Il nuovo Liruti

Il medioevo – Introduzione

Le origini del Friuli

Il primo volume presenta le biografie dei personaggi che hanno fornito un apporto significativo sul piano culturale alla costruzione del Friuli dalle sue origini alla caduta dello stato patriarcale nel 1420. In età romana il Friuli non esisteva ancora: l’attuale territorio era, infatti, compreso in una provincia molto più vasta, la “Venetia et Histria” che faceva capo ad Aquileia, e “Forum Iulii” era semplicemente il nome della città fondata da Giulio Cesare nel primo secolo avanti Cristo. Nonostante le ripetute ondate di invasioni, abbattutesi a partire dagli inizi del V secolo (la più terribile fu quella degli Unni che assediarono e distrussero la città di Aquileia nel 451), la vecchia provincia romana conservava ancora, almeno formalmente, la sua unità, quando Giustiniano attorno alla metà del VI secolo tentò di ripristinare l’autorità imperiale su queste terre. Furono i Longobardi, penetrati in Friuli nel 568 attraverso il “pons Sontii” (il ponte sull’Isonzo), a spezzare definitivamente l’unità del territorio e a creare le condizioni politiche e amministrative per la nascita del Friuli. Così Paolo Diacono racconta l’ingresso dei Longobardi in Italia: «Di lì Alboino, dopo aver varcato senza nessun ostacolo i confini della Venezia, la prima delle province d’Italia, ed essere entrato nel territorio della città o piuttosto del castello di Cividale (‘civitatis vel potius castri Foroiuliani terminos’), cominciò a considerare a chi fosse meglio affidare la prima provincia che aveva conquistato. […] Perciò, riflettendo su chi dovesse stabilire come comandante in quel territorio, decise di porre a capo della città di Cividale e di tutta quella regione (‘Foroiulianae civitati et totae illius regioni’) Gisulfo» (H. L. II, 9). Nell’accezione più comune di Paolo Diacono “Forum Iulii” è ancora la città di Cividale, chiamata pure “Foroiuliana civitas”, “Foroiuliana urbs”, “Foroiulianum o Foroiuliense castrum”, “Foroiulianum oppidum”. Non vi è dubbio tuttavia che accanto a questo significato si fosse ormai fatta strada la percezione di una “Foroiuliana provincia”, che faceva capo a Cividale. A questo proposito, parlando del duca Fardulfo, Paolo ricorda che la chiamata degli Slavi fu “causa di grande rovina per il Friuli” («in eadem Foroiuliana provincia») (H. L. VI, 24). Nel corso dell’VIII secolo la parola “Friuli”, riferita non solo alla città, ma all’intero territorio del ducato longobardo sembra essersi affermata, come provano diverse testimonianze. Papa Gregorio II, scrivendo nel 723 al patriarca di Aquileia Sereno, si rivolge a lui con l’appellativo di vescovo friulano (“antistes Foroiuliensis”) ammonendolo a limitare la sua giurisdizione al territorio longobardo (“in finibus Langobardorum”). Re Carlo nel 792 concede al patriarca Paolino un privilegio di immunità “in partibus Foroiuliensibus” e alcuni decenni più tardi il conte Aione lascia per testamento al figlio primogenito Alboino alcuni beni siti “in territorio Foroiuliense”. Gli inizi della storia del Friuli sono quindi caratterizzati da un duplice aspetto nei confronti dell’età precedente: da un lato una rottura con il passato che si manifesta soprattutto sul piano politico-istituzionale, dall’altro una profonda continuità nei confronti della tradizione. La soluzione di continuità rispetto al passato è rappresentata dall’invasione del 568 e dalla conseguente costituzione del ducato longobardo di “Forum Iulii”. Agli avvenimenti drammatici, che accompagnarono l’invasione longobarda e dal punto di vista istituzionale posero fine al mondo antico nella nostra regione, si saldano dal punto di vista fattuale, se non intenzionale, le vicende altrettanto drammatiche che sconvolsero nel giro di alcuni decenni l’assetto originario della chiesa aquileiese. Il clero di Aquileia, dopo essere fuggito nell’isola di Grado sotto l’incalzare di un esercito di barbari ariani, alcuni decenni più tardi, agli inizi del VII secolo, rientrò in territorio longobardo per trovare riparo dai soprusi dell’imperatore bizantino spalleggiato dal papa. L’altro aspetto, complementare rispetto al primo, è quello della continuità. Una linfa profonda attraversa i secoli scorrendo ininterrotta dall’antichità al medioevo friulano: innanzitutto l’eredità culturale classica e cristiana, custodita e trasmessa dalla Chiesa e fatta propria nel tempo dagli stessi Longobardi; quindi una lingua, quella friulana, di carattere assolutamente romanzo, che testimonia la sopravvivenza e il peso avuto nella storia dalla popolazione locale rimasta sul territorio. Facendo seguito a una tradizione storiografica che va dal Liruti al Marchetti, questo volume, dedicato al medioevo, si propone di presentare anche un certo numero di personaggi della tarda antichità, i quali, pur non appartenendo al solo Friuli, si trovano alle sue radici e sono da sempre considerati parte integrante della sua storia. Alcuni di essi, come Erma o i vescovi Cromazio e Fortunaziano o Rufino di Aquileia, sono conosciuti attraverso la tradizione manoscritta delle loro opere; qualcun altro, come il vescovo Teodoro ad Aquileia o il vescovo Elia a Grado, ha legato per sempre il suo nome alle opere commissionate; altri, come i fondatori della chiesa aquileiese Ermacora e Fortunato, rimangono avvolti dalla leggenda che il medioevo friulano ha costruito per rafforzare la nobiltà delle proprie origini.

I Longobardi e la Chiesa di Aquileia

Particolare del corteo delle Vergini sulla parete occidentale del tempietto longobardo di Cividale.

Per quanto riguarda l’età altomedievale, le pagine che seguono presentano biografie di personaggi significativi sul piano culturale, siano essi i protagonisti oppure comparse minori, il cui nome è rimasto legato a un complesso architettonico, a un’istituzione (si pensi all’importanza culturale delle fondazioni monastiche), a un manufatto storico-artistico tornato alla luce. Duchi, conti, marchesi, patriarchi di Aquileia e vescovi di Concordia, abati o badesse benedettine dell’alto medioevo sono spesso i committenti di opere mirabili, divenute patrimonio culturale dell’umanità intera; sono promotori, pur nelle contraddizioni della loro epoca, di un’opera di evangelizzazione e di civilizzazione le cui istanze profonde si sono sedimentate a lungo andare nelle coscienze di generazioni di uomini. Con l’invasione longobarda la difesa della romanità, dal punto di vista culturale, organizzativo e sociale, restava affidata alle sole Chiese di Aquileia e di Concordia. Già nei decenni precedenti, specialmente al momento di passaggio dal dominio ostrogoto a quello romano-bizantino (552 circa) e da questo all’avvento del regno longobardo (568), i patriarchi avevano dovuto guidare una Chiesa in condizioni di estrema precarietà. Sul piano strettamente religioso la sede metropolitica aquileiese si era trovata a difendere la fede dei padri contro le decisioni filomonofisite dell’imperatore Giustiniano e del concilio ecumenico costantinopolitano secondo (553). Nel rivendicare le proprie tradizioni di fede riguardanti la persona del Cristo, fondate sui deliberati del concilio calcedonese del 451, il patriarca di Aquileia con tutta la sua provincia ecclesiastica si era messo in conflitto non solo con l’imperatore, ma anche con la sede romana. Invano Giustiniano aveva tentato con la forza di far recedere dalle loro posizioni la Chiesa di Aquileia e le altre Chiese occidentali e africane solidali con essa. Va sottolineato a tal proposito che il titolo di “patriarca” con riferimento al vescovo di Aquileia compare per la prima volta in una lettera di Pelagio I, che si rivolge con tono sprezzante al vescovo aquileiese Paolo (557), reo di aver abusato secondo lui di un titolo che competeva solo alle Chiese di origine apostolica («Venetiarum, ut ipsi putant, atque Histrie patriarcha»). Questa era la situazione della Chiesa aquileiese quando i Longobardi calarono in Italia. Lo scisma detto dei “Tre Capitoli” iniziato negli stessi anni (con il nome di “Tre Capitoli” si intende un montaggio di testi attribuiti a Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Ibas di Edessa: tre teologi che il concilio di Calcedonia nel 451 aveva assolto dalle accuse di eresia e che Giustiniano fece condannare), era destinato a incrociarsi inevitabilmente con le vicende politiche del territorio. Paolo vescovo di Aquileia, fuggendo a Grado nel 568, aveva portato con sé il tesoro della sua chiesa, i libri e le reliquie dei martiri. L’allontanarsi di una prospettiva immediata di rientro dei patriarchi nella vecchia sede aquileiese è all’origine del progetto architettonico e urbanistico, che coinvolse Grado negli ultimi decenni del secolo VI e che ancora si può ammirare. Al nome del vescovo Elia (571-586/87) in particolare sono associati lo sviluppo della città e il completamento della basilica cattedrale, da lui dedicata polemicamente a santa Eufemia, titolare della basilica di Calcedonia. Elia rinnovò e arricchì la basilica di S. Maria delle Grazie e il battistero di S. Giovanni con precisi e innovativi indirizzi estetici e formali. Nella nuova cattedrale appena costruita si celebrò nel 579 il sinodo della provincia aquileiese, che può essere considerato l’ultimo dell’antica provincia ecclesiastica, prima che nuove invasioni provenienti da est spazzassero via perfino il nome di alcune città della Pannonia o del Norico qui rappresentate (c’erano i rappresentanti di tredici diocesi della “Venetia et Histria”, due della Pannonia, tre del Norico mediterraneo e uno della Raetia II). I padri presenti al sinodo gradese del 579 erano ancora convinti di appartenere a un’unica provincia, nonostante l’insediamento longobardo sulla terraferma, e in ogni caso pensavano che la divisione fra dominio romano-bizantino e longobardo non avrebbe impedito per il futuro la comunione fra le chiese della stessa provincia ecclesiastica. Il corso degli avvenimenti ebbe però un esito diverso. Durante l’episcopato di Severo (586/87-606), succeduto a Elia, la contrapposizione dogmatica con la chiesa di Roma divenne occasione di un profondo scontro politico e le tendenze autonomistiche e le aspirazioni della Chiesa aquileiese finirono col sovrapporsi al conflitto fra Bizantini e Longobardi. Il tentativo dei Bizantini, appoggiati dal papa, di risolvere il problema con la forza fece precipitare la situazione. A nulla valsero neppure le esortazioni del nuovo pontefice Gregorio Magno (590). Scrivendo all’imperatore Maurizio per scongiurare nuove violenze contro la chiesa di Aquileia, il patriarca Severo adombrava le pesanti conseguenze politiche che avrebbero potuto derivare da azioni inconsulte da parte imperiale: se non si fosse posto fine alle angherie, gli Aquileiesi si sarebbero rivolti altrove per cercare appoggio, come già era successo nel Norico con i Franchi. In tal modo la “sancta res publica Romana” avrebbe perduto la sua autorità non solo a Grado, ma anche in tutti i centri episcopali del territorio longobardo che si trovavano nell’ambito della giurisdizione metropolitica aquileiese. L’imperatore Maurizio, per il momento, non se la sentì di far nuovamente ricorso all’azione militare. I Bizantini tuttavia giocarono un’altra carta imponendo sulla cattedra di Aquileia, alla morte di Severo (606/607), un loro uomo di nome Candidiano. Il fatto non passò senza conseguenze. Gli elettori aquileiesi contrari al sopruso rientrarono ad Aquileia in territorio longobardo e in contrapposizione a Candidiano vi elessero quale patriarca l’abate Giovanni. La complicata vicenda dello scisma tricapitolino, all’apparenza così poco comprensibile per chi non abbia familiarità con le dispute teologiche, ebbe delle conseguenze notevoli sia sul piano ecclesiastico, sia su quello politico-istituzionale e culturale. Se fino a quel momento la Chiesa aveva salvaguardato l’unità dell’antica provincia romana, l’elezione di un patriarca aquileiese in contrapposizione al patriarca “bizantino” di Grado ebbe come inevitabili conseguenze l’adeguamento delle istituzioni ecclesiastiche alla divisione territoriale fra Bizantini e Longobardi e il rafforzamento dell’autonomia del ducato friulano. Se le parole hanno un significato, il soprannome di “Foroiulienses” o “Foroiuliani” dato più tardi ai vescovi aquileiesi dà conto nel modo più pregnante di quanto era successo. La Chiesa di Aquileia, pur non ponendosi esplicitamente questo obiettivo, di fatto saldava i suoi interessi con quelli del ducato friulano e creava le premesse per gli sviluppi dei secoli successivi.

Cividale tra la fine del ducato longobardo e la dominazione franca

Una pagina dell’Evangeliario Forogiuliese con note liturgiche e nomi di pellegrini aggiunti (Cividale, Museo archeologico nazionale, cod. CXXXVIII, f. 98v).

L’incontro della Chiesa aquileiese con il mondo longobardo produsse i suoi frutti migliori nel corso del secolo VIII, dopo che il patriarca Callisto con l’appoggio di re Liutprando e cogliendo di sorpresa il duca Pemmone, trasferì la residenza dal castello di Cormons a Cividale, divenuta la città dell’Austria, al posto di Aquileia ridotta a un cumulo di rovine. Dal punto di vista culturale la ricomposizione del conflitto fra Pemmone e Callisto inaugurò a Cividale la convivenza di duchi e patriarchi e diede inizio a un breve, ma intenso periodo di splendore della città. Il nome di Callisto, che a Cividale costruì tra l’altro il nuovo palazzo dei patriarchi, è inciso nel ciborio innalzato al centro del battistero che sorgeva davanti all’antica basilica, già cattedrale, dedicata alla Madre di Dio. Il manufatto mostra di voler introdurre nell’orizzonte artistico cividalese elementi formali e culturali ripresi con precisione dal repertorio paleocristiano, tanto dal punto di vista architettonico quanto nei capitelli di tipo teodosiano e nelle soluzioni adottate per rappresentare gli animali allegorici. Un pluteo inserito nello zoccolo dello stesso ciborio con il nome di Sigualdo tramanda anche il ricordo del successore di Callisto. Dal duca Ratchis, che proseguì l’opera del padre Pemmone nello sviluppo della città, fu commissionato l’altare, considerato uno dei più importanti documenti dell’arte longobarda, che porta il suo nome. La fine del regno longobardo e il passaggio alla dominazione franca dopo la vittoria di re Carlo a Pavia nel 774, pur con il seguito delle vendette e i tentativi di ribellione, dal punto di vista culturale possono essere interpretati nel segno della continuità. Il patrimonio di pensiero e di cultura, che le scuole del regno avevano ereditato dall’antichità classica e cristiana, confluisce assieme alle menti più lucide del tempo nel grande progetto di riforma che sta prendendo corpo presso la corte del re franco. Per quanto riguarda il periodo che va dalla fine del regno longobardo agli inizi della dominazione franca, il ruolo assunto dalla città di Cividale nel corso del secolo VIII è attestato dalla presenza di due fra le personalità più significative dell’Occidente latino, collegate entrambe al progetto di riforma scolastica promosso da Carlo Magno: Paolo Diacono e Paolino di Aquileia, di origine longobarda il primo, di famiglia romana il secondo. Paolo di Warnefrit detto Paolo Diacono era nato a Cividale fra il 720 e il 730, in una famiglia longobarda alla quale si sentiva unito «da vincoli che legano a ritroso, oltre il corto rapporto di sangue, a tutta la storia del suo popolo». Eco dei racconti ascoltati durante la sua infanzia in Friuli, “centro dell’epica germanica”, si ritrova nella prima parte della sua Historia Langobardorum. Nel IV libro in particolare Paolo racconta come il suo trisavolo Leupichis fosse giunto in Italia al tempo della prima invasione longobarda e come uno dei suoi figli, fatto prigioniero dagli Avari, fosse riuscito a liberarsi e a fare ritorno in patria, dove avrebbe generato Arechi, padre a sua volta di Warnefrit. La prima formazione di Paolo si era svolta nelle scuole cividalesi e quindi presso la corte di Pavia, dove, secondo le tradizioni germaniche, venivano istruiti i giovani appartenenti alle famiglie nobili e ragguardevoli del regno. Il corso degli studi di Paolo appare improntato alla cultura della tarda antichità, ossia ad «una cultura a direzione cristiana anche se su binari della retorica e della grammatica classiche», basata su testi sia patristici sia letterari, cui non erano estranee le conoscenze giuridiche impartite ai futuri funzionari amministrativi del regno. La dichiarazione dello stesso Paolo di aver avuto anche un’infarinatura di greco fin da fanciullo suffraga la tesi che a Cividale in questo periodo il greco fosse conosciuto ed insegnato. Certamente ottima fu la padronanza del latino da parte di Paolo, come si evince dalle sue opere. L’Historia Romana, prima opera storiografica di Paolo, divenne il manuale di storia romana più letto nel medioevo. La sua Expositio artis Donati è un manuale di grammatica ad uso dei principianti; l’Epitome del De verborum significatu di Pompeo Festo documenta l’adesione di Paolo, divenuto nel frattempo monaco di Montecassino e successivamente ospite di Carlo Magno ad Aquisgrana, alla riforma scolastica e al programma di rinnovamento degli studi e dell’insegnamento promossi dal re franco. Nell’Historia Langobardorum il protagonista assoluto delle vicende raccontate è il popolo longobardo dalle sue mitiche origini scandinave fino alla morte di Liutprando (744), passando per le eroiche gesta guerresche dei primi re, la conquista dell’Italia, il governo dei duchi, le guerre coi Franchi e con gli Avari, i rapporti col papato, alcuni cenni alla contemporanea storia bizantina, in un quadro che progressivamente si arricchisce di episodi, aneddoti e curiosità. Secondo gli ultimi orientamenti della critica la Storia dei Longobardi sarebbe stata concepita da Paolo durante o subito dopo il suo soggiorno in Francia con lo scopo di un’integrazione ideologica del suo popolo nel contesto carolingio. Consapevole della superiorità culturale, politica e anche militare dei Franchi, Paolo avrebbe voluto narrare la storia dei Longobardi e del loro passaggio dalla barbarie alla civiltà per far conoscere e accettare ai conquistatori il valore della cultura e dell’esperienza storica della sua gente. L’orientamento attuale degli studi mette in luce il ruolo di estrema importanza svolto dalle scuole del regno longobardo nella trasmissione del patrimonio culturale ricevuto dalla tradizione classica e cristiana. Alle radici culturali dell’Europa, che nasce dall’azione di Carlo Magno rivolta alla creazione di un sacro romano impero d’Occidente, risale anche la figura di Paolino di Aquileia. Coetaneo di Paolo Diacono (la sua nascita è collocata attorno al 730-740), ma non di origine longobarda, potrebbe aver ricevuto anche lui la sua prima formazione nelle scuole cividalesi. La sua successiva produzione letteraria, canonistica e teologica farebbe pensare, come per Paolo Diacono, a un completamento degli studi a Pavia, in quella che doveva essere la principale scuola del regno. Menzionato una prima volta in un diploma carolingio del 776 come «vir valde venerabilis» e «artis grammatice magister», fu a lungo in terra franca, dove insegnò ed entrò a far parte di quel circolo di intellettuali e letterati di corte chiamato a indirizzare la politica culturale ed educativa del regno. Attraverso la sua azione – parallela a quella di altri intellettuali italiani, come il grammatico Pietro da Pisa, Fardolfo poi abate di Saint-Denis e Paolo Diacono – l’eredità delle scuole italiane dell’ultima età longobarda venne raccolta in un nuovo progetto di più ampio respiro e contribuì a formare quella tradizione culturale europea che sarebbe durata per secoli. Alla morte del patriarca di Aquileia Sigualdo, Paolino fu designato da Carlo a succedergli, probabilmente nel 787. L’area aquileiese, posta all’estremo confine del regno franco verso il territorio degli Slavi e degli Avari, non ancora cristianizzati, stava diventando sempre più importante dal punto di vista strategico. Sul piano dell’amministrazione civile, Carlo aveva nominato in Friuli un margravio franco in luogo dell’antico duca longobardo, per evitare il ripetersi di rivolte nazionalistiche come quella dell’ultimo duca longobardo Rotgaudo; sul piano ecclesiastico, la nomina di Paolino rispondeva ugualmente all’esigenza di assicurare alla monarchia l’alleanza del patriarcato. Nominando un patriarca fidato e consapevole delle linee di politica culturale e religiosa carolingie, la corte si procurava inoltre un appoggio decisivo nella imminente campagna contro gli Avari e gli Slavi. Paolino fu uno dei protagonisti della vita religiosa e culturale del regno carolingio e si guadagnò fama di teologo autorevole e di saggio pastore, come si può arguire dalle sue opere e dagli atti sinodali cui prese parte. Compose in prosa e in versi. Il suo Liber exhortationis, un trattato sulle virtù e i doveri dei laici, ebbe una grandissima fortuna nel medioevo; il trattato teologico Contra Felicem suscitò i commenti entusiastici di Alcuino. La sua produzione poetica, in esametri o in versi ritmici, comprende anche il De destructione Aquileiae, celebre lamento abbecedario sulla rovina della città ai tempi delle invasioni unne. Diversi inni da lui composti (celebre fra tutti Ubi caritas est vera) entrarono nelle celebrazioni liturgiche della chiesa universale. Sul piano strettamente liturgico egli si impegnò a favore dell’unificazione liturgica, voluta da Carlo in sintonia con il suo generale progetto di riforma. Pur non negando che l’assetto culturale della rinascita carolingia si realizzi «nelle sue fasi più creative attraverso l’opera di un piccolo manipolo di chierici eminentissimi e che pertanto le attività letterarie di tali protagonisti» appaiano «come dei grandi monumenti isolati», le figure di Paolo Diacono e di Paolino di Aquileia dimostrano in modo eloquente l’inserimento del ducato friulano (e in particolare della città di Cividale) nel processo generale di rinascita messo in moto negli ultimi decenni del secolo VIII e proseguito agli inizi del secolo successivo. Accanto a Paolo Diacono e Paolino di Aquileia, questo volume presenta numerosi personaggi della tarda età longobarda o della prima età carolingia, alcuni dei quali ebbero un ruolo politico-culturale significativo dentro e fuori i confini del Friuli. Longobardi furono Anselmo, duca del Friuli, divenuto monaco e fondatore dell’abbazia di Nonantola; Piltrude, che con i figli Erfone, Marco e Anto lasciò ricordo di sé nelle fondazioni benedettine di Sesto al Reghena, Salt e Santa Maria in Valle di Cividale. Alla prima età carolingia risalgono i nomi di nobili franchi quali Erico, Cadalo, Eberardo messi a capo della marca del Friuli; Gottescalco il Sassone, Massenzio patriarca di Aquileia, Venanzio Fortunato. Personaggio di grande rilievo nello scacchiere orientale dell’impero, Erico fu protagonista di numerose campagne militari che lo portarono dall’Europa centro-orientale, fra la Drava e il Danubio, e dalla Dalmazia, fino alla Scizia e alla Tracia e ancora ai porti del Mar Caspio. Combatté in Baviera e in Pannonia soprattutto contro gli Avari. La sua morte avvenuta nel 799 in seguito a un agguato, tesogli dai Croati alle porte di Fiume, fu celebrata da Paolino con un compianto per la morte dell’amico, con cui aveva condiviso gli ideali politici e culturali di Carlo. Anche il nome di Cadalo, successore di Erico, è associato alle spedizioni militari per difendere la Carniola e la Carantania, nonché alla definizione dei confini tra slavi e latini in Dalmazia decisa con i legati d’Oriente nell’817. Alcuni componimenti poetici di Sedulio Scoto esaltarono alcuni anni più tardi le imprese di Eberardo, successore di Erico alla guida della marca friulana. L’azione militare di Eberardo, duca-marchese del Friuli, fu anch’essa accompagnata da un’intensa azione missionaria della Chiesa di Aquileia in direzione dell’area danubiana e balcanica, che trova significativo riscontro nei nomi dei pellegrini conservati nell’Evangeliario Forogiuliese (Cividale, cod. CXXXVIII). I nomi registrati in questo libro sono la testimonianza più straordinaria e significativa della missione avviata da Paolino e proseguita dai successori nei confronti delle popolazioni slave a est del patriarcato. Scritto agli inizi del VI secolo, il codice attorno alla metà del IX era in uso nella chiesa dei santi Canziani nei pressi di Aquileia. I margini dell’Evangeliario fra la metà del IX e gli inizi del X secolo furono progressivamente riempiti da circa 1.500 pellegrini venuti a venerare le reliquie dei martiri: accanto al nome dell’imperatore Ludovico il Pio compaiono i nomi dei principi croati, della Grande Moravia e fin della lontana Bulgaria, che nella prima età carolingia avevano preso contatto con la Chiesa di Aquileia. Non si tratta solo di un’espressione di profonda religiosità, ma di un fatto culturale di rilevanza straordinaria, che vede la Chiesa di Aquileia impegnata in prima linea nella evangelizzazione delle popolazioni slave meridionali fra il Danubio e la penisola balcanica. I protagonisti di questo periodo, a cui dà spazio questo volume, possono essere compresi solo nel contesto più ampio della storia e della cultura europee, caratterizzato da un rapporto fra nobiltà franca e Chiesa, in cui convergono interessi politici, strategie militari, scelte religiose. Fra i nomi ricordati, quello di Eberardo emerge non solo sotto il profilo politico, ma anche culturale, specie se paragonato agli altri esponenti dell’aristocrazia laica del suo tempo. Oltre a Sedulio, Eberardo ebbe modo di frequentare Incmaro di Reims e Rabano Mauro; diede asilo al sassone Gottescalco perseguitato per la sua teoria della predestinazione; accolse Anastasio Bibliotecario colpito dalla scomunica. Ancor più dei rapporti personali è la sua biblioteca, conosciuta attraverso l’inventario, a documentare lo spessore culturale del personaggio. Tale fonte preziosissima consente di valutare appieno i suoi interessi culturali, che vanno dalla teologia alla medicina, dalla storia al diritto, dalla geografia ai trattati militari, e di definire per questa via le relazioni e gli scambi culturali fra l’Italia settentrionale e la Baviera e, più in generale, la corte carolingia. Quale sia stato l’apporto diretto alla cultura friulana degli esponenti della nobiltà franca messi a capo del Friuli, da Erico a Eberardo e da questi ai figli Unroch e Berengario, è difficile dire. La loro presenza è connessa soprattutto alla funzione strategica che il Friuli ebbe come marca di confine e base di partenza di campagne militari verso est. Non sono documentabili fondazioni o monumenti paragonabili a quanto rimane dell’ultima età longobarda. Nessuno dei personaggi alternatisi alla guida del ducato o della marca friulana fra gli inizi del IX e il X secolo sembra aver avuto un radicamento forte nel territorio, a differenza dei patriarchi aquileiesi e dei vescovi di Concordia o, più semplicemente, degli ultimi duchi longobardi. È significativo a tale proposito che il nome di Eberardo e quello della moglie siano rimasti legati a una fondazione monastica francese, Cysoing non lontano da Tournai, piuttosto che a un monastero del Friuli.

