Il nuovo Liruti

L’Età contemporanea – Introduzione

 

Il Friuli negli ultimi due secoli

Passage du Tagliamento, incisione di Charles Motte raffigurante una delle due grandi battaglie friulane di Napoleone Bonaparte del 1797.

Una «regione cardine tra due mondi differenti, quello del Mediterraneo e quello dell’Europa Centrale», «luogo d’incontro fisico, etnico ed economico, vera terra di contatti e di scontri e nello stesso tempo una regione ben individualizzata, sintetizzata nell’appellativo friulano di “Piccola Patria”, una regione geografica varia, vivace e non un isolato o un laboratorio, dove i fatti umani si sterilizzano»: con questa definizione nel 1977 una studiosa francese, Brigitte Prost, apriva il suo volume dedicato a Il Friuli regione di incontri e di scontri (Le Frioul région d’affrontements). Parafrasando il titolo della Prost, si potrebbe anticipare che qui si parla di una regione che, pur essendo stata con alterne vicende luogo di incontri o di scontri tra popoli diversi, non ha mai perso la sua identità; anzi, questa sua collocazione ha contribuito a caratterizzarla nel corso del tempo. Durante gli ultimi due secoli sono ancora gli sconvolgimenti provocati dalle guerre a scandire le fasi di una storia: aperta dall’arrivo delle armate napoleoniche che posero fine alla Repubblica veneta e alla Patria del Friuli (1797), e proseguita con il passaggio dell’area regionale dalla dominazione austriaca (1797-1805) a quella francese (1805) e il ritorno, dopo la disfatta di Napoleone, all’Impero degli Asburgo (1814). L’unità amministrativa del Friuli sotto la dominazione asburgica si protrae, sia pure con qualche scossone dovuto ai rivolgimenti del 1848, per circa mezzo secolo fino alla terza guerra di indipendenza, quando la parte “veneta” del Friuli entrò nel Regno d’Italia (1866), mentre il Friuli “goriziano” rimase sotto gli Asburgo per altri cinquant’anni fino alla fine della prima guerra mondiale, considerata dalla storiografia come il compimento del Risorgimento italiano. Il Novecento vide l’affermarsi dell’ideologia fascista, la tragedia della seconda guerra mondiale (1939-1945), l’occupazione del Friuli da parte dei tedeschi e dei cosacchi, la nascita della Resistenza, e infine la creazione di un “confine orientale” che, oltre a cambiare ancora una volta i confini della regione, rappresentò per decenni la linea di demarcazione tra due mondi e sistemi politici e ideologici contrapposti: quello orientale e quello occidentale. Il terremoto del 1976 con la sua forza catastrofica fece passare tutto in secondo ordine. La ricostruzione e una situazione di pace progressiva diede nuovo vigore alla regione di confine, chiamata a svolgere, con improvvisa accelerazione dopo la catena di mutazioni seguite agli eventi del 1989, una funzione di incontro e di dialogo nel cuore dell’Europa, partendo dal riconoscimento e dalla valorizzazione delle minoranze linguistiche presenti sul proprio territorio, da quelle radicate germanofone come a Sauris e a Timau, o diffuse nelle zone vallive della Valcanale, a quelle antichissime della Slavia friulana e del Friuli goriziano. Ripercorrendo gli avvenimenti degli ultimi due secoli, ritorna in mente l’esortazione di Francesco di Manzano a studiare la storia di «questo nostro Friuli, vostra Patria e mia», perché, «se lo studiare le storie che narrano gli avvenimenti dei popoli e delle nazioni ci reca, non v’è dubbio, ammaestramento e diletto, molto maggiormente si otterrà e questo e quello collo studio della storia della propria Patria». L’invito del di Manzano viene a coincidere con una aggiornata impostazione di didattica della storia, che si propone di partire dalla conoscenza del proprio territorio per allargarla successivamente in cerchi concentrici sempre più ampi fino ad arrivare all’Europa e al mondo intero. In realtà le vicende del Friuli sono difficilmente circoscrivibili in un orizzonte locale. «La storia friulana – scrive Pier Silverio Leicht – ha di rado la fisionomia d’una “storia locale” ed è quasi sempre invece in stretta relazione con peculiari vicende della storia europea. Da ciò, i suoi numerosi elementi tragici ed epici». Si potrebbero aggiungere a questo proposito le parole pronunciate da Pier Paolo Pasolini: «A vegnarà ben il dì che il Friûl al si inecuarzarà di vei na storia, un passat, na tradizion [Verrà pure il giorno in cui il Friuli si accorgerà di avere una storia, un passato, una tradizione]».

La storiografia friulana dell’Ottocento

Merito principale della storiografia friulana ottocentesca, come rileva Carlo Guido Mor, fu soprattutto quello di aver salvato dalla dispersione e riordinato una massa notevole di documenti, che sarebbero serviti più tardi a studiosi quali Pio Paschini e Leicht per tracciare un profilo ampio e articolato della storia del Friuli. Vi contribuirono ricercatori di documenti e di libri manoscritti, bibliotecari, bibliografi, storiografi, eredi in parte della grande tradizione erudita del Settecento, che aveva avuto nel nostro “modello” Gian Giuseppe Liruti un antesignano autorevole. E fu proprio nel secolo XIX che andò maturando la coscienza storiografica dell’identità storico-territoriale e culturale friulana. Indipendentemente dai giudizi delle singole tesi, le coordinate storiche e geografiche sono per tutti quelle della “Patria” friulana, alla quale sia gli studiosi di orientamento filoasburgico, sia quelli di orientamento nazionale filoitaliano riconobbero una sua specifica identità. Alla “Patria” Fabio di Maniago dedicò una delle prime opere della storiografia ottocentesca, la Storia delle belle arti friulane (Venezia, 1819): un vero e proprio catalogo ragionato che presenta le opere realizzate dai pittori friulani in modo organico e autonomo da Venezia. Una visione unitaria della storia friulana è stata concepita anche dall’abate Giuseppe Bianchi, che alla “Patria del Friuli” dedicò la sua imponente raccolta di documenti medievali, ricordando come non ci possa essere patria senza la memoria del passato: «Non plausu tibi blandientium, sed rerum bene gestarum memoria vivis tu, Patria, et vales». L’emblema delle memorie patrie per Bianchi era costituito da Aquileia, la città romana divenuta sede del patriarcato, alla cui grandezza e caduta si riferiva con enfasi romantica. Alla vigilia della rivoluzione del 1848 e di nuovo in prossimità della seconda e terza guerra di indipendenza, Bianchi parla del Friuli “nostra patria”, visto nell’orizzonte politico-culturale dell’Impero asburgico. Giuseppe Valentinelli, direttore della Biblioteca Marciana e incaricato dall’Accademia delle scienze di Vienna di redigere la Bibliografia della regione (1861), presenta il Friuli come un paese inglobato nell’Impero asburgico: «fra tutti i paesi che compongono l’impero austriaco […] uno appena che meno sia conosciuto e che più meriti di esserlo». Pur riconoscendo la variabilità dei confini, legata alle vicende complesse e travagliate dei secoli precedenti, Valentinelli vedeva nella comunanza di memorie risalenti al patriarcato di Aquileia, nella particolarità della lingua e nella configurazione fisica del territorio, gli aspetti che univano il Friuli “veneto” e il Friuli goriziano: «Infatti sono così stretti i rapporti fra le due provincie, come lo dimostrano la comunanza delle origini e del dialetto, la natura del suolo, le scoperte archeologiche, la dipendenza dal patriarcato d’Aquileja, le vicende politiche, che la loro separazione nuocerebbe all’insieme». Aquileia, uno dei miti su cui si fonda l’identità del Friuli, era interpretata dalla storiografia asburgica quasi come un’anticipazione dell’Impero. Da parte asburgica era stato Carl von Czoernig per primo a mettere in evidenza il significato “non del tutto italiano” del patriarcato, la sua collocazione sovrannazionale e la sua funzione mediatrice. Per capire quali suggestioni il nome di tale luogo richiamasse all’interno dell’Impero nel corso dell’Ottocento e agli inizi del secolo successivo, basta leggere quanto scriveva nel 1906 il conte Karl von Lanckoron´ski nel volume su La basilica di Aquileia. La missione storica della Chiesa aquileiese era stata, a suo giudizio, quella di unire nel nome del Vangelo nazioni diverse, anticipando il ruolo politico dell’Impero asburgico: «La ragione della potenza che Aquileia poté esercitare per secoli fu la sua posizione al confine d’Italia, su quella frontiera lungo la quale il mondo latino, quello germanico e quello slavo cominciavano a fondersi […]. Dal punto di vista politico […] il patriarca di Aquileia fu precursore della monarchia asburgica che, alle soglie di un Oriente in perenne trasformazione, era destinato a unificare frammenti di tutti i popoli della famiglia europea». Una considerazione ulteriore riguarda il progresso non omogeneo della storiografia friulana. Gaetano Perusini osservava con ragione che ben poco è stato detto dell’azione svolta alla fine del Settecento dalla nobiltà goriziana per il mantenimento dell’individualità politica del Friuli. Molto più documentati sono gli interventi degli studiosi di parte asburgica sul Friuli nel corso dell’Ottocento. Presentando all’Accademia delle scienze di Vienna una sua relazione (Über Friaul, seine Geschichte, Sprache und Alterthümer) il 16 gennaio 1853, Karl von Czoernig lamentava la poca attenzione che la scienza storica e glottologica del tempo, almeno nel contesto dell’Impero, riservava alla vicenda plurisecolare del Friuli. I lavori pubblicati successivamente dallo stesso Czoernig e il ruolo da lui svolto all’interno dell’amministrazione asburgica diedero uno stimolo importante alle ricerche sul Friuli, sulla sua popolazione e sulla sua lingua nella seconda metà del secolo: fu lui a chiedere all’Accademia di Vienna, tra l’altro, il sostegno finanziario per il dizionario di Iacopo Pirona e ad appoggiare l’ambizioso progetto di scrivere «la storia di Aquileia e quindi dell’intero Friuli». Parlando di questa nuova e intensa attenzione culturale per la regione, Vittorio Peri osservava che «in modo solo in apparenza paradossale, non furono dei friulani ad avvertire e a richiedere il riconoscimento della loro identità e dei connessi diritti civili, ma per lo più intellettuali e studiosi di altra origine etnica e culturale; mentre in vari casi degli uomini del Friuli, culturalmente e politicamente impegnati, furono spesso portati a rifiutare la nuova indagine così impostata, giungendo talvolta a negare dei dati, o evidenti o documentati sul piano delle discipline scientifiche, in quanto la condannavano in via pregiudiziale come espressione ideologica e strumentale della cultura austriaca dominante». Viene spontaneo pensare a questo proposito a Prospero Antonini, che in un suo saggio dalla forte connotazione ideologica, scritto nel 1865, si spingeva a negare anche la specificità linguistica del friulano, nel timore che qualcuno ritenesse il «paese ibrido e di scarsa italianità» e che «questa italianità nella parte più orientale del Friuli poco a poco vada morendo soffocata dalla prevalenza numerica delle due schiatte friulana e slovena». Uno dei personaggi di maggiore rilievo della cultura friulana del secondo Ottocento fu il medico Vincenzo Joppi, che insieme con il fratello Antonio, ingegnere e architetto, gettò le basi di «quella meravigliosa collezione di manoscritti, di pergamene e di libri riguardanti in qualsivoglia modo questo antico stato aquileiese». Vincenzo conosceva la lingua e letteratura tedesca, appresa a Udine negli anni del liceo, che gli tornò particolarmente utile nei contatti con gli studiosi e gli istituti culturali di area austro-tedesca, quando esordì nel mondo degli storici e soprattutto quando divenne bibliotecario civico nel 1878. Da quel momento consacrò la sua vita alla nuova attività e la sua figura divenne il punto di riferimento costante per tutti gli studiosi, italiani e stranieri, che cercavano documenti e notizie di cultura friulana. Per quanto riguarda l’interpretazione della storia friulana, pur riconoscendo che l’età patriarcale era stata «il periodo più importante della storia del Friuli», ognuno «può immaginare facilmente», egli scriveva, «qual disordine, anarchia, miseria ed ignoranza abbia dominato nel paese» nel periodo (1019-1251) in cui il Friuli «fu retto da patriarchi aderenti all’Impero e quindi nemici di Roma». Nel Nuovo contributo alla storia dell’arte nel Friuli ed alla vita dei pittori e intagliatori friulani, pubblicato nel 1887, egli riprendeva gli stereotipi della storiografia risorgimentale di un Friuli risvegliatosi dal «lungo sonno dei tempi agitati e calamitosi» (il medioevo) per aprirsi al «benefico influsso del rinascimento delle lettere e delle arti che diffondevasi dai centri più colti della penisola». Non mancava per altro di fare un appello «alla pietà e all’amore dei concittadini, cui sta a cuore l’onor della patria», per salvaguardare dalle ingiurie del tempo e degli uomini le memorie del proprio passato. L’inventariazione della raccolta privata di famiglia, donata alla città da lui e dal fratello dopo la morte, consente di apprezzare in tutta la sua importanza il ruolo da loro svolto nella salvaguardia e nella promozione del patrimonio storico-culturale del Friuli. Un apporto notevole alla conservazione delle memorie della patria friulana fu dato da Giuseppe Occioni Bonaffons, un veneziano chiamato nel 1867 ad insegnare nel Liceo di Udine e introdotto nelle istituzioni culturali della città di Udine (Biblioteca civica e Accademia) da Giulio Andrea Pirona, suo collega di insegnamento. Occioni aggiornò la Bibliografia storica friulana di Valentinelli con la pubblicazione di tre volumi, che uscirono rispettivamente nel 1883, nel 1887 e nel 1899. Nella prefazione del primo volume l’autore tracciava i confini storico-geografici del Friuli, riprendendo la concezione da tutti accettata di Friuli come “regione naturale”: «I limiti geografici posti a questa Bibliografia sono gli stessi seguiti nell’opera del Valentinelli, cioè tra Livenza e Timavo, inchiudendovisi, oltre il territorio della provincia di Udine (che nella parte alta giunge presso il Piave, occupando quasi tutto il bacino del Vajont), quello del Friuli orientale e del distretto di Portogruaro in provincia di Venezia, il quale ultimo fino all’anno 1822 era compreso nel Friuli». Sul problema dei confini della “Patria del Friuli”, nella prospettiva di un completamento delle lotte risorgimentali, Occioni ritornava anche nella Prefazione al volume successivo del 1887. Un posto a parte nella storiografia friulana merita Francesco di Manzano, considerato scrittore per certi versi atipico e attardato rispetto alla produzione storica coeva, che tra il 1858 e il 1879 portò a termine gli Annali del Friuli ossia Raccolta delle cose storiche appartenenti a questa regione. Nonostante le riserve che si possono nutrire nei confronti di una ricerca soprattutto erudita e non sempre attenta alla valutazione critica delle fonti, allo studioso di Giassico va riconosciuto il merito di avere delineato un profilo del Friuli considerato nella sua unità storica e naturale, come egli stesso spiega nell’introduzione dell’opera: «Il mio desiderio nel raccogliere queste Memorie Friulane, oltre quello di presentarti riuniti, per quanto mi era possibile la maggior parte dei fatti de’ nostri Padri, fu pur anche di sollevare da pesante fatica quell’ingegno che un giorno volesse assumere il grave incarico di tessere la Storia della Patria». L’indirizzo unitario della storia del Friuli e al tempo stesso l’orizzonte dell’unità nazionale sono presenti anche nel Compendio di storia friulana, dato alle stampe nel 1876 e concepito come manuale di storia patria dedicato «alla studiosa gioventù friulana». L’interesse centrale dello studioso friulano, osserva Fulvio Salimbeni, è il Friuli patriarcale, visto come «momento aureo della storia friulana, quello nel quale, per dirlo con le parole del Compendio, si plasmò “l’impronta d’uno stato proprio”, dove, forse, è possibile scorgere gli esordi di quel mito patriarchino, giunto agli estremi in questi ultimi anni sotto la spinta di motivazioni tutt’altro che storiografiche, bensì totalmente ideologiche». Se di Manzano visse un’esistenza tutto sommato appartata in rapporto esclusivo con gli ambienti culturali della regione, i principali protagonisti del Risorgimento, da Antonini al Valussi, da Ascoli a di Prampero, solo per citarne alcuni, si mossero tra Milano, Torino, Firenze e Roma, entrando in contatto diretto con gli ambienti più avanzati della vita intellettuale nazionale. Prospero Antonini è considerato da Carlo Guido Mor «l’unico laico rappresentante della storiografia romantica», e i suoi lavori su Il Friuli orientale (Milano, 1865) e Del Friuli ed in particolare dei trattati da cui ebbe origine la dualità politica di questa regione (Venezia, 1873) «come memorie defensionali, ed un poco soggette a riserve, dato il momento e lo scopo per cui vennero scritte: quello della preparazione della guerra, prima, poi della pace del 1866». La posizione di Antonini sulla questione dei confini “naturali” dell’Italia rappresentò dal punto di vista ideologico il riferimento obbligato per i circoli moderati dell’emigrazione politica. In conformità a questa impostazione politico-ideologica, egli interpretava anche le due fasi della storia friulana corrispondenti all’età patriarcale e a quella veneziana: a Venezia riconosceva il merito di aver impedito che la “Patria del Friuli” cadesse in mani imperiali e indirettamente sotto il dominio temporale dei papi, e di aver conservato una forma particolare di autonomia. Della “piccola patria”, difesa con orgoglio nella sua specifica identità entro l’orizzonte culturale e politico della “grande patria” della nazione italiana, parlava l’altro dioscuro friulano del Risorgimento, Pacifico Valussi. Giornalista, buon conoscitore delle lingue e letterature contemporanee, particolarmente attento ai problemi politici e sociali del suo tempo, negli anni milanesi dell’esilio aveva fondato insieme al collega ebreo-ungherese Ignác Helfy il periodico «L’Alleanza», che intendeva promuovere legami più stretti tra i movimenti nazionali dei popoli slavi e quelli italiano e magiaro. Ad Ignác Helfy Valussi dedicò il volume Il Friuli. Studii e reminiscenze, pubblicato a Milano nel 1865 alla vigilia della terza guerra di indipendenza. Accanto alla nostalgia dell’esule, si avverte in queste pagine il duplice senso di appartenenza alla piccola e alla grande patria, che si esprimono da una parte nella rivendicazione dei confini naturali dell’Italia «laddove la natura, la lingua, la storia e la civiltà li posero», dall’altra nella riaffermazione dell’identità storica e culturale del Friuli, fatta da un uomo «che si gloria d’essere friulano in Italia». La lotta politica per l’unità del Friuli dal Livenza al Timavo è certamente finalizzata, anche per Valussi, al compimento dell’unità nazionale; ciò, tuttavia, non rende meno convinta la richiesta che il Friuli partecipi a questo processo con dignità e nel pieno riconoscimento della sua specifica identità: «La conquista, la politica, l’economia amministrativa hanno più volte disgiunto ciò che la natura aveva unito; ma la storia stessa, la quale ci parla del Ducato, della Marca, del Patriarcato, della Patria del Friuli, mostra evidentemente che la unità naturale di questa italica provincia aveva contribuito sempre a costituirne la individualità politica. Certo e duchi e marchesi e patriarchi ne superarono sovente i confini […], ma questi erano più confini politici che naturali». La continuità delle memorie, l’assetto fisico di una “provincia naturale”, il carattere della gente, la singolarità della lingua e della cultura donano al Friuli pari dignità rispetto alle altre regioni italiane: «l’importanza della sua posizione geografica, laddove s’apre più facile la porta alle genti straniere, il carattere della stirpe che l’abita, la singolarità del dialetto ch’essa parla, una certa originalità paesana nelle opere dell’ingegno e specialmente nell’arte, condizioni speciali che distinguono il Friuli» e che fondano il suo diritto a conservare il proprio nome «non soltanto nell’Italia unita, ma anche nella Venezia». Pur polemizzando con la richiesta di riconoscere al Friuli il titolo di “nazione”, avanzato da alcuni studiosi d’oltralpe (fra cui lo Czoernig), Valussi esprimeva l’esigenza che all’indipendenza ed unità della nazione italiana corrispondesse il riconoscimento di una provincia naturale quale «fonte rigeneratrice delle forze nazionali» e «condizione necessaria d’una vita rigogliosa e diffusa per tutto il vasto corpo della patria commune». Un’eco di quanto alcuni studiosi proponevano dall’altra parte del confine in merito alla “nazione” friulana, si può cogliere anche negli interventi di Giandomenico Ciconi, per il quale – come si evince nel suo discorso Intorno al Friuli letto all’Accademia di Udine nel 1843 – è dalle peculiari vicende storiche che il Friuli trasse «un’esistenza sua propria, uno spirito di nazione anziché di provincia, che in seguito non affatto s’estinse, benché nel secolo XV divenisse suddita di Venezia». Sullo stesso concetto, che associa in modo del tutto spontaneo il termine di “patria” a quello di “nazione”, ritorna ancora Ciconi nell’illustrare Udine e la sua provincia nel 1862: «Altra singolarità del Friuli è il titolo di Patria […]. Patria del Friuli era una divisione etnografica per non dir nazionale, e indicava un popolo convivente sotto la stessa legge in una data estesa regione […]. I Friulani consideravano lor Patria l’aggregato di varie piccole provincie, e deliberavano nel loro Parlamento guerra, pace o tregua per tutta la Patria, o pubblicavano leggi pel buono stato dell’intera Patria. Perciò questa denominazione indicava nel Friuli se non una tal quale nazionalità, certamente una specie di confederazione, un’autonomia regionale».

