CILLENIO ANTEO

CILLENIO ANTEO

notaio, poeta

Immagine del soggetto

La Terra di Tolmezzo in un disegno anonimo del XVI secolo (Udine, Biblioteca civica, Joppi, 208).

Di A. C. abbiamo scarse notizie; sappiamo che rivestì per quasi quarant’anni la carica di cancelliere del comune di Tolmezzo e che il 31 maggio 1555 autenticò la trascrizione nei Libri delle parti della riconferma del “mero et mixto imperio”, ottenuta dai nunzi della città, «avanti li capi del consilio mixto dei X». A Tolmezzo esisteva una fervida attività culturale, se si tiene anche conto che, per la presenza del tribunale, il quale aveva la giurisdizione tanto civile che penale per l’intera contrada, si raccoglieva lì un gran numero di avvocati e notai e che questi ultimi soprattutto hanno avuto per molti secoli un ruolo determinante nella produzione letteraria. In tal senso la professione del C. potrebbe spiegare le sue scelte culturali. Nel 1577 compose in distici un poemetto di 346 versi (non menzionato dal Liruti), De peste Italiam vexante, dedicato «Ad nobilem, ac pereruditum adolescentem d. Trissinum Trissineum», dalla ostentata professione di fede tridentina, che offre uno spaccato molto realistico della società rissosa e violenta del tempo, grazie anche al suo osservatorio pubblico privilegiato. Lo compose probabilmente in latino per il prestigio che procurava la scrittura in tale lingua, come si legge nella dedica in prosa: «Cum nihil sit virtute formosius, nihil pulchrius, nihil amabalius, et nihil denique laudabilius, sequitur ut qui preclara eruditione atque doctrina sit excultus et ingenuis artibus ornatus idem ab omnibus ametur, colatur ac summis laudibus ad coelum tollatur», ma forse anche per un senso di frustrazione e per un qual malcelato intento polemico nei confronti degli altri più famosi Cillenio, Nicolò e Raffaele, ben consapevole dei suoi limiti letterari. Sempre nella dedica, infatti, afferma: «Mihi venit in mentem, ut meae in te benevolentiae aliqua significatio appareat, haec ad te saltem carmina mittere»; i quali, precisa, sono «incompta», «inornata», «a me parum ornate, subtiliter, et diserte scripta (quoniam ipse in huiusmodi studiis parum sum versatus)», perciò invita il giovane ad intervenire con correzioni «si quid videbis esse addendum, vel detrahendum, vel corrigendum». Anche l’argomento s’imposta su una cultura provinciale controriformistica. ... leggi Nel corso del Cinquecento colpirono la regione ben tredici epidemie di peste, di vaiolo e di tifo petecchiale, la più recente per il C. nel 1572. Per il poeta la peste diventa una grande metafora della punizione di Dio per la corruzione dei costumi, che dominava il genere umano, convinzione diffusa a livello popolare. In effetti si avverte una profonda tensione socioculturale, vuoi per il diffondersi anche in Friuli e in Carnia «morbida facta pecus» delle dottrine protestanti, vuoi soprattutto per l’affermarsi di nuovi costumi e nuovi valori, in quanto nella seconda metà del secolo vi si afferma il prevalere della borghesia cittadina. Anche a Tolmezzo vi erano «buone case e cittadini assai ricchi», per il formarsi di una borghesia rurale, che fondava la sua ricchezza sul patrimonio fondiario, unito al commercio, a prestiti di denaro o sull’esercizio della professione notarile o forense. Un’epoca contrastata di transizione e di instabilità, che il C. puntualmente registra nel suo poemetto didascalico. Innanzitutto la crisi e la disgregazione dell’istituzione familiare: al matrimonio e all’etica familiare aveva dedicato una particolare attenzione il concilio di Trento; nel poema la rappresentazione assume toni quasi apocalittici: «Orbis rectorem, ut despexit ab aethere summo / Quae in terris fierent, ingemuisse ferunt / Nullum etenim facilem conspexerat ille probumque. / Qui ius rectumque et numina sancta colat. / Sanctaque promissi qui servet foedera lecti. / Fugit namque fides atque pudicitia, / Iura et ubique tori violantur sancta iugalis. / Committunt vetiti crimen