CAMPANA PACIFICO

CAMPANA PACIFICO (1868 - 1921)

poeta popolare

Immagine del soggetto

Il poeta popolare Pacifico Campana.

Nato a Rodeano (Udine) il 10 agosto 1868, con un curriculum scolastico ridotto ai gradini bassi, il 2 aprile 1902 C. partì per il Canada con la moglie Lucia e la piccola Gemma (C. ebbe cinque figli, ma tre morirono appena nati). Il viaggio si fissa con puntualità in un diario in versi, quartine di ottonari, il metro classico della villotta: Udine ben presto alle spalle, la distesa di acqua e cielo dal bastimento e, ormai quasi a destinazione, le luci favolose di New York. Del 19 aprile l’arrivo a Montreal e poi il cammino verso Sudbury. Saranno ad ogni modo numerose le stazioni alla ricerca (o all’inseguimento) di un lavoro (in miniera, nell’edilizia, nella manutenzione delle ferrovie) e l’arco quasi intero della esistenza di C. si esaurirà in Canada. Nel 1911 «La Patria del Friuli» pubblica un testo che C. ha inviato (un testo sul costituirsi di una banda musicale, nodo – e insieme strumento – di aggregazione), sottolineandone la «semplicità rustica». Ma la scrittura di C. è affidata a un brogliaccio che ne raccoglie, senza un ordine rigoroso, i componimenti, brogliaccio al quale ha attinto la (per ora magra) fortuna, che è tutta postuma. Il rientro in Italia si colloca nel 1920. La morte, del 7 settembre 1921, è registrata nella cronaca nera della «Patria del Friuli», imprecisa nel restituire il nome, ma non nella realtà cruda della notizia: un cadavere «in avanzata putrefazione» rinvenuto «nel Canale Ledra, presso il molino Bertoli, a un paio di chilometri prima di Martignacco», un suicidio attribuito a «intimi dispiaceri famigliari». Nel 1923 di C. ragiona Achille Tellini nel suo «Tesaur de lenghe furlane», per battere sulla corda malinconica, sull’aura cupa, e scorgere in C., per quanto incolta, un’anima non dissimile da quella di Leopardi: «Si trati pu–r di un’ánime inkolte, salvadie, bárbare, grubjane, ma e jè un’ánime zìmule di ke–di Leopardi» [Si tratti pure di un’anima incolta, selvatica, barbara, rustica, ma è un’anima gemella di quella di Leopardi]. Il profilo urta con l’autoritratto che C. allega, nello spazio privilegiato del frontespizio, a Il gran lunari gnuv [Il grande lunario nuovo], un almanacco da situare nel 1920, allestito con la volontà sottesa (e frustrata) della stampa, di un radicamento nella vecchia terra: «Nativ di Rodean / Mandament di San Denel / un ver mataran / an sa di ogni pel / par ridi dut l’ann / Comprailu daurman» [Nativo di Rodeano / mandamento di San Daniele / un vero mattacchione / ne sa di ogni colore / per ridere tutto l’anno / Compratelo subito]. Sul risvolto «mataran» ha insistito Dino Virgili, elevandolo a cifra della personalità di C., per il quale però torna più opportuna la marca della serietà: della serietà dura. ... leggi È la scadenza rituale di fine anno a sollecitare l’esercizio metrico, a partire dal 1908 fino al 1921, in una filiera ininterrotta, con un saluto all’anno che va (e un consuntivo severo, una cronaca che non sembra contemplare l’ottimismo) e un saluto all’anno che viene (con una serie di richieste, di attese). È verosimile la destinazione conviviale, ma non sono evasivi e non sono di maniera gli argomenti toccati: scioperi, scarsità di lavoro, diffidenza per lo straniero, l’insultante «dego» che colpisce appunto l’immigrato. Senza ombra di idillio, pur nella cantabilità di superficie della rima baciata, con l’inevadibile brindisi, che comunque cementa: «cun bire e sgnape, senze vin» [con birra e grappa, senza vino], vino che il Canada non produce ancora. C. parla poco di sé, ma sono secche le parole d’ordine: contro la borghesia, contro il capitale («e fa sì che la zornade / sevi curte e ben paiade / di lavorà sol che vot oris / chi sin rustìs come tes boris / a sta sals tant tal soreli» [e far sì che la giornata / sia corta e ben pagata / lavorare solo otto ore / che siamo arrostiti come nella brace / a stare fermi tanto al sole]), e non mancano gli spunti anticlericali. Nitida è la scelta di C. allo scoppio della guerra. Una guerra deplorata, «macell uman», la cui responsabilità è fatta ricadere sugli imperi centrali, a difesa cieca dell’Italia, della necessità di completare «il confin / da so lenghe e da so tierre / e di ogni so diritt sacrosant» [il confine / della sua lingua e della sua terra / e di ogni suo diritto sacrosanto]. A guerra conclusa affiora, sommessa e insieme pressante, l’urgenza di una amnistia per i renitenti, per coloro che non sono rientrati in patria a combattere. Netta ad ogni modo è l’avversione per il bolscevismo: «il bolscevismo tant orrend / cal sparisci dal moment» [il bolscevismo tanto orrendo / sparisca immediatamente]. Il nesso conviviale viene meno nel 1916, che disegna un quadro più intimo, ma nella morsa della solitudine, «fra miezz il bosc e tante nev» [in mezzo al bosco e a tanta neve]: «Vie pal di soi occupat / a riparà la ferrovie / e la sere dopo cenat / no sai cemut parale vie / i doi une lette al giornal / ca si clame il ‘Progress’…» [Durante il giorno sono impegnato / a riparare la ferrovia / e la sera dopo cenato / non so come passare il tempo / Do una letta al giornale / che si chiama il “Progresso”…]. Una solitudine cui è negato il piccolo conforto dell’alcol che le leggi dell’Ontario hanno proscritto, vietando «licors e birre» [liquori e birra] (il proibizionismo si svilupperà a partire dal 1919: qui è l’economia di guerra a dettarlo), e il brindisi al nuovo anno, il 1917, ripiega tristemente sul «tè chel folc lu trai / fat cull’aghe di fossai» [tè che gli venga un accidente / fatto con l’acqua dei fossi]. Importerebbe una analisi delle lingue. Del friulano in particolare: con le sue stranezze («colosetat», golosità, ma «galigans», calicanti), i suoi prestiti vistosi («pseudonimo», il non ben assimilato «mall’Inconie», maliconia), i suoi lemmi genuini («o volin chienzà il gnuv vin», vogliamo assaggiare il nuovo vino). Ma anche dell’italiano, impiegato non senza affanni: palesi in voci singole (come «Apocrisie», ipocrisia), nella difficoltà di distinzione tra doppie e scempie nella stessa maglia delle rime, che esibisce coppie come «gingilli» e «villi», «fatto» e «incoronato» (e perfino «beglio» [Belgio] e «meglio»). Il repertorio include il latino, di regola in coda ai saluti di fine anno («Montes et Omnes Coles / descendat super te / Et maneat semper / Amen», per saggiare la caratura), include il tedesco, di provenienza giornalistica (e con funzione sarcastica: «deuthces land öber holl»). Più complesso (e va da sé più significativo) è il contatto con l’inglese, che nei nomi propri denuncia qualche esitazione grafica: «loid giorge» (per Lloyd George), «Wuilson» (ma poi Wilson), per tacere della catena dei toponimi (Bauff, Cobalt, Coniston, Copper Clibb, e via via). L’inglese figura in uno scorcio maccheronico: «Nell’ufficio bagagli sono entrato / per far metter al baule la sua cecca», scontrino, tagliando, da «check», «Intanto per primo trovo una bara / e subito dentro mi sono ficcato / per caciar via tutta la smara / due gine e una birra o traccanato», dove si riconoscono bar e gin. Ma si incunea anche nel friulano: con «boss», più scontato, «bechent», addetto al forno (magari di mattoni), da «baker», «plaster», cerotto, «stilplent», fabbrica di acciaio, da «steel» e «plant». La rassegna del 1920, pur non elidendo le prospettive larghe (e il tema sempre cruciale del lavoro), riconduce all’ambito friulano, nel quale si immerge con un filmato delle esondazioni del torrente Corno. Anche l’evviva al 1921 aggancia il contesto locale con le sue osterie: «io i fas une visitine par ostarie / i soi amì dall’allegrie / i voi la di…» [faccio una visitina per ogni osteria / sono amico dell’allegria / vado da…], a ribadire la maschera del «mataran», ma a rincorrere anche una rinnovata rete solidale, che però non regge, che si smaglia e si conclude nella tragedia. Il destino di C. sembra porsi sotto il segno della friabilità: anche la lapide ricordo sulla casa natale, inaugurata a cinquant’anni dalla morte il 14 agosto 1971, è scomparsa con la casa.