La storiografia friulana del Novecento

Veduta della pianura del Friuli austriaco e veneto da Gorizia al mare, olio su tela di Simeon Goldmann, 1779 (Gorizia, Fondazione CARIGO).

Se da un lato la storiografia friulana ottocentesca, pur con il contributo notevole di documentazione raccolta, rimase sostanzialmente legata all’ideologia risorgimentale e non riuscì a produrre opere di sintesi che avessero anche un valore scientifico, dall’altro nel Novecento avvenne un vero salto di qualità grazie agli studi di Pier Silverio Leicht e di Pio Paschini. Laureatosi in giurisprudenza a Padova nel 1896 con una tesi dal titolo Diritto romano e diritto germanico nel diritto privato friulano e completata la sua formazione nelle Università di Lipsia e di Roma, Leicht aveva intrapreso la carriera universitaria dopo un triennio passato alla direzione della Biblioteca e del Museo civico di Udine (1900-1903). Accanto al prestigioso curriculum accademico e politico, egli svolse lungo tutta la sua vita un ruolo di primaria importanza nel mondo culturale friulano, a cominciare dall’avvio delle «Memorie storiche cividalesi» (divenute poco dopo «Memorie storiche forogiuliesi») e dalla fondazione, nel 1911, della Società friulana di storia patria. Con Leicht le vicende medievali del Friuli entrarono nel dibattito storiografico italiano. Dal 1917 al 1925 pubblicò in tre volumi (1917-1925) gli atti del Parlamento friulano in una collana da lui stesso promossa presso l’Accademia dei Lincei. Nel 1923 uscì la prima edizione di una fortunata Breve storia del Friuli, che continuò ad essere aggiornata sino al 1951 (terza edizione): si tratta di un profilo di storia regionale che muove dai tempi preromani e giunge agli anni in cui viveva l’autore, privilegiando però l’età medievale e in particolare le vicende del patriarcato di Aquileia. «Giudicheranno i lettori», scrive Leicht nella premessa alla prima edizione, «se questo sommario storico raggiunga lo scopo che da così egregie persone mi fu affidato: quello, cioè, di porre innanzi agli occhi di quanti, in Friuli e fuori, amino conoscere le vicende storiche della nostra regione, le grandi linee di questo svolgimento secolare, così che riescano poste in luce la cause che hanno determinato i frequenti e poderosi mutamenti avvenuti nella struttura politica, nella costituzione etnografica, nella formazione sociale del nostro paese». La storia del Friuli, pur sempre “nostra regione” e “nostro paese” anche se nell’ambito della nazione italiana, per Leicht non è più solo erudizione locale, ma una visione storiografica economicogiuridica che interpreta i fatti in un contesto europeo. Per quanto riguarda il contributo dato alla storia del Friuli da Pio Paschini, professore di storia ecclesiastica al Pontificio Ateneo Lateranense, Carlo Guido Mor, pur non nascondendo che talvolta si è in presenza di una storia in «una forma annalistica» con pagine di documentazione «a mo’ di schedatura», riconosce al Paschini il grande merito di «aver ricomposto in unità espositiva un notevole complesso documentario, facendolo confluire in una logica e coerente visione d’insieme». Quale sia la genesi, quali siano gli antefatti, quale sia la caratteristica specifica della Storia del Friuli (1934-1936) è lo stesso autore a spiegare nella breve prefazione alla prima edizione: «Il primo incitamento a questo lavoro d’insieme mi pervenne, molti anni fa, dal p. Fedele Savio che ricercava allora collaboratori per la grande opera alla quale aveva già posto mano, sulle Diocesi d’Italia […]. Secondo il suo programma l’opera mia doveva restringersi al patriarcato, o meglio, alla diocesi d’Aquileia; perciò venni man mano preparandomi all’adempimento del mio compito, col pubblicare gli studi preparatori nell’intendimento di raggiungere così più facilmente il mio scopo collo sbarazzare il terreno alle questioni incidentali e col cercare di definire i più importanti punti controversi. Proseguendo però le mie ricerche mi dovetti convincere che il metodo seguito dal p. Savio mal si adattava alle complesse vicende del patriarcato; e mi parve che riassumendo i lavori già fatti da altri e da me, sarei potuto giungere ad una esposizione sintetica che, senza pretendere di essere completa, di riempire tutte le lacune e di risolvere tutte le incertezze, offrisse al lettore un quadro delle vicende del Friuli. Ho detto Friuli e non patriarcato, perché il termine Friuli esprime più e meno che patriarcato: più perché, fra l’altro, comprende anche il territorio fra Tagliamento e Livenza, cioè la diocesi di Concordia; meno perché lascia fuori gran parte dei territori oltre le Alpi Giulie e Carniche i quali hanno una storia tutta propria. È chiaro però che, per lunghi secoli la storia del Friuli è, in gran parte, anche quella del patriarcato considerato tanto sotto l’aspetto politico che sotto quello ecclesiastico». In origine, dunque, la storia del Friuli doveva essere la storia ecclesiastica di una delle diocesi d’Italia. Tale non poté essere esclusivamente per le caratteristiche particolari del “patriarcato” che, lungo i secoli, fu una giurisdizione ecclesiastica e insieme una giurisdizione civile, tra l’altro non esattamente sovrapponibili; si aggiunga che la giurisdizione superava i confini dell’Italia quali si erano venuti configurando prima e dopo la grande guerra. Benché i due storici fossero di estrazione diversa, Leicht un laico e Paschini un ecclesiastico, storico del diritto il primo e storico della chiesa il secondo, dai loro lavori il Friuli emerge dalle vicende del passato con dei tratti inconfondibili che definiscono per sempre la sua identità. Il mito di Aquileia e le vicende del patriarcato, ricostruite e illustrate dalla storiografia ottocentesca con diverse interpretazioni e sfumature, continueranno a stimolare la riflessione storiografica di studiosi come Giuseppe Marchetti (Il Friuli. Uomini e tempi, 1959, ma anche Cuintristorie dal Friûl, 1974) e Vittorio Peri (Note sulla formazione dell’identità culturale friulana, 1987). Una controlettura della storia friulana, partendo da presupposti ideologici diversi da quelli di Marchetti, si deve anche a Tito Maniacco che, in un suo saggio del 1995 su L’ideologia friulana, denunciava il provincialismo e il ritardo culturale di un localismo asfittico e retorico.

Il Friuli “regione naturale”

Escursione al castello Valdajer, presso Ligosullo, dei partecipanti all’adunanza generale della Società geologica italiana. Sono presenti, tra gli altri: Torquato Taramelli, Michele Gortani, Olinto Marinelli, Paolo Vinassa de Regny, Pier Silverio Leicht ed Ernesto Mariani (Tolmezzo, Museo carnico delle arti popolari).

