GIOVANNI DA SAN FOCA

GIOVANNI DA SAN FOCA

ecclesiastico, scrittore di viaggi, cantore, copista

Immagine del soggetto

Pagina del diario di viaggio di Giovanni da San Foca (Venezia, Biblioteca nazionale marciana, It. VI 209 [=5433], f. 25r).

Al seguito di una commissione di tre magistrati veneziani (Leonardo Sanudo, Francesco Salamon e Giovanni Marco da Molin), inviati all’inizio del 1536 «in syndicato» nelle città suddite in veste di giudici d’appello e di revisori dei conti, G. ne registra e commenta l’itinerario compiuto. Approfittando delle lunghe tappe necessarie allo svolgimento dell’ufficio, «pre’ Zuanne de Sancto Focha» stende una vivace descrizione dei luoghi visitati, a distanza di poco più di cinquant’anni dal famoso Itinerarium cum syndicis terrae firmae (1483), anch’esso in lingua volgare, del giovane Marin Sanudo. Classificato da Iacopo Morelli come «Viaggio per il Friuli fatto nel 1536», di mano di «prete Santo Foca», e successivamente segnalato da Pietro Zorzanello come «Viaggio per la Terraferma Veneta» (anche se il resoconto spazia ben oltre i confini dello stato da terra), il manoscritto è conservato presso la Biblioteca nazionale Marciana, ed è composto da 176 carte (mm 150×100) rilegate in cartoncino; i fogli sono numerati a matita, in epoca recente, solo sul recto. Il viaggio ha inizio, per il S., il 20 febbraio 1536: egli parte da Udine per raggiungere a Venezia «el spettabile messer Hieronimo Torso dottor [in legge]». Dopo nove giorni trascorsi nella capitale «in grandissimi apiaceri et bellissime feste», i due si recano a Padova, dove vengono raggiunti dai «magnifici signori syndici», che cominciano a «tenir rasone» il 6 marzo. È sufficiente scorrere i nomi di «città et castelli» presentati in apertura del manoscritto come una specie di tabella delle miglia, «con le sue distancie una da l’altra», per avere un’idea precisa dell’itinerario. Dopo aver attraversato la bassa padana e aver sconfinato nel Ferrarese e nel Mantovano, il prete originario di Pordenone e il nobiluomo di Udine rientrano nei territori del dominio veneziano, passando per Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, e sostando nei centri minori sedi di podestaria. ... leggi Visitate quindi Feltre, Belluno e il Trevigiano, effettuano una prima sosta a Venezia, dove i due alloggiano «alla casa de’ Furlani», per poi proseguire per Sacile e Pordenone fino ad arrivare a Valvasone, dove l’itinerario si interrompe. Le tappe del viaggio rispondono alla logica dell’ispezione: meno frequenti da città a città, gli spostamenti si infittiscono intorno ai centri maggiori. G. riferisce con precisione su distanze, mezzi di trasporto e tempi impiegati nei vari spostamenti. Il gruppo non si muove, tuttavia, in maniera compatta: G. e il del Torso, abbandonando i magistrati, compiono deviazioni più o meno lunghe per visitare, tra gli altri luoghi, la casa di Petrarca ad Arquà, Mantova, Ferrara, Bologna e Milano. Nessuna notizia trapela esplicitamente dal testo in merito al ruolo svolto dal prete all’interno del gruppo. Sulla base dei riscontri documentari relativi alla missione, e tenendo conto del profilo biografico dei magistrati eletti in Maggior consiglio, qualche ipotesi può essere tuttavia formulata. Alcune fonti d’archivio indicano che intorno al 1530 un sindacato inquisitoriale in terraferma poteva avvalersi di un seguito di ben trenta persone: oltre a un «nodaro», vi erano «rasonati, coadiutori et altri servitori». Che la qualifica notarile (quella del prete-notaio è del resto una figura ben radicata nella società dell’epoca), o quanto meno la pratica di cancelleria maturata in precedenza all’interno del capitolo aquileiese, valesse come requisito necessario per attribuire a G. un “officium”, è più che probabile: sembra però altrettanto possibile che le mansioni assegnategli non fossero predefinite (la compilazione del diario e, forse, lo svolgimento delle funzioni religiose per il gruppo in viaggio). Senza dubbio G. assisteva il del Torso il quale, si può ipotizzare, in forza del suo titolo dottorale aiutava a sua volta i magistrati nell’esercizio dell’attività inquisitoria. Ma le escursioni effettuate con Gerolamo del Torso, e il tono confidenziale che irrompe nella narrazione in alcuni punti, quando il prete si rivolge a un “tu” non meglio specificato, sembrano indicare un sodalizio ben consolidato con il nobiluomo udinese, con il quale G. mostra di condividere nel corso del viaggio più di un interesse. Non a caso nell’incipit G. dichiara implicitamente la sua dipendenza da Gerolamo, dicendo di essere partito da Udine «per andare in compania con el spettabile messer Hieronimo Torso dottor, in syndicato» insieme con i magistrati veneziani. Proprio nei punti meno attenti all’etichetta, richiamando alla memoria una serie di esperienze (l’avvenenza delle donne incontrate, il giudizio tagliente su alcuni rappresentanti veneziani inviati a governare nelle città suddite), il racconto presenta alcune sfumature ludiche tradotte in espressioni particolarmente colorite. Qui G. si mostra spontaneo e spiritoso, quasi a cercare una forma di complicità con il possibile destinatario dello scritto. Non mancano, tuttavia, connotazioni