La formazione del principato ecclesiastico

San Pietro consegna il pastorale a sant’Ermagora, particolare della coperta dell’Evangeliario di san Marco (Venezia, Tesoro della basilica di S. Marco).

Alla mancata realizzazione di una stabile potenza dinastica in ambito regionale, corrisponde il progressivo affermarsi della Chiesa di Aquileia, che con il patriarca Paolino aveva già posto le premesse di una nuova centralità aquileiese. Se Paolino fu il destinatario da parte regia di ampie concessioni patrimoniali e immunitarie di cui beneficiò la sua Chiesa, i successori Orso e soprattutto Massenzio portarono a compimento una politica di ripristino o restaurazione della sede episcopale di Aquileia. L’aggiornamento architettonico e funzionale della basilica di Aquileia procede di pari passo con le rivendicazioni dei patriarchi, fondate su una tradizione delle origini apostoliche della Chiesa aquileiese rielaborata alla fine del secolo VIII: una singolare coincidenza di fonti scritte, da Paolo Diacono a Paolino di Aquileia e ai documenti carolingi, racconta la primitiva predicazione in città dell’evangelista Marco e la successiva consacrazione del vescovo Ermacora ad opera dell’apostolo Pietro. Su questi fondamenti il concilio provinciale svoltosi a Mantova nell’827, sotto la presidenza di Massenzio, riaffermava l’autorità metropolitica dell’antica sede aquileiese e la sua supremazia nei confronti della “pieve” di Grado. La tradizione delle origini marciane della chiesa di Aquileia, documentata negli affreschi della cripta e dell’abside della basilica aquileiese, acquistò nel corso del medioevo una forte valenza simbolica non solo sul piano religioso, ma anche su quello politico e culturale. Nel corso del IX e X secolo nessuna famiglia della nobiltà franca o germanica riuscì a radicarsi stabilmente in Friuli: il potere ecclesiastico e secolare dei patriarchi si accrebbe a partire dalla fine del ducato longobardo con l’accumularsi delle dotazioni patrimoniali (soprattutto da parte dei sovrani) e delle immunità. Berengario I, nel tentativo di rafforzare le basi del potere regio che andava disgregandosi, contribuì in modo significativo a potenziare le prerogative pubbliche della chiesa di Aquileia. Fu soprattutto l’avvento della dinastia Sassone a dare nuovo impulso al ruolo politico e militare dei patriarchi. Nel complesso sistema di relazioni fra potere regio e chiesa, i vescovi tedeschi garantivano all’impero un prezioso sostegno morale, politico e militare. A loro volta i re rafforzavano il potere temporale dei vescovi con il conferimento di diritti comitali di giurisdizione, di privilegi di monetazione, di proventi pubblici. Per questo essi venivano scelti nell’ambito delle famiglie fedeli al re, come dimostra anche la biografia dei patriarchi aquileiesi tra la fine del X e la metà del XIII secolo; in alcuni casi essi provenivano dalla stessa corte imperiale dove si erano trovati a svolgere il ruolo di cancellieri. Ottone I e Ottone II favorirono Rodoaldo (963-983); lo stesso fecero Ottone III ed Enrico II con Giovanni IV. A Giovanni IV (984-1019) si può far risalire l’arrivo in Friuli di uno fra i più splendidi esemplari della scuola di Reichenau, un sacramentario ora conservato nella Bodleian Library di Oxford (Canoniciano Lit. 319 [19408]), che potrebbe gettare nuova luce su un patriarcato ancora poco noto, ma la cui importanza anche dal punto di vista culturale «deve essere stata notevole». Una delle figure più rilevanti e controverse di questo periodo è quella di Poppone, patriarca di Aquileia dal 1019 al 1042. Appartenente agli Ottocari, famiglia dell’alta aristocrazia bavarese che aveva fondato il monastero di Ossiach, Poppone ebbe personale consuetudine con Enrico II di Sassonia (1017-1056), con Corrado II il Salico della casa di Franconia (990 ca.-1039) e col figlio Enrico III (1017-1056), dai quali fu largamente favorito. L’energia con cui tutelò gli interessi imperiali in Italia, non meno di quelli della sua Chiesa, fu ricompensata da parte dell’imperatore con un privilegio di immunità così esteso e generale per la Chiesa di Aquileia che nessuno dei suoi predecessori aveva potuto vantare e con il diritto di coniare moneta. La figura di questo patriarca, che si staglia a grande rilievo nella storia del Friuli per la forza con la quale rivendicò i diritti aquileiesi, dal punto di vista propriamente culturale è da collegare al grande capitolo dell’arte ottoniana, testimoniata dagli affreschi della basilica aquileiese da lui ricostruita e dai libri lasciati al capitolo della cattedrale che aveva rifondato. Il Sacramentario Fuldense della Capitolare di Udine (Udine, Archivio capitolare, cod. 1) è una delle più celebri testimonianze uscite dallo “scriptorium” tedesco agli albori dell’XI secolo. Di elevata fattura è anche l’evangelistario della stessa Capitolare che conserva il giuramento di fedeltà prestato al patriarca da alcuni vescovi suffraganei in occasione della loro consacrazione (Udine, Archivio capitolare, cod. 2).