La descrizione del Friuli come “regione naturale” è un’intuizione elaborata in età risorgimentale da Pacifico Valussi, Giulio Andrea Pirona, Torquato Taramelli e Giovanni Marinelli. Pirona fu il primo a tracciare il quadro completo della flora e dell’assetto geologico del Friuli a partire dal Florae forojuliensis syllabus pubblicato nel 1855, vera «pietra miliare nella esplorazione del territorio». Sempre a Pirona si deve una prima sintesi geologica della regione con la pubblicazione nel 1861 dei Cenni geognostici sul Friuli; all’incirca negli stessi anni erano iniziati i rilevamenti da parte dell’Istituto geologico di Vienna per la compilazione della nuova carta geologica austriaca, che avrebbe dovuto comprendere anche il territorio friulano. La realizzazione di una Carta geologica del Friuli, compiuta nel 1881, è il frutto di lunghi anni di ricerche sistematiche sulla morfologia del territorio e sulla sua storia geologica, realizzate sotto la direzione del bergamasco Torquato Taramelli. Taramelli, uno dei massimi geologi italiani dell’Ottocento, era stato chiamato nel 1866 a coprire la cattedra di scienze naturali presso l’Istituto tecnico di Udine, fondato da Quintino Sella. Già nel 1867 egli aveva pubblicato un lavoro Sulla orografia della provincia di Udine, al quale avevano fatto seguito i contributi sulla stratigrafia di alcune vallate della Carnia e del Canal del Ferro, sull’Eocene della regione e alcuni altri lavori di carattere geomorfologico e sulla stratigrafia del Paleozoico. Anche dopo il suo trasferimento all’Università di Pavia Taramelli continuò le sue ricerche pubblicando, tra l’altro, il Catalogo ragionato delle rocce del Friuli (Roma, 1877), che venne premiato dall’Accademia dei Lincei. Il Friuli era in questo modo dotato di una moderna sintesi geologica, strumento indispensabile per la conoscenza del territorio. All’Istituto tecnico di Udine, divenuto, secondo la felice espressione di Bruno Londero, «l’asse culturale catalizzatore attorno al quale ruotarono le maggiori istituzioni culturali del tempo», è collegata anche la prima fase di ricerca e di insegnamento (prima del suo passaggio all’Università) di Giovanni Marinelli, titolare della cattedra di storia e geografia. I suoi interessi vertono inizialmente sulla statistica, come dimostra la sua collaborazione agli «Annali statistici per la Provincia di Udine» pubblicati dall’Accademia di Udine (1876-1889), quindi sulle stazioni meteorologiche e sull’altimetria alpina. La Società alpina friulana (SAF), di cui Marinelli fu presidente dalla fondazione nel 1874 fino al 1900, divenne il centro di ricerca all’interno del quale furono rielaborati questi e altri analoghi problemi di grande rilievo economicosociale non meno che culturale. Nella Guida del Friuli, insieme di più guide rispettose delle unità fisico-tradizionali che costituiscono la regione, sarebbero dovuti confluire, in ordinata sintesi, i risultati di attente osservazioni riguardanti la natura del suolo e le necessarie “opere modificatrici”. L’originalità di Marinelli, come scrive Francesco Micelli, sta nell’aver compenetrato di impegno civile le scienze territoriali, nell’aver assimilato e continuato una tradizione scientifica distintamente friulana, nell’averne riproposto valori e caratteri alla comunità scientifica nazionale. Lo scritto Le stazioni meteoriche di Tolmezzo e Pontebba (1876) è forse, da questa angolatura, l’opera più significativa per quanto riguarda il rapporto tra scienza e piccola patria. Le scienze del territorio, sentite come leve dell’incivilimento, sempre secondo Micelli, «diventano così dovere morale, si traducono concretamente in statistica, osservatori meteorologici, misurazioni altimetriche, mentre l’Istituto tecnico diventa il luogo nel quale riordinare l’esperienza culturale del Friuli, maturata nell’età della restaurazione e del risorgimento». Accanto a maestri riconosciuti come Pacifico Valussi, Giulio Andrea Pirona e Pietro Bonini, il Marinelli, negli anni di insegnamento all’Istituto tecnico, poteva contare fra i colleghi Torquato Taramelli, Massimo Misani, Giovanni Clodig, Alexander Wolf; senza parlare di altre personalità legate al mondo delle biblioteche e degli archivi, quali i citati fratelli Antonio e Vincenzo Joppi e Giuseppe Occioni Bonaffons. Uno degli aspetti che accomuna l’attività di tutti questi personaggi è il clima “positivistico” che si respirava nei primi decenni dopo l’unificazione e che si trasferì dal campo scientifico a quello delle scienze umane: esso lascia trasparire una fiducia illimitata nel progresso e una visione della civiltà, intesa secondo l’espressione di Antonio Battistella, come un “trionfale cammino”. In piena continuità con gli indirizzi di ricerca di Giovanni Marinelli si colloca l’attività dei giovani che si erano formati alla sua scuola o che alla sua metodologia si ispiravano, a cominciare dal figlio Olinto, che gli succedette non solo come professore presso l’Istituto di studi superiori di Firenze e come direttore della «Rivista geografica italiana», ma anche in veste di presidente della Società alpina friulana e di direttore della rivista «In Alto». Con Achille Tellini, Francesco Musoni e Arrigo Lorenzi, Olinto concorse a fondare il Circolo idrologico e speleologico friulano (1897). La sua opera più significativa di questo periodo, gli Studi orografici sulle Alpi orientali (1898-1904), esalta la ricerca sul terreno curando in modo particolare, ma non esclusivo, l’aspetto naturalistico e accogliendo le problematiche della geografia antropica tedesca. La Guida delle Prealpi Giulie (1912), che continuava la descrizione del Friuli avviata dal padre, può essere considerata un modello di ricerca in questo campo. La Relazione al Consorzio Ledra-Tagliamento sopra la provenienza delle acque del Ledra, presentata nel 1914 insieme con Domenico Feruglio e Arrigo Lorenzi, conferma l’appartenenza dei relatori alla cattaneana “scienza attiva”: ogni descrizione – quindi anche ogni cartografia recente e non recente – deve muovere dal principio che l’esatta conoscenza delle componenti di una unità territoriale è la premessa di ogni serio intervento. Intorno a Olinto Marinelli si strinse la vecchia guardia di studiosi friulani che già gravitavano attorno al padre, e venne formandosi, con la perdita di chi era caduto in guerra, un gruppo di giovani che ben rappresentarono nel mondo la geologia e geomorfologia italiana. Giovanni Battista De Gasperi, morto nel 1916 sul fronte trentino all’età di ventiquattro anni, alla vigilia della guerra aveva pubblicato il suo Grotte e Voragini del Friuli a tutt’oggi un testo basilare per lo studio dei fenomeni carsici della regione friulana. Nel 1915 aveva visto la luce l’imponente monografia di Giorgio Dainelli L’Eocene friulano, che descrive la distribuzione, la stratigrafia e la struttura della formazione geologica, e illustra sistematicamente le faune dei vari affioramenti, comparandole con quelle coeve di altre aree del Veneto e dell’Istria. Se tuttavia Egidio Feruglio e Ardito Desio presero il posto di Giovanni Battista De Gasperi e costituirono la generazione nuova, Olinto Marinelli – come acutamente osservano Michele Gortani e Renato Biasutti –, fu soprattutto animatore e maestro di coetanei. Un contributo notevole alla conoscenza geologica del Friuli rimane quello offerto da Gortani, che in età giovanile aveva scritto di botanica, entomologia, speleologia, paleontologia ed etnologia. Nel 1905, insieme con il padre Luigi, aveva pubblicato la monografia Flora friulana, tuttora fruibile. L’influenza del suo maestro alla scuola di Pavia, Torquato Taramelli, spostò l’attenzione di Gortani verso le ricerche geologiche che presero presto il sopravvento su quelle naturalistiche. Le maggiori scoperte geologiche del primo periodo riguardano il Paleozoico Carnico, argomento del quale Gortani si occupò anche nel resto della sua attività di ricerca e verso cui indirizzò gli studi di molti brillanti allievi. Alla montagna friulana e in particolare alla Carnia, che egli aveva servito in anni particolarmente difficili anche come politico, è dedicato il volume su Lo spopolamento montano nella montagna friulana, pubblicato insieme con Giacomo Pittoni nel 1937. Il paradigma entro il quale, coscientemente, Gortani collocò la propria attività politico-amministrativa, come osserva ancora Micelli, era già configurato all’indomani dell’unificazione sulla base di pochi principi: le scienze del territorio sono le scienze dell’incivilimento; associazionismo e cooperazione sono le leve del progresso. Almeno un cenno dovrà essere fatto ad alcuni altri grandi studiosi, esponenti della Scuola geografica friulana. Renato Biasutti, ultimo allievo di Giovanni Marinelli insieme a Michele Gortani, può considerarsi il coronamento di questa scuola, la conclusione di una grande esperienza scientifica che esordì dedicandosi alla «geografia di casa nostra» e, attraverso indagini puntuali, giunse alla totalità del «paesaggio terrestre» come naturale conclusione. Ardito Desio, cresciuto alla scuola della Società alpina friulana e successivamente alla Scuola geologica di Firenze, aveva iniziato a studiare le variazioni dei ghiacciai del Canin e del Montasio e aveva intrapreso alcuni rilevamenti geologici nelle Alpi Giulie e in Carnia, dopo aver percorso queste montagne durante la grande guerra da volontario nel corpo degli alpini. Le pubblicazioni scientifiche di Desio sul Friuli risalgono tutte al periodo compreso tra il 1920 e il 1927. Negli stessi anni, tra il 1920 e il 1926, si colloca una serie di monografie friulane geologiche e geografiche di buon livello prodotte da Egidio Feruglio, che Michele Gortani aveva chiamato come assistente di geologia a Cagliari: I terrazzi della pianura pedemorenica friulana (1920), Le Prealpi fra l’Isonzo e l’Arzino (1924-1925) e La zona delle risorgive del Basso Friuli fra il Tagliamento e la Torre. Descrizione geologica e idrologica (1925). Nel 1934 emigrò definitivamente oltreoceano, in Argentina, dove aveva già avuto notevoli esperienze professionali nel campo dell’estrazione degli idrocarburi, dopo aver rifiutato la tessera del partito fascista, che gli avrebbe dato la possibilità di accedere al concorso per la cattedra di geologia dell’Università di Torino. Le leggi razziali del 1938 furono le motivazioni che costrinsero un altro grande studioso, Giuseppe Gentilli, ad abbandonare il Friuli e a emigrare in Australia. Egli aveva partecipato con una relazione sulle comunicazioni in Friuli al XIII Congresso geografico italiano, svoltosi a Udine nel 1937 e inaugurato con il discorso di Lorenzo Arrighi su Il Friuli come regione naturale e storica. Gentilli non interruppe mai il rapporto con la comunità geografica italiana e friulana in particolare, continuando a collaborare intensamente con il suo maestro, Renato Biasutti, e pubblicando, nel 1964, Il Friuli. I climi, uno tra i più importanti saggi di climatologia della regione.

L’economia

La cernita dei bozzoli del baco da seta che ha impegnato migliaia di “filandine” negli anni Trenta del Novecento, fotografia di Carlo Pignat (Udine, Civici musei, Fototeca).

Prima di passare ad alcuni aspetti più specifici che riguardano la lingua, la letteratura, le tradizioni popolari e la storia dell’arte, rilette attraverso le biografie dei suoi protagonisti, sembra opportuno riprendere il quadro sintetico, abbozzato da Paolo Pecorari, della situazione economica del Friuli negli ultimi due secoli, dal quale le tante attività culturali qui ricordate non possono prescindere. Il settore primario ebbe, nell’economia del Friuli, un ruolo preminente fino alla metà del Novecento. L’agricoltura era perlopiù di sussistenza e di autoconsumo; gli scambi erano limitati e le industrie erano a carattere prevalentemente artigianale e in massima parte dedite alla trasformazione dei prodotti agricoli (filande, caseifici, fabbriche di birra, raffinerie di zucchero). Nel primo Ottocento, in particolare, perdurarono condizioni di arretratezza agricola, in parte riconducibili alla morfologia del territorio (estese aree montuose, terreni di scarsa fertilità, zone malariche e paludose nella bassa pianura), in parte a residui feudali, da cui derivava tra l’altro la dispersione della proprietà, che ostacolava la diffusione di moderni sistemi colturali. Verso la metà del secolo, tuttavia, furono avviati, da un nucleo di proprietari “illuminati’, tentativi di ammodernamento, divulgati da periodici agrari specializzati, come «L’amico del contadino» e, dopo la metà dell’Ottocento, dal «Bullettino dell’Associazione agraria friulana», a lungo presieduta dal conte Gherardo Freschi. Gli impulsi innovatori di tale movimento agrario, peraltro ben lontano dal propugnare una revisione dei tradizionali rapporti di produzione nelle campagne e dei contratti agrari da secoli sostanzialmente immutati, concorsero a incrementare la produttività agricola grazie a nuove rotazioni agrarie, all’introduzione di vitigni pregiati, ai supporti offerti alla bachicoltura, al miglioramento del patrimonio zootecnico, alla propagazione dei fertilizzanti chimici (in proposito, dal 1887 prese piede il comitato acquisti dell’Associazione agraria). Fondamentale per la tutela dei redditi dei piccoli agricoltori, proprietari o semplici conduttori, fu lo sviluppo del movimento cooperativo, inizialmente quello di matrice laico-liberale (circoli agricoli, latterie sociali, casse rurali), poi quello cattolico e socialista.

Una linea di produzione delle industrie Zanussi di Pordenone (Archivio Electrolux Italia Spa).