didattiche, come quando trascrive lapidi in maniera pedissequa, o quando rivela un interesse per i reperti archeologici (a Ravenna, per esempio, «se trovano medaglie et altre assai cosse fatte alla musaycha per li campi arativi, como in Aquilegia»). Tutto ciò farebbe pensare a un testo destinato a rimanere nelle mani dello stesso autore o a una sorta di rendiconto “domestico” condiviso con del Torso di cui G., più vecchio, potrebbe essere il precettore, guida spirituale e, nel contempo, culturale. Riaffiora, a tratti, anche una buona conoscenza del latino e una preparazione umanistica, che si traduce nella necessità di vedere e commentare, ben oltre, dunque, l’esperienza maturata da G. in seno al capitolo udinese come copista di testi classici. E se non c’è dubbio che l’occasione di stesura del manoscritto sia riconducibile alla visita ufficiale, d’altra parte è plausibile che la sua finalità non vada ricondotta ad una pratica burocratica che ne svilirebbe la vivacità e l’immediatezza del racconto. Che si tratti, poi, di un libro da bisaccia, con riflessioni immediate in presa diretta, non è possibile stabilirlo. Si può, invece, con un buon margine di sicurezza classificare il testo come un diario di viaggio (o un diario scritto in viaggio): il documento risponde, infatti, alla volontà di conservare il ricordo di un itinerario, prima che si perda la freschezza delle sensazioni. E potrebbe anche essere stato redatto posteriormente agli eventi, narrati a breve distanza di tempo sulla base di appunti via via raccolti, come sembrano indicare alcune smagliature cronologiche e disuguaglianze tematiche. Alcune parti, inoltre, non sembrano scritte quotidianamente e hanno un carattere retrospettivo; correzioni e aggiunte apportate in interlinea superiore dall’autore stesso, e qualche volta nel margine inferiore, con un inchiostro di diversa tonalità (bruno-rossiccio), sono indizi di una revisione del testo. Quando, invece, commenta la situazione delle munizioni, le spese di fabbriche e di guarnigioni alle difese (compito questo proprio degli inquisitori in terraferma), G. appare a tratti nelle vesti di un burocrate. In questi casi usa spesso dati numerici e si compiace nel riportare misure, superfici (il prato confinante «con le muraglie de la terra» a Bergamo è ampio quanto il cosiddetto «Zardin grande» di Udine, oggi piazza Primo Maggio, indicato nel manoscritto come il «nostro zardino» nei pressi del quale Gerolamo possedeva alcune case); e ancora distanze, numero di colonne e sedie. Sembra quasi voler stupire per la sua precisione, tanto da misurare personalmente l’altezza della torre di Vicenza, gettando un filo dalla cella campanaria e poi determinare la lunghezza «su un brazo de misura». Le note rinviano a un ampio orizzonte di interessi: vi emerge la personale sensibilità del viaggiatore, con il suo entusiasmo e con la sua capacità immediata di cogliere e interpretare la realtà visitata. Sotto questo punto di vista il manoscritto rappresenta una preziosa testimonianza diretta delle trasformazioni in atto nelle città e nei territori sottoposti alla Serenissima, in una fase cruciale di ripresa. G. indugia sulla descrizione di vari manufatti (fontane, ponti, fortezze, palazzi, chiese e conventi), e di spazi pubblici o privati (piazze, giardini). Non mancano informazioni su cantieri militari in piena attività, talvolta registrati nel momento di transizione dalla cortina medievale al fronte bastionato (Padova, Verona, Legnago); su opere e insediamenti di villa nel Vicentino (il «palazzo» dei Da Porto a Thiene, e la «casa over palazzo» dei Trissino a Cornedo, sede di un’Accademia di cui è indicata l’organizzazione); su alcune delizie ferraresi. Anche se non possiede la capacità critica appropriata per entrare nel merito (non riporta nomi di pittori e architetti; non inquadra stilisticamente le opere che vede), riesce a descrivere i manufatti nel loro insieme, ponendoli in relazione tra loro: l’Incoronata di Lodi e la chiesa di S. Maria della Croce a Crema gli sembrano a prima vista simili, come pure i palazzi della Ragione di Padova e Vicenza; la piazza di Ferrara, agli occhi di G., «è assai grande et bella et è fatta a modo di quella di San Marcho di Venetia». Altri dati sono più strettamente riferibili alla biografia dell’autore. Emerge un’attenzione continua verso i giardini (a Monselice; ad Arquà, luogo adatto a poeti e compositori); ricorrono notizie dettagliate, per ogni luogo visitato, sulle usanze del clero (con particolare interesse per le sue condizioni sociali); sui diversi ordini religiosi; sui capitoli delle cattedrali (e la ricchezza dei loro benefici); sulle cerimonie cui assiste e su quelle che vi si celebrano per tradizione (rito ambrosiano a Milano, romano a Verona); sulle reliquie e i miracoli; sugli organi; sul genere di musica suonata durante le cerimonie religiose (canto «figurato»). Nel registrare questi dati, egli non sembra spinto da semplice curiosità, ma da un profondo interesse personale. Nonostante siano da tempo note trascrizioni di alcune parti, isolate dal manoscritto, l’autografo risulta fino a ora inedito; è di prossima pubblicazione la sua edizione critica integrale.