Sigeardo e la fondazione dello stato patriarcale

Con Sigeardo giunse a compimento il processo di costituzione del principato ecclesiastico aquileiese, avviato fin dai tempi del patriarca Paolino. Sigeardo proveniva anch’egli da una famiglia dell’alta nobiltà bavarese, i Sighardinger, e prima di diventare patriarca di Aquileia (1068) aveva svolto la funzione di cancelliere imperiale. L’imperatore Enrico IV, agli inizi di aprile del 1077, poco dopo la resa di fronte a Gregorio VII avvenuta a Canossa, volle ricompensare il patriarca per il “leale servizio” che gli aveva dimostrato nel momento più drammatico della lotta per le investiture. A Sigeardo e alla Chiesa aquileiese l’imperatore donò la contea del Friuli (“comitatus Foriiulii”) con tutti i diritti e privilegi connessi e un’autorità di tipo giudiziario, militare e fiscale anche sugli altri proprietari terrieri del Friuli. Questa donazione costituisce l’atto fondativo di un principato ecclesiastico, che nel corso di quasi 350 anni di vita avrebbe maturato una sua particolare autonomia. La sovrapposizione dei due piani, quello secolare e quello ecclesiastico, si fa talmente stretta che nelle fonti contemporanee le stesse differenze semantiche fra i termini di Friuli (“terra Foriiulii”) e Chiesa di Aquileia (“Ecclesia Aquilegensis”) tendono progressivamente a scomparire e i due termini a identificarsi. L’attività bellica, come quella politico-diplomatica e la difesa armata dello stato, le alleanze, le guerre e le paci, secondo quelli che apparivano nelle diverse circostanze gli interessi del principato ecclesiastico, facevano parte della normalità dei suoi obblighi, insieme ecclesiastici e civili. La tutela del potere temporale del presule era contemporaneamente quella della Chiesa. La storia della cultura friulana nel periodo che va dall’XI secolo alla caduta dello stato patriarcale (1420) è profondamente condizionata dalla presenza dei patriarchi e dalla mobilità delle persone che fanno capo alla loro corte. Le espressioni artistiche e letterarie del principato ecclesiastico si intrecciano con le vicende dei patriarchi e della Chiesa di Aquileia. La suddivisione temporale di questo lungo periodo di storia friulana, proposta da alcuni storici, fra età dei patriarchi ghibellini (dall’XI alla metà del XIII secolo) e dei patriarchi guelfi (dalla metà del XIII secolo alla caduta dello stato patriarcale nel 1420), per quanto schematica e riduttiva, ha una sua validità anche dal punto di vista culturale. Partendo dal presupposto che una ricostruzione adeguata della storia culturale della regione non possa prescindere da questo aspetti, il presente volume dà ampio spazio alla biografia dei patriarchi e dei loro principali collaboratori. Solo per fare degli esempi, gli affreschi absidali della basilica aquileiese, il Welsche Gast di Tommasino da Cerclaria o la presenza a Cividale del Salterio di Egberto e del Salterio di santa Elisabetta non si potrebbero spiegare adeguatamente prescindendo dalle biografie di Poppone, Folchero di Erla, Bertoldo di Andechs; né si potrebbe rendere ragione dello “Studium” avviato a Cividale nel corso del Trecento senza fare riferimento a Ottobono dei Razzi, Pagano della Torre, Bertrando di Saint-Geniès o Nicolò di Lussemburgo.

Poesia e letteratura del patriarcato

Foglio dal codice Der Welsche Gast di Tommasino da Cerclaria (Gotha, Forschungs- und Landesbibliothek, ms Membr. I. 120, f. 7v).

Dal punto di vista strettamente letterario le opere di Hartmann von der Aue, affermatosi soprattutto nel campo della poesia epica cortese, conservano memoria del suo soggiorno in Friuli, ospite dei patriarchi Goffredo e Pellegrino II sul finire del XII secolo. Le testimonianze più significative in questo campo sono legate in particolare al nome di Folchero da Erla, eletto patriarca di Aquileia nel giugno del 1204. Egli fu un protettore della poesia e della letteratura come pochi altri principi del suo tempo. Nella corte di Passau, dove Folchero era stato vescovo attorno al 1200, nacque il Nibelungenlied. Il registro delle spese di viaggio di Folchero, conservato nell’archivio del capitolo di Cividale, costituisce l’unica testimonianza extraletteraria dell’attività di Walther von der Vogelweide, il più famoso poeta tedesco del medioevo. La corte cividalese di Folchero, divenuto patriarca di Aquileia, è almeno altrettanto ospitale di quella di Passau. Oltre ai rapporti con un cantore itinerante come Walther, egli ebbe al suo servizio quale ministeriale il minnesänger Alberto di Jahrdorf. Sempre presso la sua corte, attorno al 1215-1216, Tommasino da Cerclaria (Cerclaria era un piccolo borgo nei pressi di Strassoldo) compose il suo poema. Di natura più temporanea, ma non per questo meno significativi, furono i rapporti di Folchero con Boncompagno da Signa, che nella Rhetorica nova scritta nel 1215 elogiava entusiasticamente il patriarca come benefattore. Fu protettore di letterati e di poeti, ma anche di giuristi, come dimostra la dedica dell’Ordo iudiciarius fattagli da Eilberto da Brema. Tommasino da Cerclaria è considerato «il primo grande scrittore didattico europeo, che abbraccia la vita laica nella sua totalità». Italiano di nascita e di lingua, anche se certamente esperto della lingua e letteratura provenzale, scrisse in antico tedesco il Welsche Gast, un’opera di circa 14.800 versi in rima. La vasta cultura di Tommasino, quale si ricava dall’analisi del testo, riflette probabilmente l’insegnamento appreso nelle scuole cividalesi durante la giovinezza del poeta. Nella sua opera sono facilmente individuabili gli autori “moderni” da cui dipende, come Guglielmo di Conches, Alano da Lilla e Giovanni di Salisbury, ed è altrettanto riconoscibile l’influsso di Seneca, Cicerone e degli altri autori di scuola del XII secolo. Intento dell’opera è quello di fornire un insegnamento pratico di comportamento per i laici, una guida morale ai suoi lettori. Come scrive Paola Schulze-Belli, «Tommasino è fondamentalmente un conservatore: come Walther von der Vogelweide, crede nella validità degli ordinamenti costituiti che hanno un solo punto di gravità costituito dalle due classi dirigenti: nobiltà e clero. È vero che delle classi sociali fa parte anche il commerciante e il contadino, ma Tommasino non considera la città e la sua borghesia come fattori essenziali dell’ordinamento sociale e politico». Il motivo dello straordinario successo della sua opera va forse cercato nel fatto di aver illustrato vizi e virtù con esempi e immagini che i lettori ben conoscevano. La diffusione della letteratura tedesca in Friuli nel corso del XIII secolo trova delle conferme sia nella presenza del Welsche Gast fra i libri dall’abbazia benedettina di Moggio, sia nel ricordo dei suoi soggiorni in terra friulana lasciato da Ulrico da Lichtenstein. Nel Frauendienst, un poema di circa 19.000 versi terminato nel 1255, Ulrico parla del servizio amoroso cortese (“Minnedienst”) in onore della duchessa di Merania, dell’ospitalità ricevuta dal conte di Gorizia e delle giostre sostenute durante il suo viaggio con molti nobili friulani a Sacile, Sant’Odorico, Gemona e Chiusaforte. Anche il lungo episcopato di Bertoldo di Andechs, succeduto a Folchero nel 1218, rappresenta per il patriarcato un momento di grande rilevanza dal punto di vista artistico. Bertoldo prese l’iniziativa di costruire a Udine la chiesa di S. Odorico che, secondo la tradizione, sarebbe stata eretta tra il 1225 e il 1236, e al suo pontificato si deve ascrivere la decorazione a fresco della pieve udinese di S. Maria in Castello. L’iconografia degli affreschi della pieve mostra di conoscere le miniature del salterio di santa Elisabetta, che il patriarca aveva donato al duomo cividalese. Grazie alle scoperte avvenute dopo il sisma del 1976 ci si rende conto ancora di più della vivace circolazione culturale che sembra aver caratterizzato il patriarcato di Bertoldo: accanto allo stimolo costituito da presenze pittoriche eccellenti come il già citato salterio, precoce esempio di “Zackenstil” giunto in ambito patriarcale, sembra riflettersi nella pittura di questi decenni l’ampio respiro della politica perseguita dal patriarca, amico di Federico II, nei suoi rapporti con Venezia e l’entroterra, dalla marca trevigiana a Verona ai paesi confinanti di cultura tedesca. L’apertura culturale del Friuli all’area veneto-padana, riscontrabile nelle testimonianze artistiche prodotte durante il patriarcato di Bertoldo, trova significativa conferma in una fonte documentaria dell’abbazia benedettina di S. Gallo di Moggio. Dopo il devastante incendio scoppiato in abbazia nel 1228, il nuovo abate Giacomo dovette affrontare il compito della ricostruzione: un inventario compilato dopo la sua morte († 1242) descrive l’imponente mole di lavori da lui promossa, che va dal rifacimento degli edifici monastici e dalla decorazione delle cappelle all’acquisto di suppellettili, sculture, dipinti, libri. Di particolare interesse ai fini di questo discorso è il fatto che Giacomo si rivolse in particolare al mercato veneziano per fornire la sua chiesa degli oggetti necessari. Questo volume, oltre a Giacomo, ricorda altri due monaci benedettini entrambi del XIV secolo: Gilberto, abate di Moggio, e Ossalco monaco di Rosazzo. Gilberto fu uno dei principali collaboratori del patriarca Bertrando, assieme a Guido Guizzi vescovo di Concordia. Ossalco è autore dell’unica Cronaca monastica medievale di cui sia rimasta notizia in Friuli. La scelta di proporre queste figure di monaci è indubbiamente condizionata dalla disponibilità delle fonti, oltre che dall’interesse dei personaggi. In realtà il periodo più significativo della presenza benedettina corrisponde al periodo dei patriarchi “ghibellini”, fra l’XI e la metà del XIII secolo, prima dell’affermarsi degli ordini mendicanti. La rete delle abbazie friulane di questo periodo, che gioca un ruolo rilevante non solo per quanto riguarda il controllo del territorio, ma anche in campo propriamente religioso e culturale, evidenzia fino ai primi decenni del Duecento una stretta connessione con i monasteri dell’area tedesca e slovena al di là delle Alpi, piuttosto che con quelli di area italiana. Lo dimostrano ampiamente le scritture e le notazioni musicali dei manoscritti superstiti, conservati nei fondi locali o dispersi nelle biblioteche di mezza Europa. Non si potrebbe chiudere il breve accenno all’ordine benedettino senza segnalare il ruolo che monasteri femminili come quello di S. Maria di Aquileia ebbero nella produzione del libro in Friuli, come attestano alcune fonti documentarie degli inizi del Duecento. La nomina di Gregorio di Montelongo a patriarca di Aquileia, fatta da Innocenzo IV nel 1251, rappresenta per il Friuli una svolta decisiva sul piano politico e ancor più su quello culturale. Proveniente da una famiglia della campagna romana e imparentato con i papi Innocenzo III e Gregorio IX, il Montelongo aveva iniziato la carriera ecclesiastica presso la curia e aveva svolto l’incarico di legato papale nell’Italia settentrionale. Egli fu il primo patriarca italiano, dopo una serie ininterrotta di vescovi tedeschi che avevano retto la Chiesa di Aquileia per secoli. L’avvento dei patriarchi italiani sulla cattedra aquileiese è forse l’aspetto che ha sollevato maggiormente l’attenzione degli studiosi; accanto a questo ve n’è un secondo ugualmente degno di considerazione. Il Montelongo fu il primo patriarca a essere nominato direttamente dal papa, che si era riservato il diritto di nomina alla sede aquileiese con lo scopo di sottrarre all’influsso imperiale una delle più ricche e potenti sedi episcopali dell’Occidente. Con lui si inaugurò una prassi giuridica, che non sarebbe stata mai più smessa fino alla soppressione del patriarcato. Con le stesse modalità fu nominato anche Raimondo della Torre, succeduto al Montelongo nel dicembre 1273 dopo quattro anni di sede vacante. I della Torre erano i signori di Milano e i capi della parte guelfa dell’Italia settentrionale che, dopo la sconfitta subita a Desio (1277) per opera dei Visconti, si trasferirono in Friuli con gran parte del loro seguito. Dal punto di vista politico-istituzionale il passaggio del Friuli alla parte guelfa, avvenuto attorno alla metà del Duecento, comportò un ribaltamento delle alleanze e introdusse un potenziale elemento di conflitto con i conti di Gorizia, che svolgevano la funzione di avvocati della Chiesa aquileiese e che restarono legati alla parte ghibellina; dal punto di vista culturale questo mutamento aprì il territorio a una forte immigrazione dall’area padana. La diffusione della letteratura provenzale nella seconda metà del secolo XIII, confermata da recenti scoperte di frammenti codicologici, è una spia significativa del fenomeno. Composizioni in versi in lingua provenzale (“planh”) furono scritte in occasione della morte del patriarca Gregorio di Montelongo (1269) e l’anno successivo per la morte di Giovanni di Cucagna (1270). Il ritrovamento di altri componimenti, come i versi di Bernard de Ventadorn, segnala la presenza a Cividale di poeti italiani o stranieri che compongono in provenzale, come accadeva nelle altre corti dell’Italia settentrionale.