Nel primo dopoguerra si affermarono nuove tipologie di imprese cooperative nell’ambito della tabacchicoltura, delle attività assicurative, della gestione delle malghe, della produzione e distribuzione di energia idroelettrica. È da ricordare inoltre, al di fuori del settore primario, la cooperazione di consumo e di lavoro (quest’ultima, in particolare, con forti difficoltà durante il ventennio fascista: esemplari a tale proposito sono le vicende di Antonio Daniele Barbacetto di Prun e Vittorio Cella nell’ambito della Cooperativa carnica). Nel secondo Ottocento s’intensificarono studi e iniziative per promuovere l’irrigazione (Consorzio Ledra-Tagliamento) e le attività di bonifica specie nella bassa friulana, per le quali furono istituiti nel primo dopoguerra appositi consorzi connessi a singoli bacini idraulici. Fino al secondo dopoguerra non si può parlare in Friuli di una vera e propria struttura industriale. Si può ritenere che la sericoltura si ponga all’origine del processo di industrializzazione: nelle filande con poche bacinelle a fuoco diretto, ancora capillarmente disseminate nelle campagne del primo Ottocento, si compì la prima esperienza a carattere precapitalistico e di lavoro industriale stagionale da parte di manodopera di estrazione rurale, che andò costituendo un ricco serbatoio cui attinsero poi altri comparti industriali. L’attività seribachicola – nel secondo Ottocento si affermarono le filande a vapore, avviandosi al declino i torcitoi – consentì in Friuli, oltre che di integrare i magri redditi delle famiglie contadine, di accumulare capitali, di formare intermediari finanziari e commerciali, nonché attitudini imprenditoriali poi sfociate in ulteriori sviluppi nel settore secondario. Fu la manifattura cotoniera, sorta nel Pordenonese a partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, ad attrarre per prima in Friuli capitali esterni e a realizzare fino alla grande guerra (dagli anni Ottanta anche a Udine) rilevanti incrementi sotto il profilo dimensionale e sul piano occupazionale (negli anni Ottanta il cotonificio di Amman & Wepfer di Pordenone divenne uno dei maggiori insediamenti industriali del Friuli e tra i primissimi in Italia): gli imprenditori affrontarono il rischio di una produzione rivolta al mercato, ottenuta con l’apporto cospicuo di manodopera salariata. Peraltro neanche in età giolittiana si può parlare di un seppur timido decollo industriale in Friuli, deficienza che indubbiamente favorì l’espansione dell’emigrazione: al plurisecolare flusso stagionale di decine di migliaia di lavoratori, soprattutto dalla Carnia, si aggiunsero gli espatri definitivi oltreoceano specialmente a partire dagli anni Ottanta. Il problema dell’emigrazione fu affrontato da Giovanni Cosattini in campo socialista e da don Eugenio Blanchini in campo cattolico: fu un fenomeno imponente, che assunse tinte epiche e che non può qui essere trattato. Qualche studioso ha ritenuto di scorgervi la causa, o quantomeno uno dei fattori, unitamente alla scarsità di capitali e alla poca propensione al loro investimento produttivo, del ritardato sviluppo industriale. Si è parlato di fenomeni interdipendenti, operanti come “meccanismi di causazione circolare”. Neppure dopo il primo conflitto mondiale l’industria regionale riuscì a dispiegare il proprio slancio evolutivo, benché le premesse non mancassero: in effetti, pur potendo contare su un’efficiente rete complessiva di trasporti stradali e ferroviari e su un comparto idroelettrico che pareva prospettare il superamento della cronica deficienza energetica, la crescita industriale fu alle prese dapprima con i problemi legati alla ricostruzione, poi con la crisi mondiale del 1929 e, quindi, con la politica autarchica e conseguente chiusura all’interscambio internazionale (si veda a questo proposito la biografia di Francesco Marinotti con le vicende della SNIA Viscosa a Torre di Zuino); tanto più che mancarono, a differenza di quanto avvenne in altre regioni meno periferiche, massicci interventi di capitale pubblico. Riguardo al ruolo del credito bancario nello sviluppo economico regionale, esso fu piuttosto modesto, ancorché negli ultimi decenni dell’Ottocento avessero preso piede istituti locali di credito e risparmio, come la Banca di Udine (dal 1919 Banca del Friuli) e la Cassa di risparmio, le banche popolari e le casse rurali (dagli anni Ottanta), che furono di qualche utilità per l’economia agricola e le attività commerciali e artigianali (per il Friuli austriaco vale la pena ricordare la Federazione delle casse rurali e dei sodalizi cooperativi promossa da Luigi Faidutti). Dopo la grande guerra, il mercato creditizio registrò un’evoluzione verso forme più specializzate e una più ampia diffusione territoriale degli sportelli, in molti casi, per la verità, più per drenare il risparmio che per impiegare le proprie risorse in ambito locale. In ogni caso aprirono i loro sportelli anche importanti istituti di credito operanti in ambito nazionale, mentre le principali banche regionali inaugurarono nuove filiali, sovente assorbendo aziende minori. Il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale restituirono all’Italia un Friuli povero e arretrato, nonché modificato nel suo assetto geografico e amministrativo: nella parte orientale mutarono i confini territoriali delle province di Udine e di Gorizia, e rimase inoltre, in prospettiva regionale, la pesante incognita sul destino di Trieste e la sua piccola provincia. In un simile contesto l’unico dato positivo fu la costatazione dei pochi danni subiti dal patrimonio industriale esistente; nulla, se paragonato alle enormi devastazioni materiali e morali vissute durante la grande guerra. Mentre si andavano lentamente modificando gli equilibri politico-istituzionali e con essi l’organizzazione della cosa pubblica, una parte della società civile iniziò un percorso di rinascita e riqualificazione economica, cui si provvide, oltre che attraverso le capacità imprenditoriali dei singoli, anche grazie al ruolo svolto dalle associazioni di categoria: da quelle trasversali del movimento cooperativo a quelle settoriali dell’agricoltura, industria e commercio. In ogni ramo dell’attività produttiva vi fu il tentativo di recuperare il terreno perso negli anni precedenti, aggiornando le strutture esistenti e dando vita a nuove realtà in grado di cogliere le opportunità offerte dalla ricostruzione. Fu un arduo compito, com’è dimostrato dalla lenta e difficile risalita degli indici della produzione che, alla fine degli anni Quaranta, non avevano ancora raggiunto i livelli prebellici. Forse ciò dipese anche dalle incertezze legate alle scelte fatte dal governo nazionale in termini di politica economica e industriale, come pure dai tempi necessari alle stesse per produrre i loro effetti in tutte le aree del Paese; bisogna tuttavia ribadire che il Friuli era e rimaneva una regione ai margini della vita economica italiana, con una popolazione prevalentemente rurale, dato che la terra era ancora la più importante fonte di reddito e di lavoro: all’inizio degli anni Cinquanta la provincia di Udine, con il 40 per cento degli occupati in agricoltura, mostrava i tangibili segni di un’area depressa, con un reddito pro capite inferiore alla media nazionale, un’elevata disoccupazione nel settore secondario e un consistente flusso migratorio. Nel corso del decennio inaugurato dal censimento del 1951 vennero lentamente palesandosi le inevitabili contraddizioni economico-sociali di un territorio che, per agganciarsi al “treno dello sviluppo” nazionale, doveva abbandonare i vecchi schemi fondati sulla centralità del settore agricolo e sulla prevalenza nell’industria delle produzioni ancora legate al primario (si pensi al binomio bozzolifilatura della seta). Si trattava non solo di aggiornare tecnologicamente gli impianti e di convertirsi alla logica produttivistica di matrice americana, ma anche e soprattutto di indirizzare gli sforzi, in termini di capitale umano e finanziario, verso attività di trasformazione più rispondenti alle mutate esigenze e ai nuovi equilibri del libero mercato internazionale. Tuttavia, a differenza della Venezia Giulia, dove la grande industria cantieristica e siderurgica aveva potuto beneficiare dei cospicui finanziamenti del Piano Marshall, in Friuli la transizione da un’economia agricola a una industriale dovette necessariamente passare attraverso la piccola iniziativa imprenditoriale privata. Questa, se da un lato fu costretta ad accollarsi l’onere di assorbire la manodopera che nel frattempo veniva espulsa dai campi per effetto della meccanizzazione, dall’altro poté beneficiare, per tutti gli anni Cinquanta, del basso costo del lavoro: condizione garantita dal progressivo anche se lento disgregarsi degli equilibri economico-sociali che caratterizzavano lo stile di vita paesano, come si riscontra, ad esempio, dal numero ancora elevato di latterie sociali (652 nel 1960). Fu in questo quadro di sostanziale arretratezza che trovarono terreno fertile per impiantarsi e crescere molte attività industriali, le quali nel volgere di pochi anni passarono dalla formula artigianale a quella della fabbrica organizzata (interessante, a questo proposito, la crescita della SAFAU e delle Officine Bertoli raccontata nella biografia di Giuseppe Bertoli). Ciò corrispose non solo a un notevole incremento del numero di addetti, ma anche a uno spostamento della forza lavoro dal comparto tessile (per decenni zoccolo duro del secondario) a quello meccanico e del legno, che, salvo poche eccezioni, trovarono nella piccola e media azienda la dimensione ottimale per esprimere al meglio le loro potenzialità. L’approvazione dello statuto della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia (1963), oltre a conferire la tanto agognata stabilità politico-istituzionale, diede la possibilità di sfruttare lo strumento legislativo speciale in funzione delle esigenze socio-economiche emerse con sempre maggiore urgenza nei tre lustri precedenti. Consistenti furono, infatti, le risorse finanziarie che poterono essere destinate alla creazione del capitale fisso sociale necessario ad aumentare l’attrattività del territorio per nuovi investimenti e la competitività delle imprese. Tali interventi furono senza dubbio significativi e contribuirono a rafforzare la posizione economica della regione, senza peraltro incidere sulle specificità che, per evidenti ragioni storiche, avevano determinato differenti ritmi e modalità di sviluppo sul piano provinciale. All’inizio degli anni Settanta, mentre le due provincie di Udine e Pordenone diventavano una delle aree a più elevato tasso di industrializzazione del Paese, con un reddito pro capite che superava la media nazionale, il Friuli goriziano (assieme a Trieste) manifestava segni di debolezza, se non di decadenza, legati alle difficoltà attraversate in quel torno di tempo dalla grande industria cantieristica e siderurgica. Per ciò che concerne il Friuli nel suo complesso, uno degli elementi che maggiormente contribuì al raggiungimento di questo traguardo va senza dubbio ricondotto all’ascesa di imprenditori capaci non solo di avvalersi delle nuove opportunità offerte dalla rinnovata vitalità economica del Paese, ma anche di muoversi in anticipo, passando, in tempi non sospetti, alle luci della ribalta nazionale e internazionale nei più svariati campi. Si potrebbero fare i nomi eccellenti di personalità come Lino Zanussi e Luigi Danieli, ma l’elenco sarebbe molto lungo, considerando che il tessuto produttivo locale fu caratterizzato dalla presenza di aziende di medie, piccole e piccolissime dimensioni, le quali, ad esempio nel comparto del legno (sedia e mobile), diedero il là alla formazione di distretti industriali di fama mondiale. Come effetto combinato delle maggiori disponibilità di capitali e del progressivo venir meno degli ultimi residui dell’economia di sussistenza basata sull’autoconsumo, si registrarono importanti cambiamenti anche nel campo della distribuzione al dettaglio, con la creazione dei primi supermercati (ambito nel quale ripresero vigore storiche imprese cooperative, come la Coopca di Tolmezzo, tornata in auge dopo il forzato “sonno” fascista) e dei primi centri commerciali, dove iniziarono a distinguersi imprenditori privati, come Antonio Bardelli. La tragedia causata dal terremoto (1976), con il suo pesante bilancio in termini di vite umane e con gli ingentissimi danni subiti dal patrimonio abitativo e infrastrutturale, fu per il Friuli un duro colpo sul piano sia morale che materiale. La tempestiva opera di ricostruzione, ampiamente sostenuta dall’intervento finanziario dello Stato, opportunamente gestita dalle autorità locali e ben interpretata dalle forze sociali, rappresentò un’occasione di crescita per il sistema industriale, che all’inizio degli anni Ottanta vide ulteriormente aumentare il numero non solo degli occupati, ma anche delle unità produttive.

La lingua e la cultura

Venendo alla lingua e alla cultura friulana, che tanta parte hanno in questo dizionario, si possono appena ricordare gli interessi per le origini della lingua da parte di alcuni eruditi e studiosi del Settecento (Giusto Fontanini, Gian Giuseppe Liruti) e le prime raccolte lessicografiche per lo più ancora inedite, anche nel Friuli austriaco, databili a cavallo fra Settecento e Ottocento (Giuseppe Domenico Della Bona, Pietro Someda, Giandomenico Ciconi, Francesco Cherubini). La nascita vera e propria degli studi di linguistica e filologia friulana va collocata intorno alla metà dell’Ottocento nel contesto culturale del romanticismo, che guardava con interesse allo studio delle tradizioni e della cultura popolare, ed ebbe come pionieri Vincenzo Joppi e Iacopo Pirona. Il primo lavoro di Vincenzo Joppi in questo specifico settore risale al 1864 ed è il Saggio di antica lingua friulana. Negli anni immediatamente successivi all’unione del Friuli veneto all’Italia (1866) videro la luce due importanti contributi: il Vocabolario di Iacopo Pirona (1871) e i Saggi ladini di Graziadio Isaia Ascoli (1873). Pirona, una delle personalità più autorevoli della cultura friulana dell’Ottocento, aveva avviato il progetto di un vocabolario friulano fin dal 1845, continuando a lavorare ad esso fino alla fine della sua vita; al nipote Giulio Andrea va il merito di aver pubblicato il lavoro dello zio e di aver allestito in seguito una seconda edizione corretta e ampliata, che con il nome di Nuovo Pirona sarebbe uscita quarant’anni dopo la sua morte (1935). Il Vocabolario, pur con alcuni limiti, quale l’inadeguato sistema grafico e soprattutto «il difetto di rappresentare la varietà dell’area udinese e di non concedere lo spazio necessario alle altre varietà», è considerato dagli specialisti come un modello della lessicografia dialettale italiana dell’Ottocento, in quanto, sebbene con notevole ritardo rispetto alla produzione delle altre regioni italiane, «nasceva con un’ottica moderna, scientifica ». Per quanto riguarda Ascoli, i suoi precoci interessi linguistici, alimentati anche dalle letture delle opere di Franz Bopp e Wilhelm von Humboldt, furono favoriti dall’ambiente goriziano, dove convivevano allora, seppur in misura assai diversa, l’italiano colto, il friulano, il veneziano e lo sloveno, accanto al tedesco diffuso come lingua di cultura e dell’amministrazione asburgica. A soli diciassette anni egli aveva dedicato a Iacopo Pirona un saggio (in seguito ripudiato) sull’affinità del friulano con la lingua «valaca», vale a dire col romeno (1846). Nei Saggi ladini (che dovevano costituire solo la prima parte di un lavoro rimasto incompiuto) Ascoli affrontò il problema dell’individuazione di un autonomo gruppo di parlate romanze, da lui denominato «ladino» e comprendente il romancio del cantone svizzero dei Grigioni, il ladino delle valli dolomitiche e il friulano; sulla scorta della puntuale analisi di un’imponente massa di dati, concluse per il riconoscimento di un’«affinità peculiare» emergente dalla contemporanea presenza in quelle parlate di tratti che possono certamente ritornare anche in aree diverse, ma che caratterizzano l’area ladina grazie alla loro «particolar combinazione». All’individuazione di tale unità si accompagnavano peraltro alcune puntuali considerazioni limitative, nel senso che al friulano era attribuita una maggiore autonomia rispetto ai più stretti legami che connettono il ladino dolomitico alla sezione occidentale e, al tempo stesso, veniva messa in dubbio la «continuità istorica» tra alcuni fenomeni fonetici friulani e quelli analoghi dell’area dolomitica. A questi studi si riferiva Vincenzo Joppi parlando nel 1880 Delle fonti per la storia del Friuli; dopo aver delineato sommariamente i confini della «Patria del Friuli, come si appellò per tanti secoli, o, come in oggi viene chiamata, la Provincia del Friuli», Joppi evidenziava in particolare l’importanza della lingua friulana nel definire l’identità della regione: «Né io seguirò a narrare le vicende occorse al Friuli […]. Solo dirò come questa regione dai suoi antichi reggitori abbia conservato una lingua sua propria annoverata tra le neo-ladine, della quale si hanno indizi fosse parlata con poca varietà di oggigiorno, fino dal mille». La scoperta della lingua friulana, in questo caso, nasceva, secondo Giovanni Frau, nel «clima di un diffuso per quanto tardivo romanticismo», che portava «alla scoperta e ad una iniziale timida promozione delle parlate locali della Penisola, compreso il Friulano, con importanti conseguenze anche sul piano scientifico». Un ruolo di rilievo nel campo della linguistica friulana ebbe Ugo Pellis, il principale ideatore della Società filologica friulana, fondata il 23 novembre 1919 e da lui presieduta dal 1921 al 1923. Pellis era nato nel Goriziano e, dopo aver intrapreso gli studi universitari a Innsbruck, li concluse a Vienna laureandosi nel 1908 con una tesi in filologia romanza e germanica. Nell’annuario dell’I. R. Ginnasio superiore di Capodistria (1909-1910 e 1910-1911, poi anche in estratto) era stato pubblicato un primo importante studio, esteso ma incompiuto, che prendeva in esame la fonetica dialettale del friulano orientale, Il sonziaco, saggio che costituisce una eccellente prova delle notevoli doti percettive, delle capacità di sensibile osservatore e delle competenze nella trascrizione delle differenze fonetiche. Sono stati scoperti dei materiali relativi all’area friulana, da lui raccolti negli ultimi anni della dominazione asburgica nel Goriziano, per il progetto Das Volkslied in Österreich, un censimento del patrimonio musicale dei popoli della parte austriaca dell’Impero. Dopo l’esperienza della raccolta di frasi d’affetto e vezzeggiativi in friulano (Praga, 1915), l’impegno di Pellis successivamente all’unificazione del Friuli goriziano all’Italia si colloca nell’alveo dell’attività della Società filologica, per la quale stese la Relazione preliminare alla determinazione della grafia friulana (Udine, 1920) e le Norme per la grafia friulana… (Udine, 1921). Avviato il progetto di un Thesaurus Linguae Forojuliensis, uno degli obiettivi principali della Società filologica, Pellis dovette abbandonarlo per il gravoso incarico che gli affidò il Ministero nel 1924 e che si protrasse fino al 1942 nell’ambito dell’Atlante Linguistico Italiano. Un contributo rilevante agli studi storico-linguistici sul friulano è anche quello offerto da Giovan Battista Corgnali, direttore della Biblioteca civica di Udine dal 1924 al 1953. Il ruolo di bibliotecario, oltre a mettere in mostra le sue doti di grande organizzatore e attento conservatore del patrimonio librario e documentario affidato alle sue cure, gli consentì di raccogliere un’infinità di materiale in campo lessicale attraverso la schedatura di appellativi comuni, nomi di persona e toponimi, corredati dai rispettivi riferimenti archivistici. Tutta questa documentazione contribuì ad arricchire il Nuovo Pirona. Fu, quella del vocabolario, probabilmente l’impresa più impegnativa e continuativa di Corgnali, che anche dopo l’edizione del 1935 continuò a raccogliere materiali in vista di un suo ampliamento. Di Giuseppe Marchetti linguista e filologo vale il giudizio di Giovan Battista Pellegrini, «ch’egli fu uno studioso benemerito della sua parlata, un ottimo conoscitore delle carte medievali ed un grande animatore della letteratura friulana delle nuove leve alle quali egli indicò sicure norme e buoni modelli, anche con l’esempio personale». Testi friulani da codici gemonesi del Trecento furono argomento di una laboriosa tesi di laurea, discussa presso l’Università cattolica di Milano nel 1935, su cui già in precedenza Marchetti aveva pubblicato una serie di contributi rilevanti. Fra le opere di linguistica sono da segnalare i Lineamenti di grammatica friulana, apparsi in prima edizione nel 1952 e rivolti principalmente agli studenti dei corsi di cultura friulana organizzati dalla Società filologica friulana. La linguistica friulana poté contare, nella seconda metà del secolo scorso, sull’apporto rilevantissimo di due insigni studiosi, nati nello stesso giro di anni: Giovan Battista Pellegrini (Cencenighe, 1921) e Giuseppe Francescato (Udine, 1922). Quest’ultimo fu il primo docente universitario a riservare una parte rilevante della sua attività accademica all’illustrazione scientifica della lingua friulana, oltretutto con una visione innovativa proveniente da analisi condotte sulla scia delle più moderne teorie di settore. Pur senza trascurare la linguistica storica tradizionale, egli applicò fin dai primi anni Cinquanta le nuove teorie strutturaliste (all’epoca guardate con una certa diffidenza dalla tradizionale ricerca europea), che aveva appreso dalle scuole statunitense e danese. Da qui nacque la magistrale monografia su Il dialetto di Erto (1963) «modello per la descrizione e la classificazione dialettologica in generale», con la quale dimostrò l’appartenenza al friulano concordiese della varietà ertana, già attribuita da Carlo Battisti al ladino centrale. Ad essa seguì la sintesi illustrativa delle varietà linguistiche del nostro territorio con la Dialettologia friulana (1966), in cui coniugò i tradizionali dati geolinguistici con quelli strutturali di nuova acquisizione per l’ambiente scientifico italiano: l’opera, come ricorda Giovanni Frau, è rimasta repertorio di riferimento fondamentale in questo campo di studi. Negli anni successivi Francescato sviluppò la lettura dei fatti linguistici anche in chiave sociologica, culminata con la monografia Lingua storia e società in Friuli, in collaborazione con Fulvio Salimbeni (1976). A questi lavori si aggiunga la redazione di una parte di voci del Dizionario etimologico storico friulano (DESF), opera importante, ma rimasta incompiuta (Udine, Casamassima 1984), già ideata e promossa insieme con Giovan Battista Pellegrini. Collegati al mondo accademico e alle opportunità offerte dalla ricerca universitaria sono anche gli straordinari contributi lasciati da Pellegrini, che può essere considerato il maggior conoscitore, a livello di storia linguistica, delle varietà ladine e del friulano. L’apporto di Pellegrini e dei suoi collaboratori neolaureati e ricercatori dell’Ateneo patavino, unito all’entusiasmo e alla tenacia dell’ideatore, è all’origine dell’Atlante storico-linguisticoetnografico friulano (ASLEF) in sei volumi (1972-1986), che il curatore volle dedicare «ai Friulani, che hanno saputo conservare per secoli un patrimonio linguistico e culturale ricco di una straordinaria varietà e originalità». Era la prima volta che in Italia si portava a termine, in tempi relativamente brevi, un’opera di tal fatta, ritenuta «una pietra miliare» nella storia della linguistica romanza. Schierandosi su posizioni che per gran parte furono già di Carlo Battisti, Pellegrini riscontra nel “ladino” un insieme di parlate conservative, già appartenenti ad un sistema più ampio che includeva gran parte dell’Italia cisalpina. Va inoltre segnalata la sua collaborazione al Dizionario Etimologico Storico Friulano (DESF), ricordato sopra.

