ALENÇON (D’) FILIPPO

ALENÇON (D’) FILIPPO (1338 - 1397)

patriarca d'Aquileia

Immagine del soggetto

Denaro di Filippo d'Alençon: al dritto lo scudo dei duchi d'Alençon, cioè quello di Francia e al rovescio l'aquila (coll. privata).

Nacque nel 1338-1339 dal secondo matrimonio di Carlo II di Valois, detto il Magnanimo, conte di Alençon e di Perche, con Maria de la Cerda; apparteneva perciò alla più alta nobiltà europea in quanto il nonno di suo padre era re Filippo III di Francia, il bisnonno di sua madre era re Alfonso X di Castiglia e Leon. Da padrino di battesimo funse il sovrano reggente Filippo VI fratello di suo padre. La posizione elevata della famiglia è testimoniata dal fatto che il fratello maggiore Carlo III divenne arcivescovo di Lione, scegliendo la vita ecclesiastica dopo un periodo in cui aveva amministrato i beni lasciati dal padre († 1346). Perciò l’A. dovette dividere, nel 1367, il patrimonio ereditato fra i due fratelli cadetti Pierre e Robert. Evidentemente egli non aveva mai dimenticato la propria illustrissima discendenza; lo dimostrano già le prime parole dell’iscrizione funebre: FRANCORUM GENITUS REGUM DE STIRPE PHILIPPUS ALENCONIADES. Il re Giovanni II suo cugino di primo grado lo indirizzò alla vita clericale e lo favorì tanto che l’A. appena diciassettenne, o ancora nel diciassettesimo anno, ottenne il vescovado di Beauvais, conferitogli da Innocenzo VI l’8 giugno 1356. Non avendo ancora raggiunto l’età canonica dovette nominare un amministratore e non poté ricevere la consacrazione episcopale. Ne era ancora privo quando il 3 luglio 1359 il papa lo trasferì alla sede arcivescovile di Rouen, una delle più ricche della cristianità occidentale, con entrate annue della mensa stimate 36.000 fiorini. Suo nipote, il delfino Carlo, non tardò a confermare tutti i diritti dell’arcivescovado, mentre il re lo nominò suo luogotenente nella Normandia. Ma da lì a non molto cominciò una serie di aspri dissidi col potere secolare. Quando nel 1364 gli officiali statali arrestarono uno degli uomini dell’arcivescovo, quest’ultimo pubblicò una sentenza di scomunica contro il balì di Rouen. ... leggi Il nipote, divenuto nel frattempo re Carlo V, nel 1365 o 1366 dovette intervenire per ottenere la revoca delle censure. Ma lo stato di apparente tranquillità non durò a lungo. Nel 1369 l’A. fece ripristinare con editto sinodale la norma canonica che vietava ai giudici secolari di occuparsi di casi in cui erano coinvolti ecclesiastici. Di conseguenza l’anno dopo, quando un chierico, benché sposato, fu condannato a morte, l’arcivescovo si oppose fieramente provocando un duro scontro con le autorità statali. Furono comminate sentenze di interdetto e di scomunica, mentre il parlamento di Parigi ne ordinò la revoca sotto pena della confisca del patrimonio arcivescovile. Un accordo fu raggiunto nel 1371, ma solo un anno più tardi la lite scoppiò di nuovo. L’A. fece nuovamente ricorso alle pene ecclesiastiche già comminate in precedenza: il balì, la sua famiglia e i suoi officiali furono dichiarati pubblicamente scomunicati; il parlamento da parte sua il 13 aprile 1373 giudicò colpevole il prelato e fece sequestrare i suoi beni temporali finché non avesse revocato le censure e pagato per i danni. L’A. non volle cedere neppure ai suggerimenti dello stesso re, nonostante tutta una serie di interventi anche di papa Gregorio XI, che da un lato esprimeva preoccupazioni riguardo alla tutela della libertà ecclesiastica contro le pretese del potere secolare e dall’altro ammoniva l’A. di comportarsi con la dovuta umiltà e moderazione (19 aprile, 8 luglio 1373). Il prelato si recò personalmente presso la curia papale ad Avignone, al più tardi verso la fine del 1374. Si accordò inoltre segretamente con re Carlo II di Navarra, pronipote di re Filippo III