La classe dirigente

Interno di un banco di pegni (Siena, Archivio di stato).

A partire dagli ultimi decenni del secolo XIII si venne affermando in Friuli, al seguito dei patriarchi, una classe dirigente forestiera (italiana o straniera), che qui avrebbe impiantato le sue radici in modo definitivo. Si trattava di parenti e di “fideles” dei patriarchi, ma anche di personale amministrativo, giudiziario, militare necessario ad affrontare le esigenze dell’amministrazione ecclesiastica e i problemi connessi con la gestione dello stato. La curia alla fine del Duecento pullulava di persone legate alla consorteria torriana, di domicelli e ostiari, gastaldi, podestà, capitani, nonché vari professionisti di provenienza in gran parte lombarda, giuristi, medici, notai, contabili. Vi trafficavano altresì affaristi fiorentini legati ai Capponi nonché finanzieri veneziani stabilitisi in Aquileia come Marino Zorzano, tanto benestante da appaltare la zecca patriarcale; vi circolavano pure frati francescani, umiliati, crociferi. La conseguenza della politica Torriana, inaugurata da Raimondo e proseguita dai suoi nipoti Gastone (1316-1318), Pagano (1319-1332) e Ludovico (1359-1365), fu la progressiva estromissione del gruppo dirigente friulano dai posti di comando e dai benefici più redditizi del patriarcato. Non mancarono a questo proposito momenti di tensione tra “Lombardi” e “Friulani”, come quando il patriarca Raimondo della Torre (1273-1299) cercò di estromettere la nobiltà friulana dai capitoli locali per far posto ai propri congiunti e familiari. Gli stessi patriarchi Bertrando di Saint-Geniès (1333-1350) e Nicolò di Lussemburgo (1350-1358), che pure avevano escluso i Torriani in modo pressoché totale da qualsiasi responsabilità di governo, si servirono ampiamente della collaborazione di altri lombardi, a tal punto radicati nella patria del Friuli da essere ormai fedeli ai presuli e non più ai discendenti degli antichi signori di Milano. Fra i nomi dei vescovi di Concordia o degli ecclesiastici chiamati a svolgere la funzione di vicari patriarcali nel corso del Trecento spiccano alcuni nomi di notevole spessore culturale. Uberto da Cesena, vescovo di Concordia negli anni 1333-1334, è considerato uno dei più illustri canonisti del Trecento. Con lui arrivò a Portogruaro il notaio Nicolò Romani da Osimo, a cui fu affidata la stesura del liber iurium dell’episcopato concordiese; il Romani, che soggiornò in Friuli una quindicina d’anni, divenne in seguito ad Avignone segretario dei papi Innocenzo VI, Urbano VI e Gregorio XI. Guglielmo di Enrigino da Cremona è descritto nelle fonti contemporanee come «elegancia, moribus et scientia inter alios excellens et conspicuus». Guido Guizzi da Reggio Emilia, vescovo di Concordia e vicario del patriarca Bertrando, si rivela non solo abile amministratore e pastore attento alle necessità della sua chiesa, ma anche uomo aperto al rinnovamento culturale. La sezione della sua biblioteca riservata agli autori classici e cristiani esibisce sorprendentemente alcuni libri Ab urbe condita di Livio, il cui recupero filologico vedeva la luce proprio allora ad Avignone per opera di Francesco Petrarca. I rapporti con l’università di Bologna e la curia papale gli offrivano la possibilità di interloquire con personaggi di rilievo, come i due Colonna, Nicolò Capocci, Francesco Petrarca, Pietro Alighieri. Ai buoni uffici del Guizzi si devono probabilmente i contatti con Vitale da Bologna, chiamato da Bertrando ad affrescare l’abside del duomo di Udine, che divenne da subito un punto di riferimento per la pittura friulana sacra e profana. Giorgio Torti da Pavia, vicario generale di Marquardo di Randeck (1365-1381), nell’aprile del 1368 in occasione della visita di Carlo IV a Udine, ospitò nella sua casa di via Rauscedo il vescovo di Padova Pileo di Prata e Francesco Petrarca, indizio che si sta rivelando sempre più attendibile di una familiarità e frequentazione precedenti. La cancelleria patriarcale era dominata anch’essa da personalità forestiere, a partire dall’arrivo in Friuli di Nicolò e Giovanni da Lupico durante l’episcopato di Gregorio di Montelongo. Alcuni cancellieri lombardi, come Gabriele di Enrigino da Cremona (era stato cancelliere a Padova negli anni 1306-1314), Eusebio di Iacopo da Romagnano, Giovanni Gubertino di Ressonado da Novate, Meglioranza di Chiarello da Thiene, assieme ad altri che li seguirono nel corso del Trecento, costituirono un importante elemento di continuità fra i governi patriarcali. L’amministrazione dello stato e il parlamento friulano poterono contare per l’attività politica e diplomatica su funzionari di notevole competenza, specie nel campo del diritto. Questo volume ne ricorda alcuni, come i dottori in legge Azzolino ed Elia Gubertini, Andrea Monticoli, Pietro Marchesini. L’udinese Azzolino, affiliato al collegio dei giuristi della città di Padova, si era messo in luce sotto Marquardo, che lo incluse tra i “viros scientia et moribus circumspectos” per l’emanazione delle Costituzioni del 1366; politico e diplomatico fu anche Elia fratello di Azzolino. Di Andrea Monticoli, vicario “in temporalibus” del patriarca Giovanni di Moravia (1387-1389) si è potuta ricostruire la biblioteca, specchio della sua preparazione professionale e dei suoi interessi culturali. Pietro Marchesini, già rettore degli scolari oltremontani a Padova, si trovò a rappresentare il parlamento friulano al concilio di Costanza nel 1415. Diplomatico eminente negli stessi decenni fu il goriziano Michele Rabatta di origine toscana, che fu al servizio dei Carraresi di Padova, ma anche “marescalco patriarcale” e vicedomino del patriarcato. Già le fonti contemporanee lo giudicavano «savio et molto customado, homo optimamente literado et ben savea la lingua schiava et la alemanna, et il qual, benché nassudo fosse nella Guricia, di padre era toscano e nobile assai». Il Rabatta, che lasciò memoria di sé nella chiesetta di S. Spirito costruita ai piedi del castello di Gorizia, apre la serie di personalità della contea che per secoli furono scelte all’interno dell’impero per compiti in cui erano richieste la conoscenza di più lingue e una preparazione culturale adeguata alla complessità dei problemi da affrontare. Lombardi, toscani, ebrei sono gran parte degli appaltatori della zecca di stato e degli esponenti della finanza. Le biografie di alcuni di questi personaggi aprono uno squarcio sul mondo del denaro e del potere economico, che condiziona pesantemente il principato ecclesiastico specialmente negli ultimi due secoli di storia. Gli esempi a tale proposito sono numerosi e concordano nell’evidenziare i debiti contratti dai patriarchi nei confronti della curia romana (o avignonese) per i diritti di nomina, dopo che questa era stata avocata a sé dal papa. Il notaio Alberghetto Vandoli, cancelliere patriarcale, è testimone delle questioni che toccavano gli interessi della compagnia dei Mozzi, con la quale il patriarca Pietro da Ferentino aveva contratto un debito esorbitante per pagare la tassa del servizio comune alla data di nomina nel 1299. Il colossale monte di debiti, che il patriarca Antonio Pancera si trovò ad affrontare nei confronti della camera apostolica, ammontava nel 1403 a quasi 36.000 fiorini. Non meno rilevante è la voce di spesa relativa alle guerre: si pensi solo alle campagne militari dei Torriani contro i Visconti per riprendere il possesso di Milano. Alla morte di Pagano della Torre nel dicembre 1332, i creditori sequestrarono perfino la mobilia della camera da letto come pegno dei debiti che il patriarca non aveva ancora estinto. Gli atti relativi ai saggi di monete della zecca patriarcale sono uno specchio dell’economia dello stato al suo tramonto. I ritratti degli uomini d’affari e degli appaltatori della zecca presenti in Friuli non si discostano molto da quelli degli imprenditori contemporanei di area veneta o lombarda: vi compaiono banchieri-mercanti, abili nel diversificare i loro investimenti nel campo del prestito, del commercio o nella gestione della zecca patriarcale fin dal XIII secolo. L’elenco alfabetico degli zecchieri si apre con i parmensi Pietro e Tommaso Anelli e si chiude con il veneziano Marino Zorzano “magister monetarius”. Emblematica è la figura di Giovanni di Graziadio da Bologna, orefice, zecchiere, imprenditore: orefice di grande esperienza e abilità, come dimostrano due prestigiose commissioni, fu in società d’affari con finanzieri toscani e creò un’impresa con tale Sedilio da Pettau per l’estrazione di minerali dalle montagne. La zecca fino al 1401, quando l’incarico fu affidato a Nicolò di Candido, era sempre stata gestita da appaltatori forestieri. Restando in campo economico, la figura di Maffeo da Aquileia, cameraro del comune di Udine, apre uno squarcio sul ruolo dei camerari, ricoperto nella gran parte dei casi da orefici, speziali e mercanti, ed evidenzia l’importanza dei registri contabili connessi a questo ufficio, che sono uno specchio veritiero della gestione ordinaria di un comune cittadino e al tempo stesso una testimonianza privilegiata del momento politico e militare o di eventi naturali quali un terremoto o la peste, che sconvolsero periodicamente la vita della popolazione.