Gli studi demoetnoantropologici

Copertina dell’“Almanacco regionale Bemporad per i ragazzi” Il Friuli di Lea D’Orlandi, disegnata dalla sorella Fides, Firenze 1924.

I decenni successivi all’unificazione del Friuli all’Italia, dopo la fase romantica più attenta all’ambito della poesia popolare, videro anche l’avvio sistematico della ricerca etnografica in un contesto culturale intriso di positivismo. Il personaggio più rappresentativo di questa prima stagione di ricerche è il gemonese Valentino Ostermann, un insegnante di scuola costretto dalla carriera a trasferirsi da una città all’altra del regno. Il lavoro che impose Ostermann all’attenzione degli studiosi del folclorismo italiano fu la raccolta dei Proverbi friulani («raccolti dalla viva voce del popolo e ordinati» per argomento), uscito nel 1876. I successivi contributi, pubblicati su riviste locali, confluirono nel più noto volume su La vita inFriuli. Usi, costumi, credenze, pregiudizi popolari, edito a Udine nel 1894: esso costituisce, a giudizio di Gian Paolo Gri, il primo quadro organico complessivo, a tutto tondo, della cultura popolare in Friuli, ricercata con attenzione anche alla dimensione storica, attraverso l’utilizzo selettivo della documentazione d’archivio allora nota. Il quadro, di impianto positivistico-evoluzionistico, della cultura popolare non è tracciato utilizzando soltanto lo schema, poi classico nella ricerca folclorica successiva del primo Novecento, che incrocia le tradizioni collegate al “ciclo dell’anno” con quelle del “ciclo della vita”. Lo sguardo è rivolto in maniera prioritaria alle cosmologie (alle “etnoscienze”, si direbbe, utilizzando la terminologia etnologica corrente), ai sistemi di credenze, alle concrezioni di significato che nella cultura tradizionale si erano cristallizzate intorno agli astri, alle piante, agli animali, ai fenomeni naturali, ai saperi e alle pratiche connesse agli stati di salute e di malattia, agli oggetti d’uso, agli spazi, alle immagini, e così via. Nuovo fu lo sforzo di ricerca “sul campo”, di raccolta (relativamente) sistematica e di osservazione oculare, in una prospettiva storica di sintesi. La ricerca folclorica conobbe una seconda e sistematica stagione di ricerche dopo il 1919, nel contesto dell’attività della nuova Società filologica friulana. Il folclore fu al centro delle ricerche di Lea D’Orlandi, la quale già nel 1924 pubblicò un volume dedicato a Il Friuli nella collana degli “Almanacchi regionali Bemporad per i ragazzi”: un testo sussidiario che aprì la conoscenza della propria regione a una generazione di bimbi delle scuole elementari, fino all’abolizione di questo genere di strumenti didattici imposta dal fascismo. Ricerche etnografiche più ampie vennero avviate dalla D’Orlandi sul finire degli anni Trenta, quando si rafforzò la collaborazione con Gaetano Perusini nello studio dei costumi popolari nelle diverse aree del Friuli. Dai tardi anni Quaranta, attraverso indagini sistematiche documentate dai copiosi schedari che ancora si conservano, Lea D’Orlandi avviò una vasta campagna di rilevamento delle credenze e pratiche tradizionali relative a magia, stregoneria, maltempo, etnomedicina. Seguono i contributi, editi fra il 1954 e il 1960 su «Ce fastu?» diretto da Gaetano Perusini, che testimoniano la qualità dei suoi rilevamenti sugli usi nuziali del Friuli.

Donne in costume davanti all’ingresso della chiesa di S. Maria Assunta a Prato di Resia, fotografia di Giuseppe Malignani, 1878 ca. (Udine, Civici musei, Archivio Società alpina friulana).

Perusini aveva iniziato a occuparsi di cultura e tradizioni popolari negli anni Trenta del Novecento, accettando di collaborare con Pier Silverio Leicht nell’ambito della Società filologica friulana. Laureato in Scienze agrarie e impegnato nella gestione del patrimonio familiare, che interessava in particolare i settori agricolo e della viticoltura, fu sollecitato ad occuparsi del nesso fra diritto agrario e consuetudini popolari. L’acquisizione di una metodologia scientifica, volta a far convergere la ricerca archivistica e il rilevamento etnografico in una prospettiva storica, ebbe come esito, dopo la pubblicazione di Usi e consuetudini agrarie e commerciali della provincia di Udine nel 1950, soprattutto la serie di saggi confluiti in Vita di popolo in Friuli. Patti agrari e consuetudini tradizionali, edita nel 1961 da Olschki nella “Biblioteca di Lares”, allora prestigiosa collana che faceva riferimento alla maggiore rivista nazionale di studi folclorici. Le linee guida di questa ricerca, che comportava un netto superamento della prospettiva romantico-positivistica, sono chiaramente illustrate nell’introduzione al volume: «Chiarire la genesi e le forme degli usi connessi con la terra, la proprietà e lo sfruttamento della stessa come premessa allo studio delle condizioni di vita in Friuli nei secoli decorsi». La feconda collaborazione scientifica con Lea D’Orlandi, testimoniata da diversi saggi poi raccolti, scomparsi i due studiosi, nel volume Antichi costumi friulani (1983), riguarda le forme e i processi di trasformazione dei costumi e dell’abbigliamento tradizionale e popolare nelle diverse aree del Friuli. Molti lavori di Perusini, tuttora validi per la loro originalità, sono costruiti intorno alle forme tradizionali di organizzazione del territorio, attenti alle «forme di vita». Altro merito di Perusini fu la dimensione comparativa della ricerca, come dimostra il coinvolgimento, insieme a etnologi sloveni, tedeschi, svizzeri, croati, italiani nel gruppo di lavoro Alpes Orientales: vale la pena di ricordare fra questi almeno Giuseppe Vidossi, Milko Matičetov e Niko Kuret. Negli anni Cinquanta e Sessanta, in concomitanza con una sorta di ricambio generazionale che vide uscire di scena gli studiosi di folclore della precedente generazione, le discipline demoetnoantropologiche furono per così dire istituzionalizzate anche in Friuli. Venivano a maturazione le campagne di ricerca sistematica avviate negli anni precedenti sulla tradizione orale e ora inquadrate nei parametri di una corretta e rigorosa filologia specifica (Gianfranco D’Aronco, Novella Cantarutti), sulle tradizioni del ciclo dell’anno (inchieste sistematiche a guida dello stesso Perusini; Andreina Nicoloso e Luigi Ciceri), sui sistemi di credenze (Lea D’Orlandi), sulla cultura materiale, in concomitanza al nascere dei primi musei etnografici; si stringevano i nodi con il settore della dialettologia (la collaborazione di Perusini con l’ASLEF); l’etnografia incrociava lo sviluppo di nuove indagini etnomusicologiche e iniziava a fare i conti con gli sviluppi dell’antropologia culturale in sede nazionale. Friulani furono i primi titolari di insegnamento demologico nelle Università di Trieste (Gaetano Perusini, appunto) e Padova (Gianfranco D’Aronco), creando la rete di discepoli e collaboratori che contribuirono a sviluppare la disciplina in termini quantitativi e qualitativi. Un apporto rilevante in campo etnografico è quello lasciato da Andreina Nicoloso Ciceri all’interno della Società filologica friulana con l’iniziativa delle collane dedicate ai “Racconti popolari friulani” e agli “Ex-voto” presenti nei maggiori santuari friulani. Dedicò la sua vita all’insegnamento e alla ricerca personale insieme con il marito Luigi e ad alcuni collaboratori, fra cui la goriziana Olivia Averso Pellis, che l’aiutò nell’illustrazione fotografica e cinematografica delle tradizioni popolari friulane. L’indagine sul campo si svolse in parallelo con le ricerche d’archivio, che la portarono in particolare ad occuparsi di usi nuziali e di tradizione medica. Le sue monografie si presentano come il tentativo riuscito di sostituire l’ormai centenaria Vita in Friuli di Valentino Ostermann con una rinnovata sintesi. I due volumi sulle Tradizioni popolari in Friuli (1982), più volte ristampato, fino all’ultima edizione 2002, riassumono l’intera stagione novecentesca di studi folclorici in Friuli, che organizza le tradizioni lungo i due assi del “ciclo della vita” e del “ciclo dell’anno”. Il ritorno in regione e il trasferimento all’Università di Trieste, avvenuto nel 1978, rappresentarono per Carlo Tullio Altan, originario di un’antica famiglia friulana di San Vito al Tagliamento, anche il riavvicinamento alle tematiche storico-sociali e culturali del Friuli. La ricerca di Tullio Altan, tra i primi a introdurre l’antropologia culturale in Italia attorno alla metà del secolo, era orientata, più che all’indagine di campo, ai rapporti con la fenomenologia religiosa, alla riflessione epistemologica, all’analisi di fenomeni propri delle “società complesse”. In dialogo con il gruppo della rivista di studi regionali «Metodi & Ricerche», con l’Istituto Gramsci, con giovani ricercatori impegnati nell’analisi dei processi che investivano la regione dopo l’esperienza del terremoto del 1976, sviluppò numerosi interventi di riflessione tesi a cogliere la specificità friulana e le connessioni nazionali e internazionali delle trasformazioni: Tradizione e modernizzazione. Proposte per un programma di ricerca sulla realtà del Friuli (Udine, 1982), Udine in Friuli (Udine, 1982), Cultura contadina e modernizzazione. Il Caso Friuli (introduzione al Quaderno n. 18 della Fondazione Feltrinelli, 1982).

La letteratura in lingua friulana

Primo numero de «Il Stroligut», Casarsa, agosto 1945: in copertina il disegno dell’“ardilut” (valerianella), simbolo dell’“Academiuta di lenga furlana”.