Chiudi

Bibliografia

Memoria e Rassegna poetica / di / Tutti i Manoscritti è Traduzioni / fatti di / Campana Pacifico fù Agostino / di / Rodeano Udine Italia / Durante la sua dimora in Canada, manoscritto conservato dagli eredi (in copia fotostatica presso la Clape culturâl Acuilee di Udine, alla quale si attinge, con modestissimi ritocchi alla grafia).

DBF, 141; Il dialetto friulano trapiantato in America, «La Patria del Friuli», 5 gennaio 1911; A. TELLINI, Tesaur de lenghe furlane, 5, 1923, 796-797; Il gran lunari gnûv par un an qualúnque. Con-t-une strofe par setimane, un sonèt ogni mês, un pronostich speciâl, cun duc i marciâç de provincie e dei pais vicíns e tantis sagris di dut il Friûl per une piçule some di […] centesins di ‘Cifich Ciampane, «Archivi de leterature furlane antighe e moderne», 7 (30 zenâr 1930), 49-53 di copertina, 8 (28 avrîl 1930), 57-61 di copertina, 9-12 (30 setembar 1930), 66-67 di copertina; D. VIRGILI, Canti carnascialeschi friulani, «Sot la nape», 17/1 (1965), 29-37; Pacifico Campana poeta popolare. Rodeano 1868-1921 nel cinquantenario della morte, «Sot la nape», 23/3 (1971), 34-36; A. COVAZZI, Un poet popolâr. Cific Cjampane, Udine, Centro servizi aziendali di Padalino Samanta, 1997, che ai versi già pubblicati in «La Patria del Friuli», poi da Tellini e da Virgili, aggiunge un aneddoto.

Nessun commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *