MARIUZZA FIORINDO

MARIUZZA FIORINDO (1766 - 1841)

poeta popolare, domestico, calzolaio, contadino

I registri parrocchiali di Campoformido (Udine) forniscono estremi anagrafici certi: Floreano Dionisio (nei versi è costante la forma Fiorindo), battezzato il 1° dicembre 1766 (era nato la sera precedente da Giovanni Gioseffo e da Lucia Bernardinis), morì il 19 agosto 1841 di «reuma di petto». Una esistenza anonima, ove non fosse l’aura di poeta che la circonda. E torna opportuno il medaglione di Vincenzo Joppi: «Nella sua gioventù Florendo, unitamente a Secondo, suo fratello minore, passò a Roma alcuni anni, entrambi occupati quali domestici in nobili famiglie. Dotati di pronto ingegno, da soli si educarono ed impararono la pratica del mondo, di più presero amore alla lettura ed alla musica, apprendendo a suonare il mandolino e la chitarra. Florendo, essendo in Roma, nel 1793 cominciò a dar saggio di saper scrivere versi con alcuni Sonetti italiani contro l’invasione francese. Ritornati i due fratelli nel 1793 al nativo villaggio vi fissarono stabile dimora, attendendo alla coltivazione di pochi campi ed al mestiere del calzolaio. Erano essi di bell’aspetto, di umore allegro, motteggiatori arguti, amanti del buon vino e della buona tavola, e quindi sempre ospiti graditi in ogni occasione. In Campoformido e nelle ville vicine non v’era sagra, baldoria, ballo, mascherata, ove i fratelli Mariuzza non fossero chiamati a rallegrare col loro spirito, colle loro burle e colle allegre canzoni friulane che accompagnavano coi loro strumenti…». Dove il soggiorno romano si carica di responsabilità cruciali, ma nulla si sa della formazione, della spinta alla scrittura, e la stessa carriera di poeta popolare, che comunque convive con l’umiltà dei mestieri esercitati (calzolaio e contadino), resta come sospesa: mitica e senza riscontri. ... leggi Al medaglione di Joppi ben poco si è aggiunto in seguito: a M. si è attribuito il possesso del “libro del comando”, si sono attribuite virtù magiche (o forse ipnotiche), che hanno rincalzato i tratti favolosi del personaggio. Nei versi peraltro affiorano rivoli di vita paesana: come la presenza non edificante (e stigmatizzata) di una donna dalla condotta non castigata. Affiorano anche, stringenti e suggestivi, scampoli del costume, come il dono di uno spillo da testa come pegno d’amore: «Za si rauardares dal zurament / quant che us chiattai bel sole là in taviele. / Tal miez si prometterin d’un forment / e, biel zurant, mi deris le guselle, / che se giavaris anzi fur des strezzes…» [Già vi ricorderete del giuramento / quando vi trovai da sola là in campagna. / Nel mezzo di un frumento ci promettemmo / e, giurando, mi deste lo spillo, che anzi vi toglieste dalle trecce…]. Il ritmo circolare delle stagioni si presta allo stereotipo, ma non cristallizzato è il calendario dei lavori estivi. In particolare non convenzionale è l’indugio sulle pannocchie arrostite, con dettagli in presa diretta, nitidi e realistici nel loro snodarsi: «Grant plasè lant alle chiacce / nel vedè chei pastorei / lant queinte ogni bujacce / e jemplant ju lor chiapiei. // Mettin man poi te sachette, / giavin fuur lu lor bursin / e, sentaz su le blanchette, / stan battinte il lazzarin // e di spes tich tich pettante / su le pierre cul laniz, / in fin poi c’al è fumante / e impiat lu fuch tal piz. // Ci dà fuch po alles bujacces, / ci curinte par chei chiamps / e sglovante panoglacces / des pi grandes come lamps. // Poi cusì duquanchg in vore, / ci scortosse e butte a quei, / ci les volte quant ch’è l’ore, / ci menante ju chiapiei. // Mal appene imbrustulades / poi si tachin a sgranà / cun masseles ben uzzades / come i loos tal divorà…» [Gran piacere andando alla caccia / nel vedere quei pastorelli / andare raccogliendo ogni sterco bovino / e riempire i loro cappelli. // Mettono poi la mano in tasca, / tirano fuori il loro borsetto / e, seduti sulla casacca, / stanno a battere l’acciarino // e ripetutamente tic tac a colpire / sulla pietra con l’esca, / fino a che poi è fumante / e acceso il fuoco in punta. // Chi dà fuoco poi allo sterco bovino, / chi correndo per quei campi / e schiantando pannocchioni / dei più grandi come lampi. // Poi così tutti al lavoro, / chi scartoccia e butta a cuocere, / chi li volta quando è l’ora, / chi sventolando i cappelli. // Ma appena abbrustoliti / poi cominciano a sgranare / con mascelle ben affilate / come i lupi nel divorare…]. Più risaputi forse altri fotogrammi: la zucca piena di vino nella calura («Cule coce di vin