Passando, con l’aiuto di Rienzo Pellegrini, alla letteratura in lingua friulana, è il caso di ricordare che la prima edizione dei versi di Ermes di Colloredo era uscita nel 1785. Nel 1828 fu pubblicata la seconda edizione curata da Pietro Zorutti, il quale, quasi a rivendicare una sorta di eredità, allegava in calce una scelta di propri versi. A fare da ponte tra i due secoli fu Fiorindo Mariuzza, singolare figura di “poeta contadino”, che si esibiva nelle sagre paesane e portava sulle piazze dialoghi e contrasti, protratte dichiarazioni d’amore, al ritmo della chitarra e del mandolino. Egli costituì un passaggio intermedio della svolta simboleggiata dal passaggio di consegne tra Colloredo e Zorutti. L’affermazione popolare di un nuovo genere letterario, quello dell’almanacco, rappresenta un punto critico, di cambiamento, per la storia del costume, ed esprime un nuovo modo di concepire la letteratura e la poesia, anche in relazione allo statuto “di consumo” che esso viene ad assumere: per il pubblico nuovo che prevede e per il quadro dei ragguagli pratici (tra questi i pronostici metereologici) offerti, grazie ai suoi costi bassi e al suo formato tascabile. La stagione degli almanacchi si riassume nel nome di Zorutti, protagonista di una serie di aneddoti curiosi, che fissano e cristallizzano l’immagine di un personaggio ridente, dalla battuta fulminea, a volte bonaria, altre volte graffiante. Ma interessa notare come negli aneddoti prenda corpo una formula critica, l’idea di almanacco come risarcimento e nicchia che, per un attimo, alleggerisce il peso della vita: «E lu scriv par che’ int / … / par che int che, se j ven cuàlchi fastidi, / çhol su il lunari par butale in ridi» [E lo scrivo per quella gente… per quella gente, che se le viene qualche fastidio, prende in mano il lunario per buttarla in ridere]. Così Zorutti in un brano della sua risposta a Niccolò Tommaseo che, recensendolo sulla «Gazzetta di Venezia», lo aveva sollecitato ai doveri dell’impegno. L’almanacco come diversivo, dove l’epigramma pungente si alterna con la nota idillica, dove le serie di rime baciate cedono alla malinconia discreta e quasi inibita del ricordo. Una scrittura che peraltro si distende nell’arco lungo, paradigma poetico e modello (lessicalmente ricco, a dispetto degli italianismi) per un friulano unitario, che non esclude le contaminazioni maccheroniche. L’ultima parte della vita di Zorutti fu segnata dai lutti familiari e da difficoltà economiche. E da una popolarità in declino. La sua morte nel 1867, a breve distanza dal plebiscito che aveva sancito l’annessione all’Italia, cadde nel silenzio, in una città distratta da altri assilli: Udine era presa nel vortice degli eventi. Ma nel 1992, centenario della nascita, Zorutti fu promosso a simbolo di unità per un Friuli diviso e fu a Gorizia che tale istanza si definì. Uomo mite, ideologicamente ritroso, Zorutti si faceva emblema per le rivendicazioni dell’irredentismo. L’almanacco ebbe cultori numerosi (da Toni Broili a Nicolò Steffaneo, a Guido Podrecca: il genere si ramifica in articolazioni minute), ma a Gorizia ebbe una diffusione particolare. Quella del Friuli è storia di fratture che prescindono dall’unità linguistica e il 1866 ridisegna la divisione interna lungo un corso d’acqua insignificante, lo Judrio, che per secoli, dai trattati di Worms e Venezia del 1521 all’età napoleonica, aveva distinto un Friuli veneto da un Friuli austriaco. Gli almanacchi goriziani privilegiano la prosa. La predilige Luigi Filli, che professava sentimenti filoasburgici: sue alcune pagine di surreale (e insieme tesa) fantasia. La privilegiano Carlo Favetti, Federico Comelli e Giuseppe Ferdinando del Torre, nei quali fu limpida l’opzione risorgimentale e per i quali l’almanacco fu forma specifica di una scrittura militante. Una pedagogia spartana persegue Il me pais di Comelli, di Gradisca, che dal calendario espunge festività e santi, mentre è più accomodante Il Contadinel di del Torre, di Romans, che regge la trafila di quaranta annate consecutive, con un programma definito fin dal primo numero: «Chist librutt no l’hai fatt pal sior nè pal letterat: l’hai scritt unicamenti pal contadinel del miò paìs. Il fin l’è di metti in rilev li sos virtuz, di corezi i difiez, di mostrai qualchi meorament che si podaress introdusi […]» [Questo libretto non l’ho fatto per il signore né per il letterato: l’ho scritto unicamente per il contadinello del mio paese. Lo scopo è di mettere in rilievo le sue virtù, di correggere i difetti, di mostrargli qualche miglioramento che si potrebbe introdurre…]. La narrativa popolare nel Friuli ottocentesco fu assai viva grazie all’impulso dato dal Tommaseo e trasmesso ad esempio a Caterina Percoto e da lei a Giuseppe Ferdinando del Torre. Nelle leggende e tradizioni sono raccolte (così si teorizza) dalla voce del “popolo” e restituite al “popolo” con l’intento di migliorarne i costumi in funzione dell’unità politica da conseguire. Lo stile perseguito è semplice, breve e pulito. Protagonista dei racconti è la campagna. La città, malsana e corrotta, è rimossa, e i valori si racchiudono tutti in una esistenza ispirata al principio della misura e della modestia. A dispetto di una morte avvenuta nel silenzio, Zorutti diede vita ad una poesia che durò nel tempo. Quanto a Pietro Bonini, i suoi sonetti non insidiano l’altezza di quelli di Zorutti; benché in essi si senta l’eco di Leopardi: la luna e il dolce trascorrere della sua luce. E il «desiderio di mostrare» «la forza e l’agilità» della lingua friulana spinge Bonini a tradurre da Dante, Boccaccio, Foscolo, Leopardi, Porta, Belli, Carducci, Zanella, Fucini, Trilussa e Longfellow. Ha il suo movente in Villa Gloria di Pascarella Il Quarantevot di Pieri Corvat (Pietro Michelini): sul filo della memoria, un racconto “parlato”, da osteria, che si snoda senza intoppi nella sequenza dei sonetti. Nei nitidi colori di Matinada, il testo più antologizzato di Vittorio Cadel, che è anche pittore, risaltano in rima termini come urinâl, ma anche rosada: più tardi la poesia fu indicata dal giovane Pasolini come un prodigio di “oralità” abbagliante. Ad Argeo (Celso Cescutti) Zorutti fornisce il modulo della rima baciata e ispira i quadretti in cui si riversano le abitudini paesane, i loro ritmi invariati; la natura è percorsa da smarrimenti e da stupori, da un interrogarsi “leopardiano” sul fine ultimo della vita, che esorcizzano il modello. Nel 1919, a Gorizia, venne fondata la Società filologica friulana: una mozione di “italianità” a guerra appena conclusa. La Filologica fu luogo d’incontro obbligato, il contatto con la tradizione ininterrotto. Intrisi di oralità sono i racconti di Dolfo Zorzut, in grado di giostrare con finezza tra rilevamento e “invenzione”. Nei limiti del dispositivo metrico, all’ambito popolare si rifanno le Villotte friulane moderne di Giuseppe Malattia della Vallata, archivio curioso di appelli politici, sollecitazioni etiche (contro la bestemmia, contro l’alcool), inventari toponomastici (non senza avventurose interpretazioni). In Bindo Chiurlo, cui si devono contributi fondamentali (una antologia e le edizioni di Zorutti e della Percoto), il friulano è confinato nelle tonalità “minori”, in atmosfere rustiche, dove si scopre l’influenza di Pascoli e di Carducci. Ma la lettura di Pascoli, non senza debiti con lo Zorutti dalla vena intima e più ripiegata, è meglio evidente in Giovanni Lorenzoni: un pascolismo tenero, accompagnato da un notevole sperimentalismo metrico (e da una sentita attenzione per la cultura slovena). Vicino a un socialismo umanitario, che richiama ancora Pascoli, fu Enrico Fruch. In lui accanto ai ricordi privati affiorano echi da Pascoli appunto (nelle onomatopee in particolare), da Carducci, da Zorutti. Mentre ad altri modelli rinvia Ugo Pellis, il raccoglitore dell’Atlante Linguistico Italiano, che tradusse dallo spagnolo Bécquer e da Goethe, e fu autore di villotte nelle quali è acrimoniosa la polemica antiaustriaca; ma sono sorprendenti soprattutto le sue prose ritmiche, caratterizzate da anafore, da allitterazioni e da rime interne. Nel generale conformismo politico dei primi decenni del Novecento emerge la figura di Giovanni Minut: Misèrie infame è di per sé una protesta, senza parole di speranza. Durante il Ventennio manifestazioni di dissenso netto si osservano in due sacerdoti: Giovanni Schiff, il popolarissimo Zaneto, e Giuseppe Driulini, più sanguigno. Quest’ultimo tra il 1921 e il 1923 pubblicò sulle colonne del «Lavoratore friulano» dialoghi apertamente antifascisti (e che non risparmiano la Chiesa ufficiale), interlocutori i personaggi di pietra della udinese piazza Contarena. Tra le due guerre Ercole Carletti fu autore di versi innovativi. La metrica, con l’unità ritmica frantumata, suppone Pascoli, che offre il modello di un uso insistito dell’onomatopea e di tonalità luttuose, come il vit-vit delle rondini o il «grii grigrii des pradariis», a rendere la voce dei grilli nella distesa dei campi. Ma da Pascoli discende anche il simbolismo che dà forma al disagio interiore, come in Fumate (Nebbia), pur nel quadro di una quotidianità che rassicura. L’ipoteca del friulano puro e senza compromessi impedì forse a Carletti una più diretta espressione del malessere e del venir meno delle certezze. Solo con Pasolini si consumerà, senza remore, lo strappo dalla tradizione. Nel 1942 la scadenza dei centocinquant’anni dalla nascita di Zorutti (e dei settantacinque dalla morte) trovò puntuale risposta nei riti commemorativi. Compendiò felicemente, fin dal titolo, convinzioni radicate Pier Silverio Leicht: Pietro Zorutti, poeta vivo. Bindo Chiurlo, rielaborando, in una fondamentale monografia, le pagine premesse alla sua edizione del 1911, sancì: «il maggior poeta che abbia avuto il Friuli anche tenuto conto dei poeti nella lingua nazionale». Misurate riserve espresse Carletti, mentre censure più brusche furono quelle di Giuseppe Marchetti. Nei fatti nello stesso 1942 la nuova poesia friulana nasceva altrove: a Bologna, nell’estate, Pier Paolo Pasolini pubblicava Poesie a Casarsa, versi liberi da compromessi con gli statuti locali, che non si prestavano ad un confronto dialettico. Se per Pasolini il friulano restò lingua della poesia, Marchetti perseguì un progetto di friulano a tutto campo, valido per tutti i registri della scrittura (anche per la saggistica, compresi settori tecnici come l’economia e la statistica) e degli ambiti orali, a scalare dall’intimità della famiglia all’ufficialità. Tra il 1942 e il 1949 si bruciava la stagione friulana di Pasolini, con la soggettività, il lirismo di Poesie a Casarsa da un lato, e la coralità voluta, il plurilinguismo epicolirico di Dov’è la mia patria dall’altro, dove la precarietà della competenza linguistica iniziale è ben presto sanata. Per Pasolini furono anni febbrili, che abbracciano l’“Academiuta di lenga furlana”, fondata nel febbraio del 1945, le rivistine con il loro programma in ascesa, senza antagonismi in prima battuta («Stroligut di cà da l’aga» nel 1944), con risentita autonomia poi («Il stroligut» nel 1945 e 1946), a prospettare infine orizzonti non municipali, rimuovendo i vincoli residui con l’almanacco (Quaderno romanzo nel 1947). Pasolini tentò di associare alla propria linea anche l’esperienza di Franco de Gironcoli, solitaria a dispetto di innegabili premesse condivise: un friulano recuperato a distanza, individuale àncora di salvezza. Il de Gironcoli, urologo di grande nome, uomo già maturo, riscoprì il friulano (e scoprì la poesia) nel corso dell’esperienza più aspra della guerra. Lo riscoprì nella doppia cesura dell’età (il friulano di Gorizia, appreso nell’infanzia, ma mai lingua della comunicazione) e della geografia: de Gironcoli è a Conegliano e i versi sono affidati alle minuscole “plaquettes” fuori commercio di Gino Scarpa. Recensendo nel 1943 Poesie a Casarsa, Gianfranco Contini accreditò Pasolini di una parentela ideale con le poche tracce cividalesi, ancora vincolate (così almeno si ritiene) al trovadorismo provenzale. Contini citò poi il “félibrige” di Mistral, il movimento provenzale moderno. E di questi cenni Pasolini fece tesoro nella definizione della sua poetica (e, con virtuosistica oltranza, nella sua scrittura). Ma la sua stagione friulana si chiuse nel 1949 (con lo scandalo della “diversità” che ne determinò la fuga a Roma con la madre «come in un romanzo» il 28 gennaio 1950). Del 1954 è La meglio gioventù, assorto e lancinante bilancio di quegli anni, canzoniere articolato in più segmenti e insieme organismo compatto, tappa felice nella produzione di Pasolini e nell’intera vicenda della poesia friulana. Nello stesso 1949 si costituì il gruppo di “Risultive” (Acqua sorgiva), ispirato da Marchetti, che nello specchio della oralità (villotte, fiabe e leggende) trovava le ragioni autentiche, non intellettualisticamente mutuate da culture estranee, della propria modernità. Il gruppo sperimentò la poesia: con Otmar Muzzolini, più legato alla tradizione, con elementi di ascendenza zoruttiana, tra abbandono idillico e pungenti guizzi satirici. Come con i più freschi Aurelio Cantoni, nei suoi fotogrammi assorti del Friuli di un tempo, e Dino Virgili, nella sua sensualità sottile. Il gruppo sperimentò la narrativa: il romanzo con Virgili (e poi con Maria Forte), il racconto (Par un pêl, di Riedo Puppo, fortunato controcanto dell’epopea risorgimentale). Sperimentò il teatro: con Cantoni, Muzzolini, Alviero Negro. E adottò il friulano comune, la koinè, volutamente intesa come lingua unitaria. Nel 1952 uscirono i Lineamenti di grammatica friulana di Marchetti. Pur vicina a Marchetti (ma anche a Pasolini), capace di mediare in una sintesi personalissima istanze diverse, tra poesia, racconto, elzeviro, e rilevamento etnografico per la scelta di una varietà linguistica laterale (è la deroga più vistosa), ai confini del gruppo si colloca Novella Cantarutti, che assume il dialetto materno di Navarons. Un po’ appartato si trova anche Renato Appi, di Cordenons, autore di testi teatrali friulani e italiani (del 1969 il suo primo volume di versi). Del 1949 fu anche l’avvio de «Il Tesaur», una rivista diretta da Gianfranco D’Aronco, alla quale si affiancò un gruppo meno strutturato, ma che nella tradizione individuava il proprio punto di riferimento: nomi nuovi (come Nadia Pauluzzo), nomi in vario modo noti (come Francesca Barnaba Marini, Pietro Someda de Marco, i casarsesi Bortotto e Castellani). Negli anni Quaranta il Movimento per l’autonomia non raggiunse risultati concreti: fu solo del 1963 l’istituzione della Regione autonoma, ben altra del resto da quella ipotizzata, e non ebbe ricadute per la scrittura friulana. Erano gli anni del boom economico, di una società che cedeva alle leggi del consumo, che con un salto improvviso accantonava i vecchi ritmi rurali e la stessa lingua (del 1963 è la nuova scuola media). Uno iato secco tra 1975 e 1976. Pasolini con La nuova gioventù (1975) riaccese l’attenzione sul friulano: sul mito favoloso e sulla durezza dell’abiura. Sempre nel 1975 fu la sua morte atroce, con l’eccezionale onda emotiva che produsse. Ancora nel 1976, il terremoto con le sue distruzioni, i suoi lutti, segnò una rivalutazione delle “radici”. Per il friulano fu una fase nuova. Autori che si erano espressi esclusivamente in italiano allora scoprirono il friulano: un friulano per lo più privo di tradizione scritta, lingua della poesia. È il caso di Elio Bartolini, romanziere (e sceneggiatore). È il caso di Amedeo Giacomini, prosatore e poeta di sofisticata eleganza. Ma il suo esordio friulano, nella varietà di Varmo, è nel segno dei toni accesi, “maledetti”, a rendere il lato oscuro e rimosso, il lato “scomodo” della realtà paesana, con i suoi disadattati (e vinti che richiamano alla memoria letteraria François Villon): «Jo bastart, pagan, / samense brusade di un pâri cioc, / ance jo cioc, sí, che il bêvi mi plâs…» [Io bastardo, pagano, semenza bruciata di un padre ubriaco, ebbro anch’io, sí, ché il bere mi piace…]. Ma al registro ostentato della rabbia, a questa oltranza proterva (e insieme culta), subentreranno i modi di una introspezione intensa e dolente, non urlata. Affinità si possono trovare in Siro Angeli, il cui friulano (la varietà di Cesclans) solo dopo il terremoto prese corpo, svincolandosi dai temi collaudati (e rischiando anche la sceneggiatura in friulano:Maria Zef, dove Angeli, con una recitazione asciutta, è anche attore protagonista). Ma la commutazione di codice vale anche per Elsa Buiese, Celso Macor (Versa di Romans), Lionello Fioretti (Bagnarola), Beno Fignon (Montereale Valcellina). Il “friulano come dovrebbe essere” di Angelo Pittana, pur promotore di un friulano a tutto campo, di un friulano “lingua” senza barriere (e dunque abilitato anche ai settori tecnici e scientifici più esclusivi), ha la suggestione della lingua inventata, con la sua fusione di arcaismi, neologismi e prestiti. Sottraendosi all’istanza pasoliniana del friulano come lingua per (e della) poesia, il friulano occupa sempre più spazi non usuali: fumetto, cinema, cartoni animati. Il friulano stabilisce rapporti inediti con la musica: dal Canzoniere di Aiello, che procura ai versi di Leonardo Zanier un pubblico più ampio, a una fitta presenza di band, a Pierino e il lupo di Prokofiev e l’Histoire du soldat di Stravinskij, con le traduzioni, in un friulano terroso e insieme colto, di Giorgio Ferigo, il quale mutua, con inventività estrosa, brani di Georges Brassens. Ai margini di un profilo propriamente letterario si situano gli interventi di tutela linguistica: dalla legge regionale 15 del 1996 alla 482 del 1999, che riconosce al friulano lo status di lingua minoritaria, con rilevanti riflessi. Un discorso a sé meriterebbe la personalità robusta di Antonio Bellina, che con la scioltezza della sua scrittura ha procurato insieme una levigata Bibbia in friulano, e un volume anticonformista e spigoloso come La fabriche dai predis. La menzione di questi due ultimi lavori offre l’occasione per ricordare il ruolo di primo piano svolto dal clero e dalla Chiesa nella salvaguardia della lingua e dell’identità friulana. Tale ruolo è ampiamente illustrato da Vittorio Peri, che mette in luce l’egemonia del clero di origine etnica friulana sulla nascente cultura scritta popolare in quella lingua. «Essa sorgeva», spiega Peri, «in modo quasi spontaneo dalla necessità pastorale di mantenere un contatto diretto con i valori spirituali e morali realmente vissuti, sentiti ed espressi (si canta, si impreca, si piange, si parla con se stessi con le parole e le espressioni apprese nell’infanzia), comportando anche un senso di appartenenza all’etnia e alla sua storia».

La letteratura in lingua italiana

Lettere di Ippolito Nievo alla madre Adele Marin, Grado, 24 luglio 1856, Colloredo di Monte Albano, 11 agosto 1856 (Udine, Biblioteca civica, Principale, ms 2535, 18-19).