adulterii. / Vir struit insidias uxori atque illa marito / Nec socer est tutus (proh scelus!) a genero. / Una cum nato haud genitor, seu filius unam / Cum genitore suo vult abitare domum. / Immo patrem nati interimunt, natosque parentes / Mitius id genus haud est Diomedis equiis. / Saepe etiam summa est inter discordia fratres / Et rixae, adiunctos dissociantque animos. / Mutuaque armati ii coeunt in vulnera saeva». Dalla famiglia tale “peste” si diffonde all’intera società: «Dissidium, heu pietas!, quam fera bella parit? / Insultare malis solet hic rebusque secundis / ingemit et laetis alterius queritur. / Quisque minatur, quisque odium ostentat et iram / Suscipit ingentem et ponere quisque negat. / At tegit illam sanguinei sub pectore cordis / Imbutam flammis exitiique avidam. / Ora tument illa, fervescit sanguis et hydro / Scintillant oculi Gorgoneo horridius. / Tandem omnis saevit, tantasque ardescit in iras / Ut timeat nullus sumere tela fera. / Saepe madet tellus multorumque sanguine caedis: / Nam ferrum a nullo nunc revocat pietas. / Nobilitas a plebe cadit, cadit haec quoque ab illa / Utraque sicque perit, cum utraque praefera sit. / Orbe in toto saevit Mars». Il poeta quindi ne intravede le cause: «Crescit et argenti atque auri scelerata cupido»; si pratica anche l’usura: «Vivitur ex furto: nam clam rapit omnia ubique / Qui bona iam effudit non bene parta sica. / Iam lucrum cuncti argenti cupidine caeci / Insane exercent a Superis vetitum. […]. Venalis populus […]. Auro, ah, maiestas nunc quoque victa iacet. / Nulla fides: auro pulsa est venalia iura». Come conseguenza di tale mal costume «Nec quemquam terret tartareus Phlegeton. / Amissae pereunt nullo discrimine leges, / Aequitas et mores et pudor atque decus. […]. Ultima paulatim contempta Astrea [la Giustizia] reliquit / Terras atque arces ivit ad aethereas». Segue la giusta punizione divina proprio attraverso una «dira et avara lues», che assume la figura mitologica dell’Erinni, uscita «e Stygiis Tartareisque locis». Nonostante gli esempi che potrebbe attingere dal mondo classico, la descrizione della pestilenza resta accademica e generica: «Excipit incautos homines Stigio illa veneno, / quorum nunc passim corpora foeda iacent. / Languor habet nunc cuncta: viis errare videntur / semianimes alii et pars iacet in domibus. […]. Quisquis adest illi proprior, qui languida membra / vix trahit, illum mors eripit ante diem». Finalmente intercedono i «coelicoli» che invocano Dio che, preoccupato dell’estinzione di tutto il genere umano, acconsente di portare aiuto all’Italia supplice e di perdonare gli uomini se rispetteranno i “dogmata” tridentini e se saranno ripristinate le virtù e la giustizia. Mercurio, che rappresenta la voce del poeta, s’incarica di eseguire gli ordini di Dio e, in un finale un po’ frettoloso, caccia l’Erinni «ex Veneta urbe Patavii», ma giunto a Vicenza si chiede: «Hi valeant, ni nefas omne relinquant? / […]. Vicentini igitur iam cordia ferocia ponant, / omittat fraudes quilibet, atque dolos», se vorranno essere salvati: «Sic et Atlantiades peragens mandata parentis / Nos reduces cunctos servet et incolumes».

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Bibliografia

Mss BCU, Wolf, Libri delle parti, 1563; Ibid., Joppi, 164/II, A. Cillenio, De peste Italiam vexante.

J. DI VALVASONE, Descrizione della Cargna, Udine, Jacob e Colmegna, 1866; G. DI PORCIA, Descrizione della Patria del Friuli fatta nel secolo XVI, Udine, Patronato, 1897; G. MARINELLI, Guida della Carnia e del Canal del Ferro, Tolmezzo, Ed. Aquileia, 1887; FERIGO, Morbida facta, passim; G. AMASEO, Historia della crudel zobia grassa et altri nefarii excessi et orrende calamità intervenute in la città di Udine et Patria del Friuli del 1511, in F. BIANCO, La “crudel zobia grassa”. Rivolte contadine e faide nobiliari in Friuli tra ’400 e ’500, Pordenone, Centro studi Menocchio/Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1996.

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