plene, / fasint prindis e bonprò, / e, sentaz in talle ombrene, / di plui gioldi no si pò…» [Con la zucca piena di vino, / brindando alla salute, / e, seduti all’ombra / di più non si può godere…], la malizia del vento d’inverno, che profila un contatto (o una convergenza) con un sonetto di Gabriele Paciani («c’al è tant cence creance, / chel vintaz al marchie sot / les fantates cun baldance, / par glazaur anchie il verzot…» [ché è tanto senza creanza, / quel ventaccio marcia sotto / le ragazze con baldanza, / per ghiacciare loro anche il sedere…]). L’interesse documentario investe gli usi matrimoniali, asseconda con ritmi indiavolati il gusto del ballo. E per la sapienza di questi versi brevi, a valanga, quasi senza respiro («piccoli capolavori sono le canzoni a danza», D’Aronco), l’interesse non è solo documentario: «Grande fieste, grande fieste / no ulìn fa balante cheste. / […] // Chiapile, strenzile, / tirile, sbruntile, / palpile e bussile, / e menile attor…» [Grande festa, grande festa / vogliamo fare ballando questa. / […] // Prendila, stringila, / tirala, spingila, / palpala e baciala, / e portala intorno…], dove è palese l’acrobazia degli sdruccioli in serie. Va rilevata anche, risvolto non ultimo del virtuosismo, la varietà metrica, che dalla più canonica misura dell’endecasillabo, legato in quartine, nei classici schemi della sesta e ottava rima, in sonetti (anche caudati), trascorre ai più agili ottonari (o settenari): quartine di ottonari a rima alterna, che ricordano le villotte. La rima di regola è perfetta (con una sola deroga: «lastri» [lastrico]: «altri» [altro]), ma non senza smagliature è il computo sillabico. Va sottolineato inoltre il (comunque modesto) plurilinguismo: accanto al friulano, con estemporanea screziatura carnica, dalla dichiarata strategia burlesca, l’italiano e un inserto veneto (proposto come “villotta”, che non assume accezione tecnica, in un quadro che si sbilancia verso la corporalità bassa: «Tignindo su le braghe vi saludo. / Se giavi le chiemese, resti nudo. / E viva, copari, i uh uh uh uh» [Tenendo su le braghe vi saluto. / Se tolgo la camicia, resto nudo. / Evviva, compare, i uh uh uh uh]). Il friulano ad ogni modo chiederebbe una indagine mirata: non dei soli fenomeni più risentiti (il gerundio in –e: «dante» [dando], «maledinte» [maledicendo], «saltante» [saltando], «ulinte» [volendo], l’avverbio «multu» [molto]), il dittongo di «gluet» [inghiotto], «gluetti» [inghiottire], l’imperativo asindetico «sta sint» [sta’ a sentire]), ma dell’intero sistema, a fare luce su qualche oscillazione grafica (la resa della postpalatale) e fonomorfologica (l’alternarsi di «la» e «le» come articolo determinativo femminile singolare). Tra materiali di riporto («candit sen» [candido seno], «fier martiir» [fiero martirio], «grat doloor» [grato dolore], «terrestre paradiis» [paradiso terrestre]), italianismi intatti («dardo», «giglio»), qualche solleticazione grassa («cagadoor» [cacatoio], «cul» [culo], «cojon» [coglione], «miarde» [merda], «scorenzie» [diarrea]), prevalgono le urgenze del comico. Come in questo avvio di predica burlesca: «’L è staat piarduut un mus / e se qualcun lu ves chiatat / lu puarti in sacrestie che al / sarà ristituit al so paron. / In cheste fieste no è nissune / settemane di doveus riuardà. / Mignestrorum non est bonorum sine crodiarum / chest ’l è il Vanzeli de corint zornade» [È stato perduto un asino e se qualcuno lo avesse trovato lo porti in sacrestia che sarà restituito al padrone. In questa festività non c’è nessuna settimana da ricordarvi. La minestra non è buona senza cotica: questo è il Vangelo della giornata corrente]. Dove la figura dell’asino, che in Zorutti avrà rango di emblema, e lo stesso latino maccheronico pongono il problema dei rapporti reciproci (le vicende biografiche di M. e Zorutti si sovrappongono), lo specchio degli scambi, il bilancio del dare e dell’avere, magari trama di coincidenze fortuite, al momento senza soluzione, perché troppo friabile e senza agganci è la cronologia dei versi di M., menestrello delle sagre paesane, privo dei vantaggi della stampa. Ma il ruolo che M. svolge tra Sette e Ottocento è ragguardevole. Con M. la poesia di Ermes di Colloredo, aristocratica per statuto a dispetto dei suoi impasti rustici, si fa repertorio di piazza. Nel “corpus” di Colloredo M. privilegia il filone del contrasto, teatralmente redditizio: la “performance” a due voci (in coppia con il fratello) con gag e relativi istrionismi, la suggestione del canto sono ingredienti primari