Anche la letteratura in lingua italiana può annoverare diversi scrittori che si occuparono del Friuli nel corso degli ultimi due secoli. Per fermarsi solo ai più conosciuti, la prima figura che si staglia con la sua personalità nel corso dell’Ottocento è quella di Ippolito Nievo, le cui vicende personali si intrecciano con i moti del Risorgimento e la cui opera risentì profondamente dell’influsso di quel filone di narrativa campagnola o rusticale che, affermatosi in ambito europeo, tante consonanze trovò anche in seguito nella letteratura delle terre friulane. Al Friuli lo legavano, in particolare, i rapporti familiari e i ricordi dell’infanzia e della giovinezza trascorsi presso il castello di Colloredo di Montalbano. Riferimenti al Friuli si trovano nelle novelle campagnole, come la Santa di Arra, e nella novella Il Varmo, quest’ultima pubblicata a puntate sul settimanale «L’annotatore friulano» a partire dal marzo 1856: un racconto ambientato in Friuli, che anticipa in qualche modo i primi capitoli delle Confessioni di un italiano. Nel Friuli feudale si muovono i protagonisti de Il conte pecoraio, un romanzo che rivela la dipendenza dai modelli paternalistici manzoniani nell’interpretare le istanze sociali delle classi subalterne. Nell’Alto Friuli è ambientato il romanzo Il pescatore di anime, la cui stesura Nievo iniziò nel dicembre 1859. Negli stessi anni Nievo aveva posto mano alle Confessioni, che si aprono con la celebre descrizione del castello di Fratta e delle consuetudini feudali della Patria del Friuli sul finire dell’antico regime. Scrisse in italiano e in friulano Caterina Percoto; nelle sue Novelle vive con profonda partecipazione l’insurrezione del 1848 e i moti per l’unità dell’Italia e al tempo stesso descrive le condizioni di vita del mondo contadino, mettendo in luce la miseria dei protagonisti. I suoi racconti sono ambientati nel Friuli dell’Ottocento con una scelta consapevole a favore della campagna, intesa come rifugio e risorsa, in contrapposizione alla città. Pur riconoscendo nella sua narrazione il limite di non vedere “città” e “campagna” nella loro interdipendenza, «l’adesione all’orizzonte contadino non è artefatta: come la preferenza accordata alla veglia nelle stalle (cornice di privilegio per l’intervento educativo), in sintonia con il Novelliere campagnuolo di Nievo». Per quanto riguarda le lingue da lei usate, la critica ha spesso contrapposto la spontaneità e la ricchezza del Friulano (sua lingua materna) con una certa artificiosità dell’Italiano. Per una valutazione complessiva a questo proposito è forse opportuno ricordare, come fa Rienzo Pellegrini, che l’italiano della Percoto va messo a confronto con il modello composito della prima edizione de I promessi sposi (1827), «che autorizza una escursione anche notevole tra piega letteraria e cadenza dialettale», piuttosto che con il paradigma instaurato dall’edizione del 1840. Il mito del mondo contadino, tutt’uno con una visione ecologica del mondo e una concezione sacrale della natura, è uno degli aspetti centrali dell’opera di Carlo Sgorlon, il più grande cantore contemporaneo del Friuli. Un altro aspetto della sua opera, messo in luce da Fabiana di Brazzà, è la concezione vichiana della storia, che sottostà ai romanzi di ambientazione storica, legata a «una visione pessimistica e ciclica degli eventi, che non esclude la speranza di un ritorno ad una nuova età, come nel romanzo Gli dei torneranno (Milano, 1977), romanzo di intonazione epico-profetica, dove la narrazione della storia friulana supera la narrazione degli eventi e il senso della storia si unisce al fascino per il leggendario e il favolistico». L’amore per il Friuli accompagna l’intera opera di Sgorlon dai Racconti del 1976, pensati per le scuole medie, a La carrozza di rame del 1979, sul terremoto che aveva appena sconvolto il Friuli, ai romanzi che hanno per sfondo personaggi e vicende della storia del Friuli: pensiamo a L’armata dei fiumi perduti del 1985, epico racconto della tragedia dell’armata cosacca in Friuli negli ultimi mesi di guerra, o Marco d’Europa e Il filo di seta del 1999, rievocanti i percorsi straordinari di Marco d’Aviano e Odorico da Pordenone, a uno dei suoi ultimi lavori, Il velo di Maja del 2006, che ripercorre l’epopea friulana attraverso l’ideazione di un personaggio che utilizza la sua fortuna per il bene comune. Per quanto riesca difficile dare una valutazione sufficientemente obiettiva e distaccata nei confronti di autori scomparsi da poco, è doveroso almeno un cenno ad alcuni di questi. L’infanzia furlana e Le quattro sorelle Bau sono stati tra i libri più fortunati di Elio Bartolini: essi raccontano gli anni «molto poveri e molto cattolici» dell’infanzia passati dall’autore tra Conegliano e Codroipo, dove viveva la nonna materna. Nel 1970 fu dato alle stampe Il Ghebo, storia di partigiani ambientata in Friuli nell’inverno 1944-1945, la cui prima stesura dal titolo La Cartera risale al 1946-1947. Negli anni successivi al terremoto del 1976 Bartolini compose e pubblicò diverse raccolte di poesie in lingua friulana, sottoposte, come ricorda Mario Turello, a innumerevoli revisioni che rivelano il mestiere sempre insoddisfatto del filologo appreso negli anni della formazione universitaria. Un Friuli contadino che non esiste più viene fatto rivivere anche da David Maria Turoldo, che con Gli ultimi, un film uscito nel 1963, ripercorre la povertà della sua infanzia in Friuli, mettendone in luce i valori autentici e profondi che entrano in crisi con il diffondersi di un benessere economico appagante e totalizzante. Su questi temi Turoldo ritornò in particolare dopo il terremoto del 1976, quando la parte più sensibile della cultura friulana avvertì il rischio che tra le rovine dei monumenti finisse l’identità culturale stessa del Friuli. L’evento pauroso del terremoto e la distruzione del castello avito di Colloredo di Montalbano, seppur vissuti da lontano, trovano riscontro anche nei racconti di Stanislao Nievo raccolti nel volume Il padrone della notte (1976), dove si descrive «la furia delle forze infinite che la Terra Madre chiude nel suo grembo». Con il terremoto del 1976 si aprì anche la breve parentesi di produzione poetica in friulano di Luciano Morandini, cui va riconosciuto soprattutto l’impegno d’intellettuale militante nelle riviste torinesi «Momenti» e «Situazione» e intorno al Centro di ricerche culturali “Pietro Calamandrei” di Udine. Un’altra figura significativa di intellettuale militante è quella di Tito Maniacco, le cui vicende personali sono ricostruite nel romanzo autobiografico Figlio del secolo (2008). A Maniacco va riconosciuta un’intensa attività letteraria, poetica, narrativa e saggistica, che non è mai disgiunta dall’impegno politico e da una particolare attenzione ai temi dell’autonomia e dell’identità friulana. E l’antitesi tra il mondo contadino e la cultura metropolitana, la campagna e la grande città, Varmo e Roma, è il motivo ricorrente anche nell’opera di Sergio Maldini La casa a Nord-Est (1991). In questo caso il romanzo è ambientato a Santa Marizza di Varmo, un piccolo paese della bassa friulana divenuto il rifugio dell’autore dopo una lunga parentesi vissuta nella grande città. Il Friuli descritto da Maldini non ha alcuna corrispondenza nella realtà attuale, ma è dichiaratamente un’utopia, «un luogo poetico» e «poetica» è la sua gente, e «poetici i suoi paesaggi sospesi sull’orizzonte».

Le arti visive

Il compianto di Maria sotto la Croce, particolare della Crocifissione, ceramica di Afro e Mirko Basaldella, 1947 (Udine, Fondazione CRUP).

Venendo alle arti visive, il censimento sistematico di pittori e scultori attivi in regione tra Ottocento e Novecento consente percorsi di lettura diversificati, che vanno utilmente a integrare le vicende dell’arte locale. Odorico Politi, che lavorò nella prima metà dell’Ottocento, è forse il miglior interprete del gusto neoclassico; vivificato dalla lezione del tonalismo veneziano e dall’accorta misura di Jean-Auguste-Dominique Ingres, è autore che si muove tra soggetti mitologici, religiosi e pittura di storia. Egli lasciò a Udine nella residenza di famiglia (palazzo Politi) e in palazzo Antonini dei cicli ad affresco rimasti incompiuti al momento del suo trasferimento a Venezia, dove divenne il maestro di generazioni di artisti che indirizzò al credo neoclassico. Le opere del goriziano Giuseppe Tominz, coetaneo di Politi, e del più giovane Michelangelo Grigoletti, originario di Pordenone, si leggono molto bene in particolare attraverso la cospicua attività che ebbero come ritrattisti; prima ancora che per le soluzioni stilistiche e formali adottate, il loro lavoro si apprezza per il dato antropologico e sociale di una borghesia, che ama farsi ritrarre tra gli orpelli e le messinscene Biedermaier, come mostrano anche i quadri di Luigi Pletti e Giovanni Pagliarini. Filippo Giuseppini, allievo di Politi, rappresenta l’approdo più enfatico e teatrale del Romanticismo in terra friulana, mentre diverse soluzioni di gusto nazareno e purista favoriscono la diffusione della pittura religiosa di Rocco Pittaco, prolifico pittore e decoratore attivo nella seconda metà del secolo. In scultura, il linguaggio del classicismo caratterizza l’attività di un autore come Pietro Bearzi e quella, che attraversa l’intero secolo, di Luigi Minisini, consolidata nelle formule di una classicità atemporale. Minisini fu uno degli scultori più apprezzati dai contemporanei, non solo nel campo della scultura cimiteriale, ma anche nel genere ritrattistico. Con l’opera di Vincenzo Luccardi e Antonio Marsure si farà spazio la tensione espressiva del naturalismo romantico, che verrà rielaborato in una sintesi eclettica, ma di grande fortuna, del pordenonese Luigi De Paoli, con il quale si apre a tutti gli effetti la vicenda della scultura del Novecento in Friuli. I profili biografici di pittori e scultori consentono, tra l’altro, di rintracciare le vicende, assai problematiche e diseguali, d’una committenza che ha dovuto scontare, oltre al fisiologico ritardo dovuto alla collocazione provinciale, la partenza (o, in altri casi, la lunghissima lontananza dalla regione) di diversi talenti, richiamati dai mercati e dalle occasioni più remunerative, e non certo compensati dalle acquisizioni (il caso più interessante è forse quello di Fausto Antonioli). Così, nella quasi totale assenza di un mercato privato, la vitalità della pittura in regione è stata garantita in gran parte dalle committenze religiose. Fenomeno tutt’altro che marginale sono inoltre le vicende della formazione artistica e la relativa geografia artistica di riferimento. Non va dimenticato a questo proposito che la sovranità di Casa d’Austria, affermatasi sull’intera regione nell’epoca della Restaurazione, se riuscì ad unificare il Friuli dal punto di vista politico-amministrativo, non poté appianare d’un colpo le differenze culturali che si erano venute a creare nei secoli precedenti tra Friuli veneto e Friuli goriziano. Se, infatti, le province di Gorizia e Trieste rimanevano tradizionalmente legate al regno asburgico di cui per secoli avevano fatto parte, i territori della “Patria del Friuli” continuarono ad orientarsi verso Venezia, seguitando a riconoscere nella città lagunare un punto di riferimento privilegiato anche dopo che il suo potere politico era definitivamente tramontato. Tale situazione si traduceva in campo artistico in precise scelte di gusto da parte di aspiranti architetti, scultori e pittori che dovendo decidere della propria formazione tendevano a dirigersi verso Vienna e la sua Accademia di Belle Arti, o piuttosto in direzione di Venezia, dove un altrettanto florido istituto scolastico offriva ai giovani artisti la possibilità di compiere un percorso di studi completo ai fini di un’importante carriera professionale. Ciò naturalmente finiva per influire sui diversi contesti con esiti che, a seconda dei casi, mostravano evidenti i segni di una matrice nordica e danubiana, soprattutto in ambito goriziano e triestino, piuttosto che i riferimenti stilistici di ascendenza veneta dominanti nella provincia udinese. La situazione cambia allorché, nel corso dell’Ottocento, l’Accademia perde il proprio valore normativo; e ancor più con i mutati equilibri postbellici. I tre fratelli Basaldella, che diverranno i migliori protagonisti dell’arte novecentesca, si formarono tutti a Venezia, seguitando poi a Milano e Roma; ma ormai la circolazione dei linguaggi tendeva a fornire modelli dalle provenienze più disparate. Le vicende, peraltro piuttosto effimere, della cosiddetta Scuola friulana d’avanguardia fondata a Udine nell’ottobre 1928 (oltre ai Basaldella, vi troviamo Angilotto Modotto, Candido Grassi e Alessandro Filipponi) si possono capire, prima ancora che come episodio d’insofferenza giovanile, come risultato di processi di aggiornamento che guardano ad un orizzonte nazionale (il Novecento Italiano, nelle sue diverse accezioni), se non europeo. Colpisce la resistenza, in ambito locale, ai più espliciti linguaggi del modernismo; il futurismo ha nelle figure di Michele Leskovic e Luigi Rapuzzi una vicenda episodica e non priva di contraddizioni, mentre in quella del goriziano Tullio Crali, pur nell’intensità delle immagini prodotte, si avverte il limite d’una serialità prolissa. Ben più degli episodi del realismo rurale d’un Marco Davanzo o di un Enrico Ursella, della ritrattistica di Antonio Coceani, dei paesaggi di Giovanni Napoleone Pellis, è la dimensione compiutamente borghese della pittura triestina e goriziana, secondo Alessandro Del Puppo, a offrire gli esempi migliori (Bolaffio, de Finetti), cui si può aggiungere il vero, sottaciuto maestro della pittura friulana del Novecento, Fred Pittino. Sono poi tutte da seguire le vicende degli artisti che, lungo l’area di confine sloveno, tentarono una difficile mediazione tra le spinte del modernismo e le resistenza della cultura nazionale (Ivan Čargo, Veno Pilon). In molti altri casi, gli artisti trovarono altrove più giusta collocazione e meriti (Aurelio Mistruzzi a Roma, Luigi Spazzapan a Torino, Mirko e Afro ancora a Roma, dove vive il periodo più stimolante della sua esperienza di artista anche Ado Furlan). Alcuni espatriati, da Zoran Music ad Harry Bertoia a Tina Modotti, ottennero risultati eccellenti, e fortuna conseguente; ma seguendo questa lettura non si devono dimenticare i talenti di quanti, dispersi in un lungo e talvolta doloroso processo di emigrazione intellettuale, sono stati in questa sede recuperati dall’oblio in cui erano caduti. Sono altresì identificabili nuclei abbastanza omogenei di artisti che lavorarono in contesti ben delimitati: non di scuole si tratta, quanto piuttosto di sodalizi, che nel caso dei pittori sanvitesi (Michieli, De Rocco, Vettori, Tramontin) trova un episodio d’indubbio interesse; come utile è seguire il percorso, di vita e d’arte, di donne pittrici come Alice Dreossi, Gemma Verzegnassi, Maria Ippoliti, Dora Bassi. A queste donne che hanno nobilitato il Friuli con la loro attività artistica non è fuori luogo accostare il nome di Maria Luisa Costantini, moglie dell’imprenditore Astaldi, che al comune di Udine lasciò un’importante raccolta di opere d’arte contemporanea. Tutta da leggere, inoltre, ai fini d’una sociologia della produzione artistica locale, è la vicenda di quanti, come Giacomo Ceconi di Montececon, Fabio Mauroner e Alessandro del Torso, beneficiati dalla condizione nobiliare o da uno stabile benessere borghese, si permisero da dilettanti di lusso, quali erano, un’attività al di fuori d’ogni percorso professionale. Con le figure dei fratelli Basaldella, di Marcello Mascherini e di Armando Pizzinato la produzione artistica di area friulana si proietta su un contesto di confronti europei, inserendosi in dinamiche e narrazioni che travalicano i confini locali.

L’architettura

Monumento alla Resistenza in piazza XXVI luglio a Udine, opera di Gino Valle e Federico Marconi (1967 1969); sullo sfondo, il Tempio Ossario, che raccoglie i resti dei caduti della prima guerra mondiale.