Gli ordini mendicanti

Nel passare in rassegna fatti e personaggi che hanno lasciato un’impronta significativa nel campo della cultura, va messo nel giusto risalto l’arrivo dei frati minori e dei frati predicatori. L’insediamento degli ordini mendicanti in Friuli è un fatto di grande rilevanza non solo dal punto di vista del rinnovamento della vita religiosa, ma anche su un piano strettamente culturale che trova la sua espressione nell’apertura di scuole e nei rapporti con le università, nella creazione delle prime biblioteche aperte al pubblico e nella committenza artistica. Quantunque i primi insediamenti dei Minori si debbano ascrivere già agli ultimi anni di Bertoldo di Andechs (Cividale e Gemona), al patriarcato del Montelongo, che ebbe francescani e domenicani tra i suoi principali collaboratori, risalgono in particolare le fondazioni di S. Domenico di Cividale (1252) e S. Francesco di Udine (1259); mentre al patriarcato di Raimondo della Torre si deve la fondazione del convento domenicano di S. Pietro Martire di Udine (1284). Il fatto che le prime fondazioni dei mendicanti siano avvenute a Cividale conferma che la città nel XIII secolo era il centro scolastico più importante della regione. Qui i frati predicatori reclutarono giovani proseliti, che fecero in seguito carriera all’interno dell’ordine e in campo universitario. Da Cividale proveniva Bertoldo da Faedis, maestro di teologia a Padova e provinciale della provincia lombarda a cavallo dei due secoli. A Padova aveva insegnato il domenicano cividalese Giacomo di Pinosa, prima che gli venisse conferito il lettorato di teologia nella città natale. Alla famiglia cividalese dei Boiani appartenevano il domenicano Giacomo e la beata Benvenuta, di cui i frati predicatori fecero una figura di riferimento esemplare per la vita devota dei laici. La redazione della leggenda agiografica su Benvenuta Boiani, scritta dal suo confessore Corrado di Castellerio nel 1294, è uno dei pochi prodotti della letteratura mediolatina friulana. Un lettorato di teologia era stato istituito anche a Udine presso il convento domenicano di S. Pietro Martire già nel 1285. Tuttavia è soprattutto nel corso del Trecento e del secolo successivo che il convento udinese esplicò le sue maggiori potenzialità, in concomitanza con lo sviluppo economico e urbanistico della città. A questo contribuì certamente la scelta dei patriarchi di privilegiare il castello di Udine come loro residenza principale, con tutti i riflessi che tale decisione ebbe anche per l’amministrazione civile ed ecclesiastica del principato. La proposta avanzata dal patriarca Nicolò di Lussemburgo e fatta propria da Pietro di Cluzeau vescovo di Concordia nel 1351, di trasferire da Aquileia a Udine anche la sede della cattedra aquileiese è un’ulteriore conferma dell’importanza crescente che la città aveva acquisito nel corso del Trecento. Nel convento udinese erano incardinati due illustri maestri dell’ordine domenicano, Francesco di Albinutto e Tommaso di Domenico da Attimis, il primo vissuto attorno alla metà del XIV secolo, il secondo tra la fine del Trecento e gli inizi del secolo successivo. Francesco di Albinutto, dopo aver insegnato teologia a Bologna nel 1347 e aver ricevuto due anni più tardi l’incarico di priore della provincia di Grecia, ottenne attorno al 1357 una cattedra di teologia nello Studio di Parigi. La biblioteca di S. Pietro Martire conservava copia della sua Philosophia naturalis e alcuni commenti ai testi biblici di Tobia e di Marco. Tommaso di Domenico da Attimis, dopo aver completato la sua preparazione tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento nelle università di Oxford e di Bologna, ebbe l’incarico di docenza nello Studio bolognese e fu alla fine eletto provinciale della provincia di S. Domenico. Di lui restano alcune opere, quali il Testimonium de libris Iohannis Wiklif non comburendis scritto nel 1410 e una Abbreviatio dei Theoremata de esse et essentia di Egidio Romano, databile prima del 1424. Dal convento udinese dei frati minori (S. Francesco di dentro) provenivano il beato Odorico da Pordenone e Giovanni da Mortegliano, al cui nome sono legate due opere che ebbero notevole fortuna presso i contemporanei. Odorico aveva iniziato attorno al 1318 l’affascinante viaggio che per dodici lunghi anni lo portò come missionario a visitare i paesi dell’Estremo Oriente fino all’antica Pechino. Le memorie di questo viaggio, dettate nel 1330 a frate Guglielmo da Solagna e conosciute con il titolo di Itinerarium o Relatio, ebbero una fortuna straordinaria: sono almeno ottanta i manoscritti superstiti, fra cui si trovano numerose traduzioni, quasi coeve, in volgare italiano, francese, tedesco, catalano, castigliano e, più tardi, in inglese e in ceco. Per frate Odorico, venerato fin da subito dopo la sua morte avvenuta a Udine il 14 gennaio 1331, fu realizzata nella bottega di Filippo De Santi un’arca, che è il primo esempio di scultura gotica veneziana a Udine e che ebbe una grande fortuna critica. Su un piano diverso si colloca l’opera di Giovanni da Mortegliano, la Compilatio historiarum totius Biblie tam Veteris quam Novi Testamenti, scritta a Udine nel 1344 e dedicata al patriarca Bertrando di Saint-Geniès. La Compilatio, una sintesi di storia biblica nel contesto della storia universale illustrata da un’ampia serie di immagini, fu redatta servendosi delle fonti medievali a disposizione del convento udinese nel corso del Trecento. Giovanni eseguì il suo lavoro, di cui rimangono copie alla Marciana di Venezia e presso la Vaticana, su un rotolo pergamenaceo di circa cinque metri e mezzo.

Scuola e Università

Professore dello Studio di Bologna in cattedra, particolare dell’Arca di Giovanni di Andrea (Bologna, Museo civico medievale).

Uno degli aspetti più significativi della storia culturale di questo periodo, destinato a riproporsi in epoche successive come segno di identità e di emancipazione del Friuli, è il tentativo di costituire un’università per il territorio. L’aspirazione ad avere uno “Studium generale”, che servisse gli studenti del patriarcato anche oltre le Alpi e i confini del Friuli, fu espressa una prima volta dal patriarca Ottobono dei Razzi da Piacenza, già vescovo di Padova e cancelliere di quella università, pochi giorni dopo il suo ingresso in Friuli avvenuto il 14 agosto 1302. Nella seduta del parlamento della Patria del Friuli il patriarca annunciava l’intenzione di creare a Cividale uno “studium in decretalibus et aliis facultatibus”. La proposta, nonostante la disponibilità finanziaria del comune di Cividale, non ebbe immediatamente seguito perché il patriarca fu preso ben presto nel vortice delle guerre contro Enrico II conte di Gorizia e Rizzardo da Camino, che avrebbero contraddistinto quasi tutto il periodo del suo governo. Gli studiosi che si sono occupati del problema hanno messo in luce soprattutto il fallimento dei ripetuti tentativi compiuti da Ottobono e dai successori Pagano della Torre e Bertrando di Saint-Geniès per ottenere il riconoscimento papale dello “Studium”. Solo il peso politico e i rapporti personali del patriarca Nicolò di Lussemburgo, fratello di Carlo IV, riuscirono finalmente in data 1° agosto 1353 a ottenere il privilegio imperiale che istituiva uno “Studium generale tam in artibus quam in utroque iure”. Le fonti disponibili non offrono elementi tali da sciogliere ogni dubbio e consentire una ricostruzione adeguata della vita della prima università friulana. Uno degli elementi più convincenti a favore dell’esistenza di una scuola superiore, prima del riconoscimento ufficiale da parte di Carlo IV, è costituito dalla presenza di docenti, mai così qualificata e ampia come sul finire del XIII secolo. Nel 1294, infatti, il comune di Cividale aveva provveduto a una serie di incarichi chiamando a insegnare diritto civile e canonico Guido da Parma, Nicolò da Perugia, Rinuccio da Piacenza, Pietro Bocca da Treviso, Martino “pievano di Rivignano”. Accanto a costoro, nello stesso giro di anni, le fonti ricordano i nomi di Rinaldo da Bologna e Benedetto da Santa Maria la Longa, professore di grammatica e retorica il primo, di grammatica e logica il secondo. All’anno 1300 risale anche l’istituzione di una cattedra di “ars notarie” per la preparazione dei notai, affidata al professore catalano Tommaso da Torregrossa. Inoltre nel febbraio 1303 il papa Bonifacio VIII autorizzava i canonici a sopprimere due prebende del capitolo per destinarne le rendite al mantenimento di un professore di teologia e uno di diritto canonico. L’intervento di Ottobono nella seduta parlamentare del 1302 si colloca in questo contesto. Si trattava nella sostanza di ottenere il riconoscimento formale di un insegnamento superiore già avviato di fatto. Sull’esistenza a Cividale di una scuola di diritto “in utroque iure”, che aveva raggiunto livelli di eccellenza, si fondarono anche i ripetuti contatti con la curia di Avignone da parte dei patriarchi Pagano della Torre nel 1329 e Bertrando di Saint-Geniès tra il 1339 e il 1344. Cividale, individuata come sede della nuova università, da secoli era il centro scolastico di gran lunga più importante del patriarcato e, in particolare nel corso del XIII secolo, aveva espresso una grande vivacità culturale. Nessun altro centro della regione poteva vantare la residenza abituale dei patriarchi con la loro corte, la presenza di una scuola capitolare di grande prestigio, l’attività di uno “scriptorium” da cui erano usciti i migliori prodotti di arte libraria contemporanea. Nelle scuole della città si erano formati, prima di intraprendere la carriera universitaria, alcuni maestri divenuti famosi in tutta Europa, a cominciare da Lorenzo de Caprileis (conosciuto fuori dal Friuli come Lorenzo da Aquileia), le cui opere furono per lungo tempo testi fondamentali per l’insegnamento della retorica.

Gruppo di studenti, particolare dell’Arca di Giovanni di Andrea (Bologna, Museo civico medievale).

Scarse sono le notizie biografiche che riguardano Lorenzo. Nato in una famiglia di medici e notai, i de Caprileis, è verosimile che egli abbia conseguito il titolo dottorale di medico o “phisicus”, con cui è citato nei documenti coevi assieme a quello di notaio e canonico, presso l’università di Bologna: il titolo di medico o “phisicus” attribuito a un maestro di retorica non deve affatto sorprendere, perché il rapporto fra medicina e retorica in questa età era molto più stretto di quanto potrebbe sembrare a un esame superficiale delle fonti. I testi di Lorenzo, che compare come docente negli Studi di Roma, Napoli e Parigi, restarono per oltre un secolo tra i più diffusi, come dimostrano gli oltre novanta manoscritti ancora conservati nelle principali biblioteche europee. Pace del Friuli o da Aquileia era professore di logica nello Studio patavino, quando nel 1290 compose in versi per il doge Pietro Gradenigo o quando nel 1319 dedicò al vescovo Pagano della Torre (destinato più tardi alla sede di Aquileia) un poema in esametri che celebrava il ritorno dei Torriani a Milano. Da Cividale proveniva pure Mondino, professore di medicina a Padova, che nel 1316 ultimò il Commento al Canone di Avicenna, opera trasmessa da un consistente numero di testimoni manoscritti. Solo recentemente sono state messe in luce l’importanza e l’originalità del lavoro di Mondino, che fino a non molto tempo fa era considerato nella mediocrità dei docenti del suo tempo. Il maestro cividalese, autore anche di un’epitome molto diffusa del dizionario farmaco-botanico di Simone da Genova, sarebbe da considerare come pioniere e luminare della scuola medica padovana alla pari del più celebre Pietro d’Abano.