come lui stesso, ma allora nemico del re di Francia. Il conflitto si risolse con l’allontanamento del prelato, chiaro indizio della sua sconfitta. Anche il papa, che inizialmente con lettera del 4 giugno 1374 si era opposto, dovette adeguarsi: il 27 agosto 1375 gli tolse Rouen conferendogli il patriarcato latino di Gerusalemme; inoltre, per compensare l’esiguità delle entrate connesse a questo titolo, gli assegnò l’amministrazione dell’arcivescovado di Auch (con una rendita annua di circa 30.000 fiorini). Si arrivò quindi a una riconciliazione dell’A. con Carlo V, favorita dallo stesso papa. Il re fece persino il tentativo di procurare già allora allo zio il patriarcato di Aquileia, suggerendo l’elevazione al cardinalato di Marquardo di Randeck. Gregorio XI respinse tuttavia questa proposta con lettera del 12 dicembre 1377, sottolineando come per salvaguardare con efficacia i diritti del patriarcato, il governo della Chiesa aquileiese, in considerazione dell’estensione del suo patrimonio temporale, circondato ai confini «de grans seigneurs et d’autres tirans», doveva restare nelle mani di un prelato proveniente dallo stesso paese «et bien poissant et qui y residast personelment, continuelment et poissamment». Successore di Gregorio XI divenne l’8 aprile 1378 Urbano VI, che però nei mesi successivi fu abbandonato da tutti i suoi cardinali, i quali ne dichiararono nulla l’elezione. Il papa reagì il 18 settembre dello stesso anno con la creazione di ben 25 nuovi cardinali, fra i quali si annovera anche l’A. Motivo di questa scelta poteva essere il desiderio di Urbano di guadagnare l’appoggio del re di Francia nella lotta ormai inevitabile col partito opposto. Infatti con l’elezione di Clemente VII il 20 settembre 1378 scoppiò il grande scisma d’Occidente. Pare che l’A. solo allora si sia recato in Italia, arrivando il 9 gennaio 1379 a Pisa prima di proseguire per Roma. Qui il cardinale ricevette il titolo presbiterale di S. Maria di Trastevere e poco dopo, prima del giugno 1380, fu promosso al vescovado suburbicario di S. Sabina. Sul fronte opposto i cardinali dell’obbedienza avignonese cominciarono già nel gennaio 1379 a fargli sottrarre i suoi beni in Provenza, mentre Clemente VII il 20 maggio gli tolse l’arcivescovado di Auch. Poco dopo l’A. fu inviato da Urbano VI, probabilmente nel marzo del 1379, in Fiandra e in Inghilterra come legato pontificio. Dopo il suo ritorno svolse per qualche tempo la funzione di vicario generale del Patrimonio di San Pietro in Tuscia e del Ducato di Spoleto, ma il 15 agosto 1380 il papa, noto per decisioni improvvise e a volte incomprensibili, gli tolse questa carica per punire un atto di disubbidienza non specificato. Ciò non escludeva che di là a poco il pontefice riconoscesse le capacità dell’A. nominandolo amministratore “in spiritualibus et temporalibus” del patriarcato di Aquileia l’11 febbraio 1381, un mese dopo la morte di Marquardo di Randeck. Si trattava del beneficio ecclesiastico più ricco d’Italia, con entrate annue stimate 30.000 fiorini secondo i calcoli ufficiali della Camera apostolica, ma c’era chi stimava che ammontassero perfino al doppio. La notizia della nomina del patriarca si diffuse a Udine il 20 marzo. Il nuovo signore del Friuli era un prelato che aveva dato ampie prove di difendere a oltranza, nei confronti dei poteri secolari, i diritti della Chiesa. Secondo il giudizio del cronista Perceval de Cagny l’A. era deciso a morire per difendere i diritti della Chiesa, piuttosto che vivere rinunciando ad essi. Da Pisa scrisse personalmente il 23 marzo ai reggenti di Udine, per annunciare la sua venuta e chiedere sostegno per la conservazione della Chiesa di Aquileia. Però vane risultarono le sue speranze di essere accolto pacificamente. I suoi inviati, venuti con l’incarico di prendere