Nel corso dell’Ottocento anche l’architettura visse dei profondi mutamenti, con l’impiego di nuovi materiali – il vetro e l’acciaio – e tecniche costruttive, nonché assumendo un notevole rilievo sociale (occupandosi di spazi destinati ad un uso amministrativo, a divenire ospedali, carceri, scuole, cimiteri, ambienti commerciali o riservati al divertimento, come i teatri, e alle attività lavorative). Di conseguenza, il ruolo stesso dell’architetto si trasformò, divenendo via via una figura professionale specializzata nell’ideazione di spazi interni ed esterni, con competenze di carattere ingegneristico. I protagonisti dell’architettura nel XIX secolo in Friuli furono Ludovico Rota, Valentino Presani, Giovambattista Bassi e Andrea Scala. L’attività di questi artisti fu certamente assai ampia, anche se essi operarono in gran parte durante gli anni del governo austriaco (dal 1814 al 1866), il quale fu piuttosto parco nella costruzione di edifici pubblici, concentrando invece le risorse sulle infrastrutture viarie. Per quanto atteneva all’edilizia privata, l’amministrazione del Lombardo-Veneto istituì la Deputazione dell’Ornato (a Udine il regolamento entrò in vigore nel 1821), la quale aveva la funzione di esercitare un rigido controllo sull’edilizia privata, mantenendo un “decoro” generale basato su simmetria e disposizione armonica. Ludovico Rota fu soprattutto un “dilettante” dell’architettura, che non si dedicò mai integralmente alla professione, sebbene avesse alle spalle una discreta formazione tecnica, che spese soprattutto in favore della città natale di San Vito al Tagliamento (cimitero, piano urbano, santuario della madonna di Rosa, ecc.). L’udinese Valentino Presani, invece, fu un tipico architetto-ingegnere ottocentesco – scrupoloso e fedele funzionario del governo asburgico, che realizzò una personale interpretazione dello stile accademico, la quale ha indotto a definire la sua opera il frutto di un «Neoclassicismo utilitario». Di particolare rilievo, oltre ai progetti realizzati a Trieste e in Istria, quelli udinesi per il cimitero urbano (in seguito notevolmente modificato), per il palazzo degli Studi e la facciata di Santa Maria delle Grazie. Del pordenonese Giovambattista Bassi vanno ricordati in modo particolare i progetti riguardanti i teatri. Tuttavia, la personalità di maggiore rilievo in questo campo è quella di Andrea Scala, che certamente può essere considerato uno dei maggiori protagonisti dell’architettura italiana dell’Ottocento. Egli si occupò della nascente architettura industriale, progettando numerose filande e aziende agricole, oltre ad essere stato un pioniere dell’edilizia condominiale; ebbe importanti incarichi nella progettazione delle Esposizioni, e con il restauro del Teatro Sociale di Udine nel 1852 iniziò una serie di prestigiosi incarichi per questo tipo di edifici, il cui ruolo, anche sociale, diveniva sempre più importante nelle città ottocentesche. Scala fu chiamato a progettare molti teatri nell’area veneta, a Milano (il Manzoni), a Bastia in Corsica e il teatro Massimo di Catania, rivelandosi uno dei protagonisti dell’eclettismo internazionale, il cui stile impiegò soprattutto negli edifici di carattere religioso. Altro protagonista di quel tipo di architettura fu Domenico Rupolo. A Gorizia l’attività architettonica nel corso dell’Ottocento fu fortemente influenzata dalla peculiare situazione politica e sociale in cui il territorio isontino – da secoli appunto saldamente inserito nell’Impero asburgico – si trovava. Protagonisti dell’intensa stagione architettonica goriziana furono progettisti in gran parte formatisi presso il prestigioso Politecnico di Vienna, nel quale appresero nozioni tecnologiche d’avanguardia e assorbirono un gusto storicista, di carattere prettamente “neomedievale”, declinato secondo la versione tipica del mondo germanico. Tra questi Emilio Luzzatto, Giovanni Brisco, Antonio Tabai, Alessandro Pich e soprattutto Leopoldo de Claricini Dornpacher. Il Novecento friulano ha visto succedersi un cospicuo numero di architetti il cui livello si colloca ai vertici internazionali, a cominciare da quel Raimondo D’Aronco, uno dei massimi interpreti dello stile Liberty, che lavorò a Costantinopoli, Torino e a Udine, dove realizzò la sua opera più nota e travagliata, il palazzo del Municipio. Alle grandi opere di destinazione pubblica D’Aronco alternò numerose realizzazioni di edilizia abitativa, specializzandosi nella tipologia dei villini. Nella Gorizia di primo Novecento operò Max Fabiani, legato alle esperienze dalla Secessione viennese, lasciandovi edifici di grande importanza e valore. Ancora, nel primo dopoguerra si segnala la personalità di Provino Valle, cui si devono importanti edifici a Udine (il palazzo delle Assicurazioni, il Tempio Ossario, ecc.), con un’attività progettuale che giunse fino agli anni Sessanta. Nel contempo la stagione razionalista visse in terra friulana un momento di grande rilievo, attraverso autori di notevole spessore, come Cesare Scoccimarro (particolarmente attivo a Pordenone), Ottorino Aloisio (che dopo l’inizio friulano operò prevalentemente a Torino), Ermes Midena e Pietro Zanini. Essi, che rappresentano alcuni degli autori più innovativi nel panorama nazionale durante gli anni Trenta, lavorarono molto per commissioni pubbliche, in particolare per le Case del Balilla, disseminate su tutto il territorio regionale. Nel secondo dopoguerra le nuove tendenze dell’architettura, soprattutto quella “organica” proveniente dagli Stati Uniti e dalla Scandinavia, con Wright e Aalto trovarono in Friuli eccezionali interpreti in figure di portata internazionale come Marcello D’Olivo, autore sia di edifici sia di piani urbanistici dal carattere innovativo, il cui valore fu da subito riconosciuto dalla critica del tempo. D’Olivo consegnò al Friuli opere di grande rilievo, su cui spicca la celebre “spirale” per Lignano, ma operò anche in vari continenti con progetti e realizzazioni di altissimo valore. A quella stagione appartenne pure Angelo Masieri, architetto prematuramente scomparso, le cui poche opere testimoniano un talento limpidissimo. Altra voce friulana che brillò nel firmamento dell’architettura contemporanea fu quella di Gino Valle, figlio di Provino, cui si devono interventi di importanza riconosciuta, soprattutto destinati all’edilizia pubblica e monumentale, nella terra d’origine, ma anche nelle maggiori capitali europee (si pensi agli edifici della Défense a Parigi). Inoltre, Gino Valle si dedicò al Design industriale, per conto della Solari e della Zanussi, ottenendo risultati il cui livello fu sanzionato da prestigiosi premi ed esposizioni internazionali.

Musica sacra e profana

Suonatore, scultura in argento brunito di Dino Basaldella, 1953 (collezione privata).

In campo musicale l’Ottocento e il Novecento rappresentano per il Friuli un periodo di grande fervore dal piano compositivo a quello concertistico, dall’istruzione scolastica all’attività organizzativa. Protagonisti indiscussi dell’Ottocento sono Iacopo Tomadini e Giovan Battista Candotti, due compositori di musica sacra ed esponenti di primo piano del movimento ceciliano in Italia, cui contribuirono con l’opera e la riflessione critica. La loro azione fu rivolta ad affermare la priorità della scrittura “severa”, priva degli inutili virtuosismi belcantistici che allora affollavano le pagine del servizio liturgico. Di particolare rilievo la figura di Tomadini: la volontà di rimanere in Friuli, dove fu organista e maestro di cappella del duomo di Cividale, non gli impedì di entrare a contatto con i maggiori musicologi e compositori di musica sacra contemporanea, fra cui Franz Liszt. Il “Palestrina del XIX secolo”, come fu definito Tomadini, si oppose efficacemente all’abuso degli stilemi operistici che turbavano la bellezza del canto fermo e della polifonia rinascimentale, impegnandosi in una profonda opera di rinnovamento del repertorio liturgico, che ebbe i suoi epigoni nel secolo successivo con Antonio Giovanni Maria Foraboschi, Albino Perosa, Carlo Rieppi, Vittorio Toniutti e Giovanni Pigani. Lo sviluppo dell’altro filone, quello della musica profana, è da collegare alla nascita dei primi teatri pubblici, che ospitavano sui loro palcoscenici le opere più note del repertorio italiano. Tra il folto gruppo di musicisti, che nel corso del Novecento si cimentarono nella produzione cameristica, sinfonica e nel teatro d’opera, meritano di essere ricordati almeno Mario Montico, compositore e direttore dell’allora Civico Liceo Musicale Pareggiato “Jacopo Tomadini”, Vittorio Fael, direttore artistico per vent’anni della Società Amici della Musica di Udine e segretario per lungo tempo dell’Accademia udinese di scienze lettere e arti, Piero Pezzè, anch’egli instancabile didatta e attivissimo divulgatore e operatore culturale. I personaggi ricordati stanno a testimoniare una nuova figura di musicista, consapevole della propria funzione all’interno della società e pronto a mettersi in relazione con le altre voci della vita culturale del proprio tempo. Nella maggior parte dei casi, questi autori affiancarono l’attività compositiva a quella didattica, svolta prevalentemente nelle aule del Conservatorio “Tomadini” di Udine, e si impegnarono anche a promuovere la musica all’interno di associazioni e gruppi di diverso genere, che allora presero il via con sorprendente vivacità. Si tratta del periodo, definito da Pezzè come “gli anni d’oro” della vita musicale udinese, che si stratifica su più livelli: concertistico, didattico, compositivo, editoriale, dando spesso vita a commistioni di grande interesse. Non si contano nel corso del Novecento le formazioni strumentali, come le bande e i complessi mandolinistici (su tutti merita almeno un cenno il complesso “Tita Marzuttini”), nati all’insegna di un nobile dilettantismo, oppure le formazioni corali che fanno riferimento nella loro attività concertistica al canto di tradizione orale, proponendo singolari “rivisitazioni” della cultura musicale popolare friulana. La presenza di Ella Adaïewsky, etnomusicologa russa che trascorse alcune estati della propria vita a Tarcento, dove ebbe modo di ascoltare e apprezzare dalla bocca del popolo le villotte soffermandosi in particolare sulla peculiarità delle tradizione musicale resiana, si affianca all’operato di molti altri compositori, che prestarono attenzione alla ricchezza del folclore friulano elaborandolo in chiave colta nelle loro partiture. Cesare Augusto Seghizzi, Arturo Zardini e lo stesso Pezzè furono attenti cultori di questi materiali musicali e scrissero pagine destinate ad entrare nel repertorio concertistico di molti interpreti. Il Novecento conosce anche una significativa attività di studi e ricerche di carattere storico sulla produzione musicale friulana: a Gilberto Pressacco e Renato Della Torre va senza dubbio il merito di aver aperto una riflessione critica sulla musica friulana, liberandola da luoghi comuni e rileggendola nel contesto delle più recenti acquisizioni scientifiche.

Cesare Scalon*

* L’autore è grato ad amici e colleghi che lo hanno aiutato in vario modo nella stesura e nella revisione del testo; in particolare esprime il proprio debito di riconoscenza nei confronti di Giuseppe Bergamini, Roberto Calabretto, Liliana Cargnelutti, Roberto Cautero, Giovanni Frau, Maria Grazia Fuccaro, Vania Gransinigh, Gian Paolo Gri, Claudio Griggio, Alessandro Del Puppo, Francesco Micelli, Roberto Norbedo, Paolo Pastres, Paolo Pecorari, Rienzo Pellegrini, Egidio Screm, Mario Turello e Paolo Zampa.
Qui di seguito si danno alcuni riferimenti bibliografici essenziali, rinviando alle voci del Dizionario per quanto riguarda i singoli personaggi citati.
Thesaurus ecclesiae Aquileiensis, a cura di G. BIANCHI, Udine, Trombetti-Murero, 1847; F. DI MANZANO, Annali del Friuli ossia Raccolta delle cose storiche appartenenti a questa regione, I, Udine, Trombetti-Murero/Z. Rampinelli editore, 1858, V-VIII; Udine e sua provincia. Illustrazione di G. CICONI, seconda ed. rifusa e ampliata, Udine, Trombetti-Murero, 1862; F. DI MANZANO, Annali del Friuli cit., VII, Udine, G. B. Doretti e soci, 1879, 313-314; A. BATTISTELLA, I toscani in Friuli, Bologna, Nicola Zanichelli, 1898; P. S. LEICHT, Breve storia del Friuli, Udine, Libreria Carducci, 1923 (Saggi friulani, 2); P. P. PASOLINI, Stroligut di cà da l’aga, San Vito al Tagliamento, Primon, 1944; C. G. MOR, Uno sguardo alla storia della storiografia friulana, «Sot la nape», 24/3 (1972), 16-24; B. PROST, Le Frioul région d’affrontements, Genève, Editions Ophrys, 1973 (trad. it. di Franco Milosic riveduta dall’Autrice: Il Friuli regione di incontri e di scontri, Udine, Editrice Grillo, 1980 2 ); C. G. MOR, Due centenari, in Atti del convegno per il centenario della nascita di Pier Silverio Leicht e di Enrico del Torso (1-3 novembre 1975), Udine, Deputazione di storia patria per il Friuli, 1977, VII-XVI; G. PERUSINI, P. S. Leicht e la storiografia friulana, in Atti del convegno cit., 1-13; G. FRANCESCATO – F. SALIMBENI, Storia, lingua e società in Friuli, Udine, Casamassima, 1977 2 ; Atti del Convegno di studio su Pio Paschini nel centenario della nascita (1878-1978), a cura di G. FORNASIR, Udine, Deputazione di storia patria per il Friuli, 1978; C. G. MOR, Il pericolo di provincializzare la storia friulana: «Cuintri storie dal Friûl» di Giuseppe Marchetti e Francesco Placereani, «Ce fastu?», 44 (1978), 5-24; ID., Itinerario culturale di uno storico, in Francesco di Manzano. Storiografo e pittore (1801-1895). Catalogo a cura di G. BERGAMINI – G. B. PANZERA, Cormons, Comune di Cormons/Deputazione di Storia patria per il Friuli, 1983, 11-14; F. SALIMBENI, Francesco di Manzano e la storiografia del suo tempo, ibid., 15-31; T. MANIACCO, Storia del Friuli. Il lavoro dei campi, la tradizione gastronomica, le radici della cultura contadina, le rivolte, il dramma dell’emigrazione e la nascita dell’identità di una regione, Roma, Newton & Compton, 1985; S. TAVANO, Karl von Czoernig da Vienna a Gorizia (1850-1889), in Karl Czoernig, Gorizia, Istituto di storia sociale e religiosa, 1992 (Fonti e studi si storia sociale e religiosa, 8), 80-140; T. MANIACCO, L’ideologia friulana. Critica dell’immaginario collettivo, Udine, Kappa Vu, 1995; G. ZORDAN, Le costituzioni nella prima età veneziana. Note e rilievi circa gli esiti di una riforma, in Costituzioni della Patria del Friuli nel volgarizzamento di Pietro Capretto del 1484 e nell’edizione latina del 1565, Roma, Viella, 1998 (Corpus statutario delle Venezie, 14), 11-78; G. P. GRI, (S)confini, Montereale Valcellina, Circolo culturale Menocchio, 2000; S. TAVANO, Gorizia: Friuli e non Friuli. Appunti di storia culturale, in Cultura friulana, 45-80; I. SANTEUSANIO, L’idea di Friuli nelle lotte politico-nazionali nelGoriziano, ibid., 225-255; V. PERI, Note sulla formazione dell’identità culturale friulana, ibid., 265-303; L. CARGNELUTTI, Vincenzo Joppi e la storia del Friuli, in Vincenzo Joppi 1824-1900, a cura di F. TAMBURLINI – R. VECCHIET, Udine, Forum, 2004 (Libri e Biblioteche, 13), 37-55; K. VON LANCKOROŃSKI, La basilica di Aquileia, a cura di S. TAVANO, Gorizia, LEG, 2007 (trad. it. del volume pubblicato a Vienna nel 1906); B. LONDERO, Lo sviluppo dell’istruzione tra Ottoe Novecento: il caso Friuli, Udine, La Nuova Base, 2008; S. TAVANO, Le chiese nel patriarcato di Aquileia. La formazione di un’identità, in ID., Da Aquileia a Gorizia. Scritti scelti, Trieste, Deputazione di storia patria per la Venezia Giulia, 2008, 39-59; Arte in Friuli dall’Ottocento al Novecento, a cura di P. PASTRES, Udine, Società filologica friulana, 2010.