).

L’attività educativa molto efficace svolta dai barnabiti a Udine ebbe il corrispettivo a Gorizia e nell’area del Goriziano nella scuola molto quotata dei gesuiti, i quali attribuivano grande importanza alla poesia e al teatro. In questo ambiente furono educati Sigismondo d’Attemps e Carlo Michele d’Attemps: entrambi poi passati a compiere studi superiori nel collegio dei Nobili di Modena, che in passato era stato frequentato da altri nobili friulani discendenti dei Pers, dei Colloredo, dei Porcia, dei Valvasone, degli Spilimbergo e dei Manin. Sigismondo (1708-1758) conobbe a Modena il Muratori e divenne amico del Maffei. L’Accademia dei Filomeleti, di impronta letteraria e scientifica, da lui fondata ebbe tra gli accademici il Metastasio. Carlo Michele (1711-1774) ebbe dei contrasti con l’ambiente romano e soggiornò a Vienna, dove conobbe l’imperatrice Maria Teresa. Con l’abolizione del Patriarcato promulgata da papa Benedetto XIV il 17 luglio 1751 furono istituite l’arcidiocesi di Udine per l’area veneta e l’arcidiocesi di Gorizia per quella a contatto con l’Austria. L’Attemps fu eletto vescovo nel 1752 a Gorizia e si distinse per il grande impegno profuso nell’organizzazione della nuova realtà religiosa.

La poesia godette di un felice momento per merito di due medici ebrei: Isacco Luzzatto (1730-1802?) ed Efrayim Luzzatto (1729-1792). Isacco compose una raccolta di poesie le Storie di Isacco edite postume nel 1944; tra l’altro visse a Vienna dove conobbe il Metastasio. Efrayim è autore di una raccolta poetica stampata a Londra nel 1768, riedita a Berlino nel 1790 e poi più volte riproposta. Si guadagnò l’epiteto di “ebraico Petrarca” per le affinità delle sue poesie con moduli e i toni propri del Canzoniere.