possesso del patriarcato, comunicarono ai Friulani, riuniti in parlamento a Cividale il 26 maggio, che il patriarca era disposto a risiedere nella Patria fino alla morte, ad amministrare il patriarcato, quindi il Friuli, secondo le antiche consuetudini e a rispettare i diritti di ognuno. I rappresentanti del clero accettarono tali proposte, mentre quelli delle comunità e dei nobili decisero a maggioranza di inviare subito al papa un’ambasciata con la richiesta di mandar loro «verum patriarcham» al posto di quello appena nominato. Intanto l’A. si stava avvicinando al Friuli. Arrivò l’11 luglio a Padova, proseguì per Sacile, Spilimbergo, San Daniele, Fagagna. Convocò una seduta del parlamento a Cividale, un’altra a Gemona il 15 agosto; ascoltò quindi la relazione degli inviati al papa ritornati senza successo. In seguito una parte del Friuli, capeggiata dal comune di Cividale, riconobbe il patriarca e il capitolo aquileiese lo accettò il 3 agosto. Continuava invece a opporsi soprattutto il comune di Udine che già il 30 giugno comunicò al papa di non voler riconoscere l’A., e non diede seguito alla risposta di Urbano VI del 13 luglio che imponeva l’obbedienza. Udine si era fatta portavoce di una parte notevole del Friuli, che pare sia cresciuta ancora durante l’estate del 1381. Nella Patria si sviluppò una situazione di estrema conflittualità. Secondo il racconto dei cronisti coevi agli oppositori non bastava che l’A. avesse affermato la sua disponibilità nei confronti di tutti; essi chiedevano un “verus dominus et patriarcha”, non un amministratore il cui governo era considerato contrario alle tradizioni del patriarcato, mai dato in precedenza “in commendam”, e domandavano che egli rinunciasse almeno al cappello cardinalizio contentandosi di portare soltanto il “baculum pastoralem ecclesiae Aquilegensis”. Al patriarca nuoceva in particolare il doppio titolo di cardinale vescovo di S. Sabina e amministratore di Aquileia che compariva sempre nei documenti. Sorprende che entrambe le parti fossero concordi nel ritenere loro scopo principale la difesa della libertà del patriarcato. Fin dal 30 settembre 1381 l’A. prese delle contromisure infliggendo l’interdetto contro Udine e altre comunità. È evidente che egli non poteva stabilire la residenza nel capoluogo del Friuli, come i patriarchi erano soliti fare già da molto tempo; dovette invece ritirarsi a Cividale dove si fermò “in patriarchali palatio” dal 1381 fino al luglio 1385, soggiorno interrotto, come pare, solo da brevi viaggi in altri luoghi di Friuli e da una prolungata sosta, dall’ottobre 1383 fino l’anno seguente, presso la corte della regina d’Ungheria Elisabetta vedova di re Luigi il Grande e allora reggente per sua figlia Maria. Il re defunto fin dal 1381 aveva sostenuto il partito dell’A. Invano Urbano VI con lettere e ambasciate tentò di ridurre gli oppositori all’obbedienza. Nel luglio 1383 un mandato papale diretto al patriarca di Grado e al vescovo di Bergamo comunicava le censure ecclesiastiche contro i ribelli, che costituivano ormai la netta maggioranza dei Friulani. Alcune potenze vicine, oltre alla suddetta regina madre, soprattutto la Repubblica di Venezia e il signore di Padova Francesco il Vecchio da Carrara, si offrirono come mediatori nel conflitto interno del Friuli. All’inizio del 1384, durante l’assenza dell’A., ancora il 3 maggio attestato a Cilli, si verificarono alcuni periodi di tregua tra Udine e Cividale con i rispettivi alleati. Il Carrarese però cominciava a prepararsi per un intervento. Da un lato offrì al patriarca un’offensiva militare contro i suoi nemici e l’enorme somma di 35.000 fiorini per ottenere che egli nominasse Conte, suo figlio naturale, vicario del patriarcato e si prodigasse per ottenergli la successione alla cattedra aquileiese, come testimonia