BARBARO ERMOLAO I

BARBARO ERMOLAO I (1453 - 1493)

patriarca di Aquileia, filosofo e umanista

Immagine del soggetto

Ritratto ideale del patriarca Ermolao I Barbaro, pittore anonimo settecentesco (Udine, Museo diocesano e gallerie del Tiepolo).

Il ramo dei Barbaro, che all’inizio del XV secolo risiedeva nella parrocchia veneziana di S. Maria Mater Domini, nel corso di tre generazioni rappresenta probabilmente, per continuità e prestigio dei suoi esponenti, il massimo esempio di adesione alla cultura umanistica che ci sia dato di riscontrare nella Venezia quattrocentesca. Come è noto, la nuova sensibilità fu recepita alquanto tardi, e non senza contrasti, fra le lagune, dal momento che la prassi invalsa nel patriziato della Serenissima era di dedicare la giovinezza alla pratica della mercatura; poi, una volta raggiunta la sicurezza economica, ci si volgeva al servizio dello stato, che per i veneziani rappresentava una sorta di divinità: tale, perlomeno, l’accusa lanciata nel 1461 dal pontefice Pio II: «Vogliono apparire cristiani di fronte al mondo mentre in realtà non pensano mai a Dio e, ad eccezione dello stato, che considerano una divinità, essi non hanno nulla di sacro, né di santo […]. Misurano l’onore in base ai decreti del senato». Su questa realtà l’umanesimo irruppe come una forza dirompente, sovrapponendo alla triade dell’impegno sociale economico politico l’alternativa di una vita dedita all’otium letterario; alcune tra le migliori emergenze ne furono segnate: tra esse, spicca la tormentata vicenda del B. Nato a Venezia nel 1453 dal cavaliere e procuratore Zaccaria, figlio di Francesco (1390-1454), e da Chiara Vendramin, figlia del futuro doge Andrea, il B. era appena un bambino quando il padre trasferì la residenza nel bel palazzo gotico di San Vidal, sul Canal Grande; dopo di che, nel 1460, fu avviato agli studi presso l’omonimo cugino, allora vescovo a Verona. Qui il B. studiò latino e greco, quindi seguì il padre in alcune delle tante ambascerie sostenute, e fu a Roma nel 1462, a Verona nel 1468, a Napoli nel 1472, dove si impose all’attenzione dei circoli umanistici componendo il De coelibatu, apprezzato per l’alta lezione di sapienza civile coniugata alla morale cristiana. ... leggi Dal 1471, inoltre, aveva preso a frequentare i corsi dell’Università di Padova, dove si sarebbe addottorato “in artibus” il 23 agosto 1474 e “in utroque iure” il 27 ottobre 1477, accompagnando l’esercizio dell’apprendere con impegnative prove sul piano della retorica e della filologia. Poco più che ventenne, vi era stato invitato a commentare Aristotele: nel 1474-75 espose dunque l’Etica Nicomachea, nel successivo anno accademico fu la volta della Politica, nel 1478-79 della Retorica. Aveva allora venticinque anni, l’età in cui i giovani patrizi facevano il loro ingresso nel Maggior consiglio, salvo poi a disertarne le assemblee per dedicarsi alla mercatura. Ma sul mare non erano tempi facili per Venezia: nel 1479 essa aveva dovuto sottoscrivere un’ingloriosa pace col Turco e nel 1480 Maometto II inviava a Otranto un corpo di spedizione che per un anno intero avrebbe bloccato il litorale pugliese. Anche in Italia la situazione appariva tutt’altro che tranquilla: nel 1482 la Serenissima apriva un nuovo fronte contro gli Estensi, ai quali riusciva a strappare il Polesine dopo un conflitto aspro e difficile; nel 1487 le sue truppe subivano la rotta di Calliano, presso Rovereto, costringendo la Signoria a rinunciare per sempre a ogni aspirazione sul Trentino. Una congiuntura tanto complessa avrebbe richiesto la mobilitazione di tutte le forze disponibili, ma l’indole, la preparazione culturale, la predisposizione mentale del B. lo sospingevano invece verso un impegno piuttosto teorico che concreto; non era infatti uomo d’azione, ma un intellettuale più a suo agio negli elitari circuiti delle corti che negli animati dibattiti di Palazzo ducale o sui campi di battaglia. Perciò non entrò a far parte del collegio, dove si decideva la politica della Serenissima, accettando invece, nel 1484, una carica giudiziaria di limitato prestigio, quella di “ufficiale alle Rason Vecchie”. Due anni dopo si recava a Bruges, in occasione della elezione di Massimiliano d’Asburgo, figlio dell’imperatore Federico III, a re dei Romani, al quale il B. rivolse una forbita orazione; era l’ambito diplomatico infatti, e non quello politico, il campo nel quale il giovane patrizio avrebbe potuto far meglio valere le proprie doti di dottrina ed eloquenza. Di conseguenza, la missione fiamminga fu seguita dalla legazione presso il duca di Milano, Ludovico il Moro, ove il B. si trattenne dall’aprile 1488 all’agosto del 1489, poi dalla nomina ad ambasciatore a Roma, dove giunse nel maggio 1490, dopo un breve soggiorno a Firenze presso Lorenzo il Magnifico. La sua fama gli consentiva infatti di allacciare contatti di alta levatura, poiché era considerato uno dei massimi esperti della filosofia aristotelica, cui aveva continuato a dedicare traduzioni, commenti, interpretazioni filologiche, come le Adnotationes in Analyticos priores e il Compendium scientiae naturalis ex Aristotele, entrambe stese nel 1484. Ancora, sia a Padova sia nella sua casa a Venezia aveva tenuto lezioni sull’amato Aristotele, quasi una sorta di preparazione in vista di quella grandiosa summa ch’egli andava concependo sull’intera opera dello stagirita. Nella raffinata corte pontificia, nella città dove la lezione dei classici era presente con la suggestione dell’immagine, il B. trovò l’ambiente che più gli era congeniale, e dove riuscì a portare a termine un nuovo trattato didattico-programmatico: il De officio legati, ultimato nella primavera del 1491. L’opera consiste nel ritratto ideale dell’ambasciatore, che deve rappresentare all’estero la patria non solo con l’abilità politica, la dedizione al servizio, l’intuizione psicologica, ma anche fornendo di sé un’immagine che rifletta la nobiltà interiore dell’animo, attraverso la naturale eleganza del tratto, il decoro del gesto e del contegno, armoniose manifestazioni di interiori doti morali e intellettuali. Con il De officio legati l’umanesimo veneziano tocca una delle sue più alte espressioni, in grado di conciliare assieme dovere politico, cultura, moralità, religione; in questo percorso di pedagogia estetizzante il B. seppe dare il meglio di sé. L’implicita contraddizione fra teoria e pratica sarebbe rimasta allo stato potenziale, se con improvvisa decisione, il 6 marzo 1491, papa Innocenzo VIII non avesse conferito al B. la nomina di patriarca di Aquileia, in opposizione al candidato proposto dalla Serenissima, rea di non aver accettato l’elezione di Francesco Cibo, nipote del pontefice. Non era la prima volta, né sarebbe stata l’ultima, che la Santa Sede cooptava le migliori emergenze, strappandole in qualche modo al loro principe naturale: fu così con il B., lo sarebbe stato con un Gasparo Contarini o un Marcantonio da Mula. Senonché le leggi della Serenissima proibivano ai suoi ambasciatori di ricevere doni, titoli o cariche da parte dei sovrani presso i quali operavano; donde l’immediato ordine del senato al B. di rifiutare l’elezione, cui il papa (anzi, i papi, perché l’azione di Innocenzo VIII fu fatta propria anche dal suo successore, Alessandro VI) rispose minacciandolo di scomunica qualora avesse offerto le sue dimissioni. Di questo braccio di ferro veneto-pontificio, motivato prevalentemente dalla reciproca necessità di affermare il proprio prestigio, la vera vittima fu il B.: diviso nell’animo tra la fedeltà alla patria e una sincera coscienza cristiana, cercò invano di rimuovere il grave peso che gli era stato addossato. Alla fine prevalsero le ragioni romane, non rimpatriò come pure gli era stato ordinato e accettò la nomina al patriarcato; naturalmente il Senato lo rimosse dalla carica di ambasciatore e contestualmente gli negò il possesso dei beni temporali. Il B. finì in tal modo per ritrovarsi in una sorta di esilio assai poco dorato, privo di entrate com’era e con il padre ulcerato dal peso di dover mantenere il figlio, stante la sua ben nota avarizia; ne dava notizia al duca Sforza l’ambasciatore milanese Taddeo da Vimercate, annotando che Zaccaria Barbaro «omne cosa sopportava con la patientia et prudentia; se non la spexa faceva in mantenere epso messer Hermolao a Roma». Al B. non rimase che il conforto dell’attività letteraria, tradottasi nell’ultima e più famosa sua opera: le Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam. Poco dopo averla pubblicata, morì di peste, a Roma, nel luglio 1493, senza mai aver posto piede nella sua diocesi.