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Bibliografia

Il codice cartaceo cui ci si riferisce è segnato: ms BNMV, It., VI 209 (5433). Riferimenti al testo, e alla missione, sono in: BNMV, Cod. marc., It., XI 325 (7136), f. 30; ASV, Segretario alle Voci, Elezioni in Maggior Consiglio, 1526-1540, cc. 31v-32r; Ibid., Collegio, Relazioni, 54; Ibid., Senato Terra, reg. 24, f. 240v-241r, 19 febbraio 1529 m.v.; Ibid., Senato Terra, reg. 29, c. 4r, 13 marzo 1536.

P. DONAZZOLO, I Viaggiatori veneti minori. Studio biobibliografico, Roma, R. Società geografica italiana, 1929 (Memorie della Reale Società geografica italiana, 16), 104; MAZZATINTI, Inventari, 77, 76; C. SCALON, Necrologium aquileiense, Udine, Istituto Pio Paschini, 1982, 90, 265; SCALON, Produzione, 66-69, 612-618, 641-42; stralci di trascrizione del manoscritto sono in: P. ZORZANELLO, Vicenza nel 1536, «Corriere Veneto», 29 aprile 1926, I, 99; L. PAGANI, La Bergamo del 1536 nel resoconto di viaggio di pre’ Zuanne di San Foca, in 1588-1988. Le mura di Bergamo, «Atti dell’Ateneo di scienze, lettere ed arti di Bergamo», 49 (1988-89), 345-368; P.L. BAGATIN, La tarsia rinascimentale a Ferrara. Il coro di Sant’Andrea, Firenze, Centro Di, 1991, 36, 105-106 (ripreso in A. FARINELLI TOSELLI, Dai Piopponi al Belfiore: “luogo delicioso da spasso”, in Ferrara 1492-1992. La strada degli Angeli e il suo Quadrivio, Ferrara, Corbo, 1992, 244-255).

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