il resoconto fatto al governo veneziano da Urbano da Frignano patriarca di Grado. Dall’altro lato il Carrarese accettò l’impegno di emettere una sentenza arbitrale tra l’A., Cividale e Udine che fu pubblicata il 31 luglio a favore del patriarca. Il comune di Udine accettò, dichiarando tuttavia fedeltà al patriarca il 6 agosto, di farlo sotto la minaccia delle truppe padovane «in multitudine ad destructionem in Patria trasmissarum». Due giorni dopo l’A. entrò nel capoluogo e il 9 agosto furono revocate le censure ecclesiastiche. Nel frattempo Urbano VI nominò il patriarca di Grado come vicario generale del patriarcato. Urbano da Frignano convocò il 20 luglio 1384 da Udine il parlamento friulano. Nel frattempo circolavano voci su una prossima partenza dell’A. che rimaneva a Cividale. All’inizio del 1385 la maggior parte dei Friulani, con l’appoggio di Venezia, si riunì in lega contro il Carrarese dichiarando con ciò di tutelare, oltre ai propri interessi, la libertà della Patria e della Chiesa di Aquileia. Il patriarca, pur sollecitato ad aderire per porre fine ai conflitti interni, preferiva far valere la sentenza arbitrale dell’anno precedente che gli alleati cercavano di svigorire. La situazione s’aggravò quando il Padovano, nella primavera del 1385, passò i confini del Friuli. Le sue truppe e quelle patriarcali si mossero contro le milizie dei collegati, che a loro volta occuparono Gemona. Sembrava che tutti si fossero preparati per la guerra aperta. In Friuli si diffondeva l’opinione che in realtà il signore della loro terra non fosse più il patriarca, bensì il Carrarese: da ciò la convinzione che non sarebbe stato possibile trovare una soluzione alla crisi senza che si fosse allontanato l’A. Il patriarca stesso, ritenendo troppo pericolosa la situazione, fuggì poco prima del 21 luglio 1385; «recessit ita occulte et subito de Civitate […] ex timore persone sue», come un suo ambasciatore espose ai reggenti di Venezia, e si affidò alla protezione di Francesco da Carrara. Da luogo sicuro annunciò nuove pene ecclesiastiche e secolari contro gli Udinesi e i loro alleati, promulgando il 30 agosto sentenze di scomunica, di interdetto e di privazione di feudi. Il 9 settembre egli poté ritornare, quando le truppe padovane si accinsero all’invasione del Friuli; ma poco dopo i collegati riuscirono ad avere il sopravvento sui sostenitori del patriarca, che si vide costretto alla partenza: lo troviamo a Padova il 21 novembre. Fu questa per Francesco da Carrara l’ultima occasione per approfittare dei suoi ottimi rapporti coll’A. che gli conferì l’avvocazia della Chiesa aquileiese, togliendola ai conti di Gorizia, e gli diede l’investitura feudale di Portogruaro, San Vito e alcuni castelli. Gli Udinesi nel frattempo avevano mandato i loro ambasciatori al papa per chiedere non solo la revoca delle censure inflitte dal patriarca, ma anche la sua sostituzione. Urbano VI reagì col solo invio di un altro vicario, Ferdinando patriarca di Gerusalemme, che si sottoscrisse «auctoritate apostolica Aquilegensis Ecclesie et patrie Foriiulii rector necnon defensor et gubernator»; egli aveva soprattutto il compito di metter fine al “paricidiale bellum” che infuriava in Friuli. Questo fu il risultato a cui arrivarono le lotte intestine e l’azione di governo di un patriarca che secondo il Paschini fu «uno dei più infausti per il Friuli». Dopo la sua partenza l’A. non mise più piede in Friuli, anche se si trattenne nelle vicinanze, forse sorretto dalla speranza di poter ritornare. È attestata la sua presenza a Monselice nel gennaio, febbraio e ottobre del 1386. In seguito si recò presso la curia pontificia, a Genova, dove lo troviamo nel novembre, ancora con il titolo di amministratore del patriarcato; quindi seguì il papa nel suo viaggio a Lucca. Lì, il 3 maggio 