Il notariato

Rolandino maestro di notariato, ritratto in un disegno a penna della Matricola dei notai di Bologna (Bologna, Archivio di stato).

Questo volume dà ampio spazio ai notai, laici o ecclesiastici. Il loro nome è associato in modo particolare alle testimonianze grafiche di questa età, sia nel campo della scrittura corsiva e della produzione documentaria pubblica o privata, sia nel campo della scrittura posata e della produzione del libro. I registri delle imbreviature notarili costituiscono una delle fonti più interessanti per la conoscenza delle strutture sociali e ambientali friulane. Da esse si desume una serie di informazioni non solo sulla figura dello stesso notaio e sulla sua committenza, ma anche sulla realtà sociale, culturale e ambientale con cui egli fu a contatto, così da rappresentare un punto di vista privilegiato sulla vita delle città e dei borghi. Non si intende ovviamente fornire un repertorio completo dei notai; esso si limita a presentare le biografie più significative di alcuni di essi, sia perché essi svolsero un ruolo culturale importante all’interno della loro professione o nel mondo della scuola, sia perché i loro registri ebbero la fortuna di un’edizione: cancellieri patriarcali o cancellieri di città e di borghi, notai prestati alla politica e impegnati in missioni diplomatiche, insegnanti di “ars notarie” o maestri di grammatica, liberi professionisti o copisti di libri. Notai, ecclesiastici o laici, sono gli autori trecenteschi delle più antiche cronache sul Friuli: Giuliano da Cavalicco, Odorico di Francesco da Pordenone e Giuliano di Ailino da Maniago. Notaio, mansionario e quindi canonico cividalese, Giuliano iniziò a scrivere la Cronaca, che ha come centro di interesse la città di Cividale. La tradizione manoscritta dell’opera di Giuliano è particolarmente complessa, perché a un primo nucleo a lui attribuito vi sarebbero delle aggiunte fatte da altri dopo la sua morte (1306). La parte di racconto attribuita a Giuliano è costituita da una serie di annotazioni molto scarne, che riguardano in particolare la vita religiosa e le istituzioni ecclesiastiche cividalesi a partire dalla metà del Duecento con l’ingresso ad Aquileia del patriarca Gregorio di Montelongo (1252). Di grande interesse sul piano culturale le informazioni sulle sacre rappresentazioni messe in scena dal capitolo di Cividale e le note sulla fondazione di istituti religiosi e sulla confraternita dei Battuti. Nella seconda parte del racconto, ripreso da Giovanni fratello di Giuliano, l’orizzonte si allarga alla guerra che oppone Rizzardo da Camino ed Enrico conte di Gorizia al patriarca Ottobono. Anche se il capitolo di Cividale continua a essere il punto di osservazione da cui muove il cronista, il racconto ha per sfondo l’intero Friuli percorso dalle soldatesche in armi. Ottobono, Rizzardo di Camino ed Enrico di Gorizia ritornano come protagonisti anche nel Memoriale, iniziato attorno al 1322 dal notaio Odorico di Francesco da Pordenone e proseguito, dopo la sua morte, dal figlio Giovanni. In primo piano il Memoriale colloca le vicende familiari del cronista, mentre sullo sfondo si stagliano ancora una volta le vicende del Friuli fino all’assassinio del patriarca Bertrando (1350). La narrazione è intervallata da notizie locali sul clima o sul costo dei prodotti alimentari, sulla qualità della vendemmia o sull’esito del raccolto. Pur non mancando mai un riferimento alla grande storia (nel caso specifico gli spostamenti dell’imperatore Ludovico IV tra Lombardia e Toscana), l’aspetto più interessante del Memoriale, secondo Marino Zabbia, sarebbero proprio le note di storia domestica. Si tratterebbe di «uno dei più antichi casi giunti sino a noi di attenzione alla storia familiare nella cronachistica notarile: nessun testo con tali caratteristiche composto in Friuli e neppure in Veneto prima della stesura del Memoriale si è infatti conservato». Il nome di Giovanni di Ailino da Maniago, oltre che alla sua cospicua produzione documentaria, è legato alla stesura di una tra le più importanti opere storiografiche composte in Friuli, la Historia belli Forojuliensis. Giovanni, che scrisse attorno al 1390, ricostruì la sua storia a partire dagli scontri fra il patriarca Ludovico della Torre e Rodolfo d’Asburgo e si soffermò in particolare sul contrastato patriarcato di Filippo d’Alençon (1381-1387) e sui primi anni del non meno controverso governo di Giovanni di Moravia (1387-1394). Lo sfondo del racconto di Giovanni, scandito dalla successione dei patriarchi, è sempre molto largo e oltrepassa i confini del patriarcato per comprendere il ducato d’Austria e gli stati territoriali dell’Italia padana. Non di meno al centro dell’orizzonte, da cui muove la narrazione, rimangano la piccola località di Maniago e le vicende che hanno per protagonisti i compaesani dell’autore. Caso pressoché unico nella produzione storiografica italiana del basso medioevo, la cronaca di Giovanni non nasce in ambito cittadino, ma è fortemente legata ad una realtà rurale, quella che si raccoglie attorno o dentro le mura di Maniago. Ai registri dei notai è affidata anche la conservazione delle prime testimonianze della lingua e della letteratura friulana. Da una scuola cividalese di notariato uscirono nella seconda metà del Trecento gli Esercizi di versione dal volgare friulano in latino pubblicati da Alfredo Schiaffini nel 1922, come pure furono dei notai udinesi a compilare in lingua friulana il registro della confraternita dei Pellicciai di Udine dal 1310 al 1415. Al nome del notaio Simone di Vittore si associa in particolare la trasmissione di Biello dumnlo, contrasto amoroso che è uno dei più antichi testi poetici friulani. I versi sono esemplati sul rovescio di una pergamena impiegata dal notaio come coperta di un quaderno, che contiene degli esercizi scolastici in latino e in friulano. In realtà questo testo potrebbe essere attribuito alla mano del notaio Antonio Porenzoni, che in un altro registro di fine Trecento tramanda la ballata Piruç myo doç. Gli istrumenti e le annotazioni contabili di Nicolò di Daniele di Colle Prampergo, notaio e cancelliere patriarcale, attestano a loro volta degli interessi significativi, che vanno dal versante latino e umanistico a quello della letteratura volgare, con particolare riferimento alla poesia di carattere popolareggiante. Furono notai, come nel vicino Veneto, i maestri o rettori di scuola di cui si ha notizia in Friuli almeno a partire dalla prima metà del Duecento. A Cividale attorno al 1230 insegnava grammatica un Anselmo da Cremona, canonico e notaio; ad Anselmo subentrò con la qualifica di “magister regens” delle scuole di grammatica e retorica per oltre trent’anni il cividalese Rinaldo detto Pizzul, anch’egli canonico e notaio. Notai furono il concordiese Bartolomeo, menzionato come “magister scolarum” di Concordia alla fine del Duecento, e Alberto da Thiene, professore di grammatica, stipendiato dal comune di Udine a partire dal 1298. La seconda metà del Trecento e i decenni successivi sono caratterizzati da una grande mobilità di maestri o professori, che stipulavano con i comuni contratti di durata solitamente biennale e si trasferivano da Ferrara al Friuli, dal Veneto alle città della costa istriana e dalmata. Il continuo girovagare e il cambiamento di città e di ambiente divennero in questo periodo l’inevitabile conseguenza del mestiere dell’insegnante.

La circolazione della cultura scritta

Sul piano culturale l’ampia circolazione di libri, uomini, idee collegati all’incipiente umanesimo si rivelò estremamente feconda per il rinnovamento della scuola e dell’intera società. Le biografie di alcuni di questi insegnanti, che svolsero per qualche tempo il loro magistero in Friuli, mettono in luce il ruolo non secondario che essi ebbero nella diffusione della cultura umanistica. Bartolomeo da Fagagna era professore di grammatica e retorica a Ferrara nel 1372, quando i cividalesi lo contattarono per insegnare nella loro scuola. Dovettero attendere due anni per averlo: dal 1374 al 1376 fu a Cividale e nel biennio successivo si trasferì a Udine. Nel caso emblematico di Giovanni Conversini da Ravenna, uno dei principali protagonisti della cultura protoumanistica fiorita in area padanoveneta sulla scia del magistero petrarchesco, è lo stesso protagonista a raccontare nell’autobiografia (il Rationarium vitae) le tappe della sua carriera, che comprende il periodo passato a Udine fra il 1389 e il 1392. Il Conversini, dopo gli studi di notariato compiuti a Bologna, era stato precettore a Ferrara; aveva insegnato nello Studio fiorentino coprendo contemporaneamente la carica di notaio forestiero nella curia del podestà; era passato quindi a dirigere le scuole di Treviso, Conegliano, Belluno e successivamente di Padova e Venezia; a Ragusa aveva svolto le funzioni di cancelliere di quel comune. La cultura quattrocentesca lo ricorda come maestro di un’intera generazione di umanisti, da Pier Paolo Vergerio a Sicco Polenton, da Guarino Veronese a Vittorino da Feltre. Di altri maestri questo libro ricostruisce le tappe della vita e del magistero. Ravennate, come il Conversini, era Gentile Belloli, che concluse la carriera a Cividale dal 1397 al 1403, dopo aver insegnato a Venezia e a Treviso. Una “lamentazione” in ottave, scritta dal Belloli in occasione dell’incendio del castello di Torre di Pordenone, fa conoscere un letterato che non escludeva dall’orizzonte dei suoi interessi la cultura volgare italiana. Ultimo dei maestri di questa età è poi Giovanni da Amaro, che i cividalesi riuscirono a far trasferire da Venezia nella loro città. L’inventario della sua biblioteca composta da oltre un centinaio di libri (1429), di cui già il Liruti aveva intuito l’interesse, apre uno squarcio straordinario non solo sul bagaglio culturale posseduto dal maestro di Amaro, ma anche sull’insegnamento che si impartiva nelle scuole friulane dell’epoca.

L’arte e la musica

Miniatura dal Salterio di santa Elisabetta della prima metà del XIII secolo (Cividale, Museo archeologico nazionale, cod. CXXXVII, f. 149r).