Il salotto di Daniele Florio (1710-1789), del fratello Francesco (1705-1792) e di Lavinia (1745-1812) figlia di Daniele, sposata con Antonio Dragoni, costituisce senza dubbio il fatto letterario e culturale più significativo della seconda metà del Settecento per le implicazioni che vanno oltre i confini regionali, intrecciandosi in particolare con l’attività culturale esercitata dal Cesarotti a Padova. Daniele Florio fu poeta apprezzato nello spirito arcadico-classicista del suo tempo e la sua poesia per lo più d’occasione e accademica è uno specchio della sua capacità di tenere buoni rapporti con la Vienna di Maria Teresa e con i luogotenenti veneziani della Patria del Friuli. Conobbe il Metastasio e lasciò una raccolta di Poesie varie… edita nel 1777. Rimase in buona misura tiepido rispetto al pensiero e al rinnovamento illuministico. Al contrario la figlia Lavinia si situa nel panorama culturale italiano ed europeo del suo tempo come personalità carismatica e non certo priva di fascino culturale al pari di una Teotochi Albrizzi o di Giustina Renier Michiel. Tutto comincia a farsi più chiaro dopo gli studi sistematici sull’Epistolario “veneto” del Cesarotti di Gilberto Pizzamiglio, di Michela Fantato e di Fabiana di Brazzà, la quale, attraverso la documentazione dei fondi Florio e Caimo dell’Archivio di Stato di Udine, continua a rivelare importanti novità. Alla luce delle nuove conoscenze non sorprende che lo stesso Cesarotti abbia voluto includere nella raccolta canonica del suo Epistolario, curato dall’allievo Giuseppe Barbieri, lettere di Lavinia Florio. Ma è tutto il circolo letterario che esce rivalutato, comprendendo i più noti Quirico Viviani, personaggio per molti versi discutibile, l’abate Giuseppe Greatti, il conte Carlo de Rubeis, Girolamo Fistulario, Giuseppe Flamia, e meno noti come la carinziana Francesca Valvasor Morelli, moglie dello storico goriziano Carlo Morelli di Schönfeld (1730-1792), autore della Istoria della Contea di Gorizia. Sul piano politico possiamo sostenere che Lavinia Dragoni rappresentasse l’avanguardia della nobiltà illuminata friulana pronta all’incontro con i cambiamenti portati da Napoleone nel momento in cui la Repubblica di Venezia usciva dalla scena politica. Il 2 maggio 1797 Alvise Mocenigo lasciava il Friuli e il generale Bernadotte occupava Udine. L’atto conclusivo si consumò con l’arrivo di Napoleone a Villa Manin di Passariano e la firma del trattato di Compoformido il 17 ottobre 1799 tra Francia e Austria: Venezia scompariva e il Friuli diventava una provincia austriaca. Passarono altri settantanni perché si ricomponesse l’unità politica e storica con l’annessione all’Italia (1866). Trieste e la Venezia-Giulia attenderanno fino al 1918. Questa nostra panoramica potrebbe finire qui se non fosse che il Nuovo Liruti non può non richiamare l’attenzione su un capitolo delle Notizie […] che Gian Giuseppe Liruti aveva progettato di riservare alla vita e al ruolo Delle donne di Friuli illustri per lettere. L’idea da sé offre la misura dell’apertura mentale del Liruti. La sezione avrebbe dovuto far parte del Supplemento ai primi quattro volumi delle Notizie […], invece, come annota Ugo Rozzo, fu pubblicata nel 1865 in un opuscolo per le nozze Brandis-Salvagnini, curato da Vincenzo Joppi e stampato dal tipografo Giuseppe Seitz, su commissione di Giuseppe Caiselli, zio dello sposo. Sono diciassette personalità femminili recuperate, in numero «un poco scarso», anche per carenza di documentazione, osserva lo stesso Liruti, ma anche causa il genere femminile medesimo più attratto dall’«apparenza della bellezza, leggiadria, virtù morali e civili, che alle scienze». Incoraggia le donne per il futuro a dedicarsi al culto delle scienze. Nomina tre discendenti della famiglia Spilim­bergo, tutte vissute nel Cinquecento: Giulia da Ponte sposa di Adriano di Spilimbergo patrizia veneta, scrittrice di lettere eleganti; le figlie Irene – colta, creativa e dolcissima, nata nel 1541, morta in giovane età, apprese la pittura da Tiziano –, e la sorella Emilia: entrambe appassionate della poesia di Petrarca. Nel Cin­quecento vissero quasi tutte le altre donne di cui dà notizia il Liruti: Catella Marchesi, Lidia Sassi-Marchesi, Lucella Zucco, Creusa di Prata, ricordata da Girolamo Ruscelli nel Dialogo delle belle donne (1554), e così Beatrice Dorimbergo, Ortensia Arrigona-Manina anch’essa nominata dal Ruscelli, Giulia di Colloredo, Ortensia Arcolo­niani, Alda Stras­soldo. Al Settecento appartiene Giulia Arcoloniana monaca delle dimesse di Udine, nata nel 1734, la quale conobbe il latino, la letteratura volgare e imparò il francese: compose sonetti e un trionfo dell’amore divino su imitazione del Petrarca. Infine il Liruti accenna a Dianora Manina autrice de Le cortesie e discortesie degli uomini e delle donne. Senza entrare nel merito di questa scelta, si noterà tuttavia l’assenza di Maria Savorgnan, compagna del Bembo, donna di rara finezza come scrittrice di lettere in volgare e poetessa originale: il Liruti la considera giustamente veneziana. Non fa cenno, se abbiamo visto bene, all’opinione molto cauta sulle donne di Iacopo di Porcia espressa in età giovanile nell’opuscolo De vizi delle donne, salvo poi ravvedersi. Se ne accorse Giuseppe Marcotti che nella citata raccolta di «curiosità» Donne e monache mostra di conoscere bene il «diligentissimo Liruti», dal giudizio del quale non si allontana di molto, quando reputa «pretensione» le virtù intellettuali e artistiche attribuite alle donne friulane del Rinascimento dalla «moda laudatoria». Trova molto più vera la supplica di «Lena Rossa erbaruola» che chiese al consiglio di Udine un aiuto per istruire i figli. Manca un cenno anche alla digressione sulle donne famose del Friuli fatta da Erasmo di Valvasone nella Tebaide VIII, vv. 37-51. Si noterà il silenzio anche su Lavinia Florio.

Nel Nuovo Liruti ricorrono i nomi di altre donne, più o meno note, ad esempio donne del popolo, personalità presenti in ragione di parametri di giudizio adottati nella scelta diversi ora rispetto al tempo del Liruti. Una menzione particolare merita la beata Elena Valentinis da Udine (1395/96-1458), studiata da Andrea Tilatti e da altri studiosi sul piano agiografico. Accanto a Paola Gonzaga (1464-1496), nominata dal Liruti in quanto sposa di Leonardo ultimo discendente dei conti di Gorizia (m. 1500), è ricordata Bartolomea Fontana, letterata coronata in occasione di un “certamen” poetico, svoltosi a quanto sembra, a Pordenone nel 1486; la già nominata Isabella della Frattina (1542-1601) padovana: «donna di rara intelligenza» come la riconobbero i giudici che la processarono per l’accusa di eresia, dalla quale fu difesa dall’ottimo avvocato Cornelio Fran­gipane. Come riferito sopra, andò sposa a Marco della Frattina esponente di quella nobiltà friulana non insensibile ai fermenti della Riforma luterana. Dal popolo proveniva Angioletta delle Rive, nata a Pordenone intorno al 1580: rimase vedova molto giovane e per procurarsi da vivere si dedicò alla cura dei malati con sistemi empirici. Fu accusata di maleficio e condannata: morì nel 1651. La poetessa Teresa Zai (1675-1735 circa), identificata da Giacomo Baldissera con l’orsolina Giovanna Teresa, compose poesia devota sul modello del Maggi e del Lemene. Scrisse in italiano, veneziano e friulano: una raccolta di rime è conservata nel manoscritto 169 della Biblioteca civica di Udine. All’ordine delle orsoline appartenne anche la monaca Caterina Lambertina Pauli-Stravius, nata nel 1633 e vissuta fino al 1693. Tra le pittrici meritano di essere ricordate Felicita Sartori Hoffmann e Lucietta Ruggieri vissute nel Settecento.