1387, è menzionato col solo titolo cardinalizio, mentre sei giorni più tardi compare come titolare di Ostia. Il trasferimento nella sede, che soleva essere occupata dal decano del collegio cardinalizio, può essere inteso come ricompensa per la perdita del patriarcato, benché la nomina del successore, Giovanni di Moravia, si sia realizzata solo il 27 novembre dello stesso anno. Urbano VI, come riferì un ambasciatore veneziano presso la curia, era spinto dal desiderio di liberare il Friuli, quando il 9 maggio 1387 a Lucca conferì all’A. l’incarico di legato della sede apostolica nei regni di Francia, Boemia e Navarra, Danimarca, Svezia e Norvegia, oltre che in Germania, Fiandre, Liegi, Hainaut e Lorena e infine nel ducato di Bar-le-Duc. Lo scopo principale pare fosse la necessità di ottenere nell’Impero e nei paesi limitrofi l’adesione al papa romano, contro le pretese dell’avversario avignonese. Da notizie sparse sappiamo che il legato fece il suo viaggio attraverso l’Austria (verso giugno) a Strasburgo, Heidelberg (dicembre-febbraio), Worms (marzo), probabilmente proseguì fino a Liegi, poi passò per Würzburg, Amberg, Cheb (Eger) e si trattenne a Praga, nella residenza di Venceslao re di Germania e di Boemia (agosto – ottobre), soggiornò a lungo a Erfurt (novembre 1388 – maggio 1389), da dove caldeggiò presso il papa la concessione del privilegio richiesto per la fondazione dell’Università, e si recò di nuovo a Worms nell’ottobre. Non poté partecipare al conclave dopo la morte di Urbano VI, avvenuta il 15 ottobre 1389. Nel viaggio di ritorno l’A. giunse il 24 gennaio 1390 a Bologna e solo il 4 marzo arrivò in curia. A Roma l’A. trovò dimora presso la chiesa di S. Maria di Trastevere, la cui amministrazione gli era stata conferita dal papa forse già al momento della promozione a vescovo di S. Sabina. Non si sa molto della sua attività negli anni successivi. Il 7 ottobre 1391 assisté papa Bonifacio IX nella cerimonia della canonizzazione di Brigida di Svezia. Nel 1394 e 1395 diresse lettere all’Università di Parigi, ritenuta quasi la suprema autorità teologica e morale durante il grande scisma, nel tentativo di trarla dalla parte del papa romano, ma senza successo. Finalmente l’11 agosto 1397, dettò e sigillò le sue ultime volontà grazie a una “licentia testandi” concessagli dal papa il 1° luglio 1396: «apud Sanctam Mariam in Transtiberim in palatio nostro ibidem», seduto sulla sua “cathedra” nella sala da pranzo. Istituì eredi universali il fratello Pierre conte di Alençon e Jean conte di Perche, figlio del defunto fratello Robert, di tutti i suoi beni nel regno di Francia. I beni mobili invece avrebbero dovuto essere utilizzati a giudizio degli esecutori, fra i quali spicca il cardinale fiorentino Angelo Acciaiuoli, per le spese della sepoltura, per le esequie, per messe e per elemosine da distribuirsi ai poveri e a luoghi pii, per uno o più anniversari, tutto a sollievo dell’anima del testatore. L’A. morì a Roma il 14 agosto 1397 (giorno più probabile del 16, indicato in alcune fonti). Era stato un uomo di alta cultura come dimostra l’inventario rimasto dei suoi libri, risalente al 1368: oltre a volumi liturgici e opere teologiche c’è un buon numero di “libri naturalis philosophie”, la netta maggioranza dei ben 128 titoli si riferisce al diritto sia canonico sia civile. Voci contemporanee attribuiscono all’A. una vita assai santa, quantunque si possa ritenere che la maggioranza dei friulani non sarebbe stata d’accordo su questo parere. Si racconta che prima e dopo il suo trapasso si siano verificati molti miracoli attorno a lui nella chiesa di S. Maria di Trastevere dove ancor oggi si ammira il suo monumento sepolcrale.

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Bibliografia

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