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Bibliografia

Fondamentale la “voce” curata da Emilio Bigi per il DBI, 6 (1964), 96-99. Si vedano inoltre: E. BARBARO, Epistolae, orationes et carmina, a cura di V. BRANCA, Firenze, Bibliopolis, 1943; L. BANFI, E. B., Venezia e il Patriarcato di Aquileia, «Nuova Antologia», 91 (1956), 426; V. BRANCA, E. B. e l’Umanesimo veneziano, in Umanesimo europeo e Umanesimo veneziano, a cura dello stesso, Firenze, Olschki, 1963, 193-212; E. BARBARO, De coelibatu - De officio legati, a cura di V. BRANCA, Firenze, Olschki, 1969; cfr. infine, nel volume miscellaneo Una famiglia veneziana nella storia: i Barbaro. Atti del convegno di studi in occasione del quinto centenario della morte dell’umanista Ermolao (Venezia, 4-6 novembre 1993), a cura di M. MARANGONI - M. PASTORE STOCCHI, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 1996, l’Indice dei nomi, e in particolare i contributi di G. GULLINO, Genealogia e patrimonio dei Barbaro umanisti e patriarchi di Aquileia, 68-69, 92, 95; M. PASTORE STOCCHI, E. B. e la geografia, ivi, 101-116; V. FERA, Poliziano, E. B. e Plinio, ivi, 193-234; J-C. MARGOLIN, Sur la conception humaniste du “Barbare”: à propos de la controverse epistolaire entre Pic de la Mirandole et E. B., ivi, 235-276; L. PANIZZA, E. B. e Pico della Mirandola tra retorica e dialettica: il De genere dicendi philosophorum del 1485, ivi, 277-330; P.H. LABALME, Secular and sacred Heroes: E. B. on worldly Honor, ivi, 331-344; B. FIGLIUOLO, Il diplomatico è trattatista. Ermolao Barbaro ambasciatore della Serenissima, Napoli, Guida, 1999; C. GRIGGIO, Postilla sul codice Marc. Gr. IV 53: un Aristotele di Crisolora, Roberto de’ Rossi, Francesco ed Ermolao Barbaro, in Suave mari magno… Studi offerti dai colleghi udinesi a Ernesto Berti, Udine, Forum, 2008, 141-149.

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