dello spettacolo. I titoli accertano la pratica larga del genere, ma sembra postulare un vero e proprio omaggio la Confession fatte di une femine chgitine [Confessione fatta da una chietina]. Lo scambio tra la falsa devota e il prete incastona un prestito chiaro (da altra composizione), «dutte contride e cun un cuur dolent» [tutta contrita e con un cuore dolente], ma la chietina di Colloredo non risulta nei due tomi Murero del 1785, la fonte più accessibile per M. (il circuito delle raccolte manoscritte si direbbe più limitato ed elitario). Il paradigma di Colloredo è vincolante per il tema, pure topico, dei consigli matrimoniali: Lu consei al matrimoni [Il consiglio al matrimonio], dove si legge «al cont Ermes i uei contradì» [al conte Ermes voglio oppormi], Disprezzo al matrimonio, Fiorindo consiglia il fratello al matrimonio e Secondo suo fratello risponde, dove è agevole osservare come il contatto non costringa al ricalco e abbia sviluppi propri. Echi del modello si possono cogliere in tessere più minute: come in «Nassei puarin sul zovin dalle lune» [Nacqui poverino con la luna nuova], che di Colloredo rimodula «nassut nell’an bisest / sul colm de lune» [nato nell’anno bisestile / con la luna piena], in un fascio di indizi infausti. E nella stessa perizia retorica, ostentata e plateale, dove l’oltranza dell’accumulo si dà come saggio di ricchezza e abilità: nei bisticci sonori, nei lamenti e nelle profferte d’amore che fondano la loro ragion d’essere sulla protrazione («Jo no gusti, io no ceni, / io no duar un sol moment, / io singlozi e vai e peni, / mi è l’amor un fier torment…» [Io non pranzo, io non ceno, / io non dormo un solo istante, / io singhiozzo e piango e peno, / mi è l’amore un fiero tormento…]), nella anafora battente («Veso vidut vo mai cence aghe un poz, / veso vidut vo mai cenz’arbe un prat, / veso vidut vo mai cenze aas un boz?…» [Avete mai visto un pozzo senza acqua, / avete mai visto un prato senza erba, / avete mai visto una arnia senza api?…], a intrecciarsi con il dispositivo dell’adynaton. Il segno della tradizione è evidente, ma non manca qualche spia delle inquietudini contemporanee, come nel Contrast tra il contadin e il zentilom [Contrasto tra il contadino e il gentiluomo]: «dug uniz vin fat pinsir / ai sioraz di faure bielle, / ch’àn di là dug cul carnir // la limuesine cerinte / là di dug iu contadins…» [tutti uniti abbiamo deciso / di farla bella ai signoroni, / che devono andare tutti con il sacchetto / a cercare l’elemosina da tutti i contadini…]. L’aspirazione a un diverso ordine sociale si risolve però in una codificata immagine di mondo alla rovescia ed è sufficiente un bicchiere di vino per assorbire il cenno di protesta. Le fortune a stampa di M. sono postume: testi suoi appaiono in «Pagine friulane», nella prima, terza e quarta annata, e a procurarli al periodico è la solerzia di Vincenzo Joppi. Un componimento è ammesso da Bindo Chiurlo nella sua antologia e su M. interviene la più avvertita filologia di Giovan Battista Corgnali, ma si devono a Gianfranco D’Aronco cure sistematiche. D’Aronco nella sua edizione diplomatica nega al manoscritto conservato dagli eredi (che Chiurlo e Corgnali considerano “originale”) lo status di autografo, con il sostegno (non dirimente) di alcune improprietà e oscillazioni grafiche, di carenze nella punteggiatura. Il manoscritto registra isolati pentimenti, negligenze diffuse, testi (o brani di testi) cassati, altri testi (anche solo in parte) ripetuti, e ha subito censure che ne hanno alterato la fisionomia, ma si direbbe brogliaccio cresciuto nel tempo, con una patologia compatibile con l’autografo. Dei versi ha tratto copia Joppi e D’Aronco nell’apparato ha modo di fissare le varianti, che sono numerose, ma di norma adiafore. L’inaffidabilità di Joppi è nota, alla sua approssimazione ha reagito con proverbiale inclemenza lo stesso Ascoli, ma Joppi per i versi di M. ha avuto modo di servirsi anche di «altra copia più recente» (per la Canzone sull’aria della Monferrina, presumibilmente di larga fortuna, magari affidata a fogli volanti). In un unico caso, «Dies ille dies ille», copre una lacuna (sei terzine) del manoscritto chiave, che depenna anche il segmento che riporta: un esempio di “parodia sacra”, evidentemente giudicata irriguardosa (non è reale per contro la lacuna delle prime cinque ottave di Disprez al matrimoni, che il manoscritto chiave riferisce). La copia Joppi non si può dunque considerare “descritta”, ma le sue varianti formali sono senza peso: un ingombro.