La mobilità delle persone, riscontrata nel basso medioevo friulano in campo amministrativo, finanziario, scolastico, è uno degli aspetti che caratterizza anche il settore dell’arte e della musica. Alcuni cenni sono stati fatti in rapporto alla pittura e alla scultura, parlando della vivace circolazione culturale che sembra aver caratterizzato il patriarcato di Bertoldo di Andechs, o della bottega veneziana di Filippo De Santi in cui fu eseguita l’arca di Odorico da Pordenone, o della chiamata di Vitale da Bologna durante il patriarcato di Bertrando di Saint-Geniès. Si possono ricordare ancora la scuola dell’intagliatore Andrea Moranzone originario di Venezia o la presenza dei maestri Campionesi, documentabile nel portale del duomo di Spilimbergo eseguito da Zenone nel 1376, ma risalente a quel più vasto fenomeno di immigrazione lombarda iniziata nel Duecento con Raimondo della Torre. Per quanto riguarda la musica, con la nomina di Alberico da Roma a maestro cantore di Aquileia nella seconda metà del XIII secolo ebbe inizio probabilmente il progressivo abbandono della liturgia aquileiese a favore della liturgia romana. L’importanza attribuita alla musica, testimoniata dalla segnalazione dei maestri cantori delle principali cappelle del Friuli, affiora qua e là con significative testimonianze: Marchetto da Padova, che nel 1317 dovette rinunciare ai suoi diritti sulla scuola capitolare di Cividale, è un compositore e teorico musicale cui si devono i più completi e sistematici trattati del Trecento sulla “musica plana” e sulla “musica mensurabilis”; il domenicano Antonio da Cividale agli inizi del Quattrocento è autore di messe, mottetti, ballate italiane, “rondeaux” e “virelais”; il maestro cantore Nicolò da Liegi e i compositori Filippotto da Caserta e Zaccaria da Teramo facevano parte con ogni probabilità della cappella papale di Gregorio XII, promotore dello sfortunato concilio cividalese del 1409. L’ultimo periodo di storia del principato friulano esprime alcune personalità che svolsero ruoli significativi in campo politico e culturale anche fuori del Friuli. Profondo conoscitore degli ambienti di curia ed esperto diplomatico, anticipatore per molti aspetti della figura del prelato rinascimentale fu il cardinale Pileo di Prata: calcolatore, ambizioso e amante del fasto, ma anche splendido, munifico e sommamente abile nell’arte di trattare gli uomini. Nel 1394, di ritorno dalla legazione pontificia che lo aveva portato nel regno di Boemia e nelle province ecclesiastiche di Aquileia, Magonza, Colonia, Treviri, Magdeburgo, Salisburgo e Praga, Pileo fondò a Padova un collegio universitario per gli studenti friulani, che da lui prese il nome di Pratense. Legato a Pileo da vincoli di amicizia e da una comune origine nella “patria” è il cardinale Iacopino del Torso, che Giovanni Conversini da Ravenna definì «uomo di grande sapere, di rara prudenza e di incredibile eloquenza». Originario di Udine era anche Paolo di Nicoletto (Paolo Veneto) che gli studi più recenti definiscono «il più importante pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed interessanti logici del medioevo». Personaggio completamente diverso dai precedenti, se non altro per la vita vagabonda di cui poco o nulla si sa, è Fiore dei Liberi di Premariacco “de la diocesi de lo patriarchado de Aquilegia”, autore del Flos duellatorum, un particolarissimo trattato volgare sulle arti marziali che evoca esperienze fatte nelle corti dell’Italia padana. Fiore, che dedica il suo lavoro nel 1409 a Nicolò III marchese di Ferrara, non è uomo di penna, ma è consapevole dell’importanza decisiva e insostituibile della scrittura. Uno dei limiti, non tanto del dizionario, quanto del periodo in sé sta nella scarsa visibilità delle donne sulla scena della vita culturale. Dall’antichità sopravvivono i nomi di Canziana, Bassilla, Faustiniana, Colomba; all’età longobarda risale il nome della nobile Piltrude; al basso medioevo appartiene la figura della beata Benvenuta Boiani, salvata dall’oblio grazie alla biografia edificante del frate predicatore Corrado di Castellerio. Le altre figure femminili sono legate soprattutto alla famiglia comitale di Gorizia, dove si distinsero per personalità e intraprendenza e per il contributo arrecato all’accrescimento del potere della dinastia: da Adelaide sposa di Mainardo III a Elisabetta moglie di Mainardo IV, da Beatrice di Baviera a Beatrice da Camino. L’anonimato delle opere impedisce di ricordare altre figure femminili, come le monache di S. Maria di Aquileia nel XIII secolo o in età più tarda le suore di S. Chiara di Udine, che pure ebbero un ruolo diretto nella produzione e decorazione del libro manoscritto. Le biografie dei patriarchi, come pure quelle degli stessi conti di Gorizia in periodico conflitto con i patriarchi, servono a inquadrare anche le vicende culturali dell’ultimo periodo di vita dello stato patriarcale. Al nome di Marquardo di Randeck, che aveva seguito gli studi giuridici all’università di Bologna rappresentandovi la nazione tedesca, restano legate tra l’altro la ricostruzione della basilica di Aquileia e la pubblicazione delle Costituzioni della patria del Friuli: raccolta delle consuetudini della patria approvate dal parlamento friulano a Sacile nel 1366. Un’interessante nota di costume si riferisce all’intervento di Marquardo, il quale, nonostante l’iniziale contrarietà dei rappresentanti del comune di Udine, impose la modifica della norma di derivazione longobarda che escludeva le donne dal diritto di successione, ritenendo che essa fosse contraria al diritto naturale ancor prima che al diritto civile e canonico. Il Randeck commissionò inoltre il riordino e la raccolta dei privilegi e diritti della Chiesa Aquileiese al cancelliere Odorico Susanna: un’opera imponente portata a termine dal figlio di Odorico, Giovanni, e conosciuta sotto il nome di Thesaurus ecclesiae Aquileiensis. Si tratta di una fonte del diritto consuetudinario che continuò a essere usata anche in periodo veneziano e allo stesso tempo di una fonte storica di primaria importanza per la conoscenza del feudalesimo friulano. Di Giovanni di Moravia, ferocemente avversato dalla consorteria dei Savorgnan, va ricordato almeno il tentativo di riforma del governo civico di Udine con l’allargamento del potere esecutivo ai rappresentanti delle dodici corporazioni popolari: notai, drappieri, speziali, sarti, bercandai, fabbri, falegnami, pellicciai, tessitori, sellai, calzolai, orefici. Le biografie degli ultimi patriarchi del principato friulano si stagliano sullo sfondo del grande scisma di Occidente, che si inaugurò il 20 settembre 1378 quando il collegio dei cardinali proclamò nulla l’elezione di Urbano VI nominando al suo posto Clemente VII. Da allora nessun patriarca riuscì più a contare sul consenso unanime dei comuni friulani, Udine e Cividale in testa, che spesso si ritrovarono su fronti contrapposti appoggiati di volta in volta dai Carraresi di Padova o dalla Repubblica di Venezia, dal re di Boemia o dai duchi d’Austria. Il governo di Filippo d’Alençon, che pure era uomo di nobilissimi natali (era figlio di Carlo II di Valois detto il Magnanimo), di alta cultura e secondo alcune fonti contemporanee di vita assai santa, rappresenta secondo il Paschini «uno dei periodi più infausti» per il Friuli. Dopo aver soggiornato per quasi cinque anni a Cividale dal 1381 al 1385, il d’Alençon fu costretto alla fuga da una lega appoggiata da Venezia che raccoglieva la maggior parte dei comuni friulani. Il successore Giovanni di Moravia, nominato nel 1387 da Urbano VI per assicurarsi l’appoggio della casa regnante di Boemia contro lo scisma, fu assassinato a Udine da Federico Savorgnan nel 1394. Né sorte migliore, dopo il breve pontificato di Antonio Caetani, ebbero Antonio Pancera da Portogruaro e Ludovico di Teck, entrambi costretti ad abbandonare la sede.

La Patria del Friuli

Stemma patriarcale di seta con aquila rostrata ad ali spiegate e coda gigliata (Udine, Museo del duomo).

La storia del principato ecclesiastico, che fa da sfondo e si intreccia con le vicende culturali raccontate in questo libro, si conclude il 6 giugno 1420, quando le truppe veneziane entrarono a Udine e ammainarono lo stendardo patriarcale. Cause immediate dell’intervento militare furono l’alleanza del patriarca Ludovico di Teck con l’imperatore Sigismondo in funzione antiveneziana e più in generale le lotte che dilaniavano il territorio rendendo sempre più insicure le vie del commercio. I giochi della politica internazionale, i contraccolpi provocati dallo scisma di Occidente, le divisioni interne, gli interessi finanziari e strategici di Venezia posero fine a uno stato durato quasi tre secoli e mezzo, che, pur nella sua contraddittorietà, era riuscito a creare nelle coscienze un comune senso di appartenenza espresso dalla parola “patria”, che le fonti contemporanee associano a quella di Friuli. La terminologia di “patria”, “status patriae”, “defensio patriae”, “libertas patriae” era entrata nella prassi documentaria della cancelleria patriarcale e dei comuni friulani: i patriarchi e i loro collaboratori, fra cui sono riconoscibili giuristi insigni nel campo del diritto civile e canonico, erano perfettamente a conoscenza delle implicazioni giuridiche che il termine “patria”, usato per connotare il Friuli, aveva nei commenti al Decretum di Graziano e ai libri del Corpus iuris giustinianeo. Non si può negare che questo sia uno degli aspetti più rilevanti dell’eredità culturale che l’età dei patriarchi lasciava alle generazioni successive. Nonostante la perdita dell’autonomia politica, esse mantennero almeno l’unità amministrativa e l’identità della “Patria del Friuli”; come pure salvaguardarono e diedero dignità letteraria a una lingua, che si era timidamente affacciata nelle carte trecentesche dei notai. Un codice scritto in Francia nella seconda metà del Trecento (l’attuale Palat. Lat. 965 della Biblioteca Vaticana) identifica il Friuli con particolare riferimento alla sua lingua, la stessa di cui aveva parlato Dante nel De vulgari eloquentia: «Il Friuli è una provincia distinta da tutte le altre province dell’Italia di cui si è parlato perché non usa né il latino, né lo slavo, né il tedesco, ma un idioma suo proprio che non assomiglia ad alcun altro idioma italico». Il primo volume del Nuovo Liruti raccoglie circa trecentoventi biografie affidate a una quarantina di collaboratori italiani e stranieri. L’interesse internazionale per il medioevo friulano si è accentuato negli ultimi decenni e dimostra la dimensione tutt’altro che provinciale di questa pagina di storia. Talvolta il lettore potrà avere l’impressione che manchi omogeneità tra una voce e l’altra; né si intende negare che un dizionario biografico, voluto per ricostruire il quadro della cultura friulana, sia per natura sua riduttivo della ricchezza e complessità delle espressioni culturali di un’epoca. Un esempio per tutti: in campo artistico rimangono per lo più solo i nomi dei committenti, mentre degli architetti, mosaicisti, pittori, scultori che hanno realizzato opere mirabili si è perduto perfino il nome. Nonostante questi limiti le voci raccolte offrono in gran parte dei ritratti inediti, che consentono di collocare la vicenda complessiva della cultura friulana nel contesto più ampio della storia contemporanea europea.

Cesare Scalon