DE PIERO ANTONIO

DE PIERO ANTONIO (1875 - 1947)

memorialista

Emigrante, D. P. (Cordenons, Pordenone, 1875Staten Island, New York, 1947) lascia la traccia di uno scritto autobiografico, L’isola della quarantina, uno scritto segnato dagli affanni del cosiddetto italiano popolare, specchio ad ogni modo della «grande battaglia che è la vita». La vicenda si svolge tra la fabbrica nei pressi di casa (e una scuola sacrificata), i Paesi dell’Europa centrale, il Canada, gli Stati Uniti. Le memorie sono stese, un blocco compatto, nel 1922, a Hoffman Island, L’isola della quarantina appunto. La pubblicistica antiinterventista (D. P. evita la guerra) fornisce tessere come «continue lotte cruenti», «ferro micidiale», «infame conflitto», «ira nemica» (e ai giornali andranno addebitate le «strepitose vittorie»). Ma l’iter scolastico, corto, non può essere da solo responsabile del lessico non feriale, della elazione, e si deve supporre il piacere privato della lettura (e non della sola stampa periodica): sintagmi come «dorata luce», «tetri pensieri», «titanici palazzi detti gratanuvole», metafore come «bianche farfalle» (fiocchi di neve), «pini fioriti di neve», similitudini come «lanternine come fuochi fatui overo luciole» (si badi: all’interno della miniera), il gusto assaporato della notazione atmosferica («era una sera brutale sotto una piogerella d’autuno…», «Era una mattina griggia uggiosa d’una nebbia densa…», «Era un bel mattino sereno il cielo…»). Dove la ridondanza è frutto anche di una singolare “plenitudo cordis”: «Quanta poesia in questo mondo…». Affiorano prestiti come «fatoria», per fabbrica, «managiere», per «manager» (nel caso direttore dei lavori), accanto ai più ovvi «orait» (per «all right»), «yeser» (per «yes, sir»). D. P. documenta bene la malattia del mattone, la casa costruita con le proprie mani, senza farsi inghiottire dai debiti: «Io intanto lavoravo a tutta buona volontà ed avevo comperato un pezzo di terreno per fabricarsi la casa che mi stava tanto a cuore e volendo fabricarla a modo mio un po’ alla volta per non agruparsi tanto ai debiti che m’anno fatto sempre paura…». Documenta anche, senza enfasi, il disagio della famiglia che si divide, della concordia che si spezza: il modello patriarcale (e non solo per la morte del capofamiglia) viene meno. ... leggi Ma il fascino di D. P. sta soprattutto in alcune pagine che fissano immagini ferme del Friuli di un tempo. Come un interno di cucina, immerso nei «nuvoloni di fumo» (un fuoco alimentato «con delle canne di granoturco umide» e «una manata di legna di fascine verdi»), nel «color piombo, denso, che travolgeva tutto al buio, persone e supelettili», nella povertà atroce delle «due tre fetine di polenta» poste sulle bragi «sopra un tre piede per intiepidire ed arrostirle un poco». Risulta nitido lo scenario, la dignità severa che non cancella l’angustia, il rito contenuto dei gesti. Ma non senza capacità di ala. Nel filtro più tardo dell’uomo adulto, dall’archivio dei ricordi, emergono gli occhi del bambino, trepidi e sgranati, al ritorno improvviso del padre (anche lui emigrante, ma con altra professionalità e altro diagramma di destinazioni: il Centro Europa), nel 1883. L’arrivo del padre, la ricerca affannosa nel bagaglio di alcuni pezzetti di formaggio. Un filmato attonito nella miseria che squaderna, nel realismo degli oggetti che estrae via via, dalla «camicia sporca dal coletto tutto scucito» ai «pantaloni sciupati alle ginochia ma buoni per reppezare», da «un pachetto di pezze di tela vecchie ma buone per riparature» alle «mutande, griggie umide ancora dal sudore», un inventario puntuale e oculato, sapiente nel montaggio, nel crescendo dell’attesa, con il premio finale dei «sette pezzettini di formaggio tutti impegolati dal pelo del sacco che con minuta pazienza si poté curarlo bene e potei assagiarlo con un tozzo di polenta fredda». L’anno dopo il padre, l’uomo «sano e robusto», sarebbe rientrato in anticipo, a luglio, colpito da polmonite, un «male che non perdona». Ma nel brano importa l’epilogo, dove la macchia dialettale sigilla la magia di un racconto nei modi della fiaba: «mi sembrava di gustare sucherini, sapeva di tutti i gusti che si possa imaginare e che mai scorderò». Memoria incantata, ma se ne può ricavare, forse forzando, una lezione complessiva, la saggezza di una morale: anche la vita agra (a dispetto e magari in ragione del suo essere agra) riserva alla fine il suo compenso, i suoi «sucherini».

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Bibliografia

A. DE PIERO, L’isola della quarantina. Le avventure di un manovale friulano nei primi decenni delle grandi emigrazioni, Introduzione di C. Ginzburg, Firenze, Giunti, 1994.

C. MARCATO, Friuli Venezia Giulia, Roma-Bari, Laterza, 2001, 66, 69-70 (e passim fino a 80); PELLEGRINI, La cultura, 1047-1048.

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