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Bibliografia

Presso gli eredi di Basagliapenta il manoscritto che si è avuto modo di analizzare in fotocopia, fornita dalla cortesia di Gianni Nazzi. La copia di Joppi in ms BCU, Joppi, 160.

Dôs poesiis di Florendo Mariuzza - Il Carnevâl - Dal Istât, a cura [e con premessa] di G.B. CORGNALI, «Il strolic furlan pal 1945», 30-42; Canzonetta macaronica in villotta, a cura [e con premessa] di G.B. C[ORGNALI], per nozze Giovanna Carletti-Pietro Benigno, Udine, AGF, 1945 (poi in G.B. CORGNALI, Scritti, a cura di G. PERUSINI, Udine, SFF, 1968, 109-111); Ué ’e jèfieste, ué ’e jè fieste…, in Villotte e canti popolari del Friuli, a cura di L. CICERI, Udine, SFF, 1966, 21; Canzonetes par furlan, a cura di G. D’ARONCO, Presentazione di P. Fontanini, Udine, La Nuova Base, 1997, che assorbe i precedenti contributi di D’ARONCO, Cinque zingaresche di Fiorindo Mariuzza, «Ce fastu?», 62 (1986), 237-282, e Canzonetes par furlan, «Lares», 62/1 (1996), 46-93.

DBF, 495; [V.] J[OPPI], Un ignoto poeta popolare friulano, «Pagine friulane», 1/2 (1888), 23-24; L. G[REATTI], Ancora di Florendo e Secondo Mariuzza, ibid., 1/3 (1888), 35-36; CHIURLO, Antologia, 231-232; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 18-19; D. ZANNIER, Florendo Mariuzza e una precisazione linguistica, «La Panarie», n.s., 6/2 (1973), 64-65; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 249-251.

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