Per quasi quattro secoli bene o male il Friuli inseguì le sorti della Repubblica, fino, dunque, alla sua scomparsa come entità politica autonoma, non certo come centro e cuore di una tradizione umanistica, civile, politica e religiosa di rilievo universale. Gli storici e gli studiosi che si sono occupati di questo periodo espressero sul governo di Venezia in Friuli opinioni diverse, divenute più severe e radicali nei giudizi di alcuni storici e intellettuali della seconda metà del Novecento, interessati a portare in luce quell’identità friulana e patriarchina che Venezia avrebbe compresso. Altri storici, come afferma correttamente Scalon nella sua Introduzione con riferimento ad Amelio Tagliaferri, a Gino Benzoni, a Giuseppe Trebbi, a Paolo Cammarosano, a Luciana Morassi hanno cercato di far prevalere le ragioni obiettive e le verità dei fatti politici ed economici. Allo stesso criterio hanno cercato di ispirarsi anche i responsabili del Nuovo Liruti, ai quali stanno a cuore l’avanzamento delle conoscenze scientifiche, progredite moltissimo nel trentennio di attività dell’Ateneo udinese. Potrebbe essere questo l’orientamento più adatto per servire alla storia del Friuli e degli uomini e donne che hanno reso «illustre» questa terra «soggetta attraverso ai millenni della civiltà a vicende tanto svariate», come ha sottolineato Pio Paschini. Se questo Dizionario contribuirà a tener viva la civiltà e la cultura di questa singolare «porta orientale d’Italia», per usare una felice espressione del linguista Matteo Bartoli, ci sentiremo appagati dell’impegno speso.

Claudio Griggio

Mss ASU, NA e BCU, Principale, A. Belloni, Epistolae ad familiares.
[I. di Porcia], Opus Iacobi comitis Purliliarum epistolarum familiarum, s. n. l. t. [1505?]; B. Chiurlo, Carlo Goldoni e il Friuli nel Settecento, Gorizia, Pallich & Obizzi, 1910; A. Battistella, Udine nel secolo XVI. La religione e i provvedimenti economico-sociali, Udine, R. Deputazione friulana di storia patria, 1924; C. Goldoni, Mémoires, in Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di G. Ortolani, I, Milano, Mondadori, 1935, 63-80; Leicht, Breve storia; Paschini, Storia; Comelli, Arte della stampa; Società e cultura del Cinquecento nel Friuli occidentale. Studi, a cura di A. Del Col, Pordenone, Edizioni della Provincia, 1984; G. Auzzas, Pers, Ciro di, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, Torino, Utet, 19862, 417-419; Storia della Repubblica di Venezia. Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della terraferma, a cura di G. Cozzi – M. Knapton, Torino, Utet libreria, 1986; Pellegrini, Tra lingua e letteratura; F. Bianco, La crudel zobia grassa. Rivolte contadine e faide nobiliari in Friuli tra ’400 e ’500, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1995; Scalon, Produzione; S. Morgana, Il Friuli-Venezia Giulia. Lingua nazionale e identità regionali, in L’italiano delle regioni, a cura di F. Bruni, Torino, Utet 19972; Dalla Serenissima agli Asburgo. Pordenone Gemona. L’antica strada verso l’Austria. Studi e ricerche, a cura di L. Gandi, Treviso, Vianello libri, 1997; E. Muir, Mad Blood Stirring. Vendetta and Factions in Friuli during the Renaissance Italy, Baltimora/London, The Johns Hopkins University Press, 1998; G. Trebbi, Il Friuli dal 1420 al 1797. La storia politica e sociale, Udine, Casamassima, 1998; Aquileia e il suo patriarcato, Atti del convegno internazionale di studio (Udine, 21-23 ottobre 1999), Tavagnacco, Arti grafiche friulane, 2000; L. Casella, I Savorgnan. La famiglia e le opportunità del potere: secc. XV-XVIII, Roma, Bulzoni, 2003; Giovanni di Strassoldo, Udine (1547-1610). Una vita tra armi, scienza e lettere, a cura di D. Frangipane Strassoldo, Udine, Forum, 2005; G. Pillinini, La questione del dominio veneziano in Friuli: mito e antimito, «Atti dell’Accademia udinese di scienze, lettere e arti», 10 (2006), 61-72; C. Griggio, Petrarca a Udine nel 1368, «Studi petrarcheschi», 20 (2007), 1-56.