DONATO GIOVAN BATTISTA

DONATO GIOVAN BATTISTA (1534 - 1604)

notaio, poeta

Lo stesso D. nei suoi versi e nelle sue prose distribuisce, con una generosità quasi indiscreta, informazioni puntigliose sulla sua vita. Con sintesi efficace una quartina afferma: «In Vinegia alma il matern’alveo apersi / e ’l più de gl’anni nel Friul immersi. / Morrò nel mondo a chi prima m’offersi / agricola, pistor, pedante m’ersi», esibendo subito la pluralità dei mestieri, che il lessico eletto tende a nobilitare. Le origini sono veneziane. G.B. è figlio illegittimo di Alvise Donato e di una trevisana di civile condizione. La nascita dovrà essere collocata nel 1534 (o nelle immediate adiacenze), se la morte coglie il poeta settantenne il 28 dicembre 1604 (così il registro dei morti di Gruaro). A rincalzo si può allegare una Maccaroneschia furlana senza scandulaa del 1576 [Maccheronica friulana senza scandalizzare]: «cum sim quarantinus / et iam timplaria sblanchizzant» [visto che sono sulla quarantina e ormai le tempie imbiancano]. Lo stigma di figlio naturale non è sottoposto a censura, ma ha certo sapore di rivalsa il fermo elogio della madre, vissuta accanto ad Alvise per più di «sei lustri» «con modi onorati / onde e per tanta sua fede sincera / non se gli può dir donna ma mogliera». E affiora ripetutamente il rimpianto per uno status negato dalla sorte: il «sì illustre collegio», i «domicilii così belli» e, riassuntivamente, la «città de sì gran pregio». La banalità delle giunzioni sostantivo-attributo non cancella la franchezza del trasporto affettivo, il sommesso legame sentimentale con la città lagunare, pur se in primo piano resta sempre il peso della legge economica, la fatica di una esistenza non conforme al rango rivendicato. Ampia è la disponibilità del D. alla misura diaristica, alla assunzione indifferenziata di vicende notabili o feriali, in assenza di gerarchie, con un appiattimento che è utile rivelatore di mentalità. Anche il fatto di cronaca più pressante si fissa in versi, riscatto dall’angoscia e dall’effimero in una dimensione di più lunga durata: «Con dolci accenti suoi / mentr’è più addolorato ’l bianco cigno / narra cantando ’l suo fato maligno. ... leggi / Così facemo noi / che discorremo in canto / quel che devemmo dir quasi con pianto». Un bisogno che, non senza schermi, alimenta la scrittura. La nascita illegittima dunque non è rimossa, è anzi dichiarata con fastidio e acrimonia, con non taciute intenzioni rivendicative. Una insistenza che tradisce il trauma non composto, sintomo di perplessità, di un equilibrio interiore (e, con perfetta simmetria, di un ruolo pubblico) inseguito e mai posseduto con pacifica pienezza. Alla luce di questo disagio risulta psicologicamente plausibile l’instabilità professionale, il trascorrere da una occupazione all’altra con uno scontento senza riposo. Su questa oscillazione poi, su questa coazione al mutamento, sembra far leva, assorbendone ragioni sufficienti di non drammatica, ma comunque inevadibile variazione, il plurilinguismo, che peraltro è largamente autorizzato dagli istituti letterari cinquecenteschi, in specie veneti. Nella precarietà regge comunque, tenero e caparbio, il richiamo a Venezia, spazio di privilegio: «Son da Venesia e sarò infina sera / e de Pescina son, da San Marcuola, / d’un con la stola e d’una senza vera», vale a dire di un patrizio e di una donna non legata nel matrimonio. Arduo peraltro ancorare a una cronologia secca il trasloco, ma il D. è certo a Gruaro nel 1559-60, anni ai quali si riferisce il primo testo friulano. In Friuli D. si immerge in una rete ramificata di rapporti e la nuova residenza ammette il respiro pacato: «Vivo in Friul tra simplice brigae / da villa […] // Qua quando che xè ’l tempo dell’instae / a l’hora delle ombrie mi vago a spasso / a veder biave e vide c’ho arlevae. // Co xè l’inverno sto essercitio lasso / e ’l zorno al fuogo e la sera in filò / per quei casoni a fiabe me la passo. // E co ’l mestier de Plauto che mi so / ogni mattina una fugazza fresca / xè per mio uso oltra ’l vadagno c’ho» [Vivo in Friuli tra semplici compagnie di paese (…) Qui d’estate all’imbrunire vado a passeggio a vedere biade e viti che ho coltivato. D’inverno lascio questa occupazione e passo il giorno vicino al fuoco e la sera in filò per quei casoni a raccontare fiabe. E con il mestiere di Plauto che io conosco ogni mattina ho per mio uso una focaccia fresca, con in più il guadagno che ne ricavo]. Il dispositivo letterario è nitido, ma un nocciolo di verità sembra resistere: l’aura favolosa delle veglie invernali, lo scorcio della passeggiata estiva, l’interesse smorzato (ma vigile) per il raccolto. Lo stesso «mestier de Plauto» (il “pistore” di cui ragionano altri testi) riconduce alla biografia. “Agricola” in prima battuta è il D.: piccolo (difficile dire quanto piccolo) possidente che segue in prima persona la lavorazione del suo «ronco», delegata alle cure non sollecite di manodopera avventizia. A Gruaro il D. applica «l’intelletto / di Cerere e di Bacco all’illus’arte», mentre avrebbe aspirato «a dotte carte / poner la mente». Ma dalle maglie della «illus’arte» tenta di sottrarsi. Alla fine del 1565 è doganiere al fondaco di Portogruaro, dove contrae una «infirmità brutta» che avrà interminabili e penose conseguenze, con ovvi riverberi nella scrittura: dalla compunzione devota ai referti più asciutti, dall’ala della speranza all’ombra del disincanto. La sifilide peraltro alimenta un fertile filone giocoso. Con la malattia l’incarico di doganiere sfuma, ma la malattia non impedisce al D. di prendere moglie. La vita matrimoniale non deposita che deboli tracce e a strappare un qualche spazio sono i figli: Aloisia e Aloisio, che ripetono il nome del nonno Alvise, Crimaio, Largitio, Lucentio e Munera. Con tutta evidenza coniazioni d’autore, che vanno oltre i confini della moda latineggiante di stampo umanistico. Crimaio, d’altra parte, resterebbe impenetrabile se il D. non fornisse la chiave in una pagina del 1572 che ne annuncia la morte: Crimaio agglutina le sillabe iniziali di Christus, Maria e Joannes, «personaggi veramente elletti ab eterno dal sommo Iddio e a lui gratissimi e gloriosissimi». Il D. crede alla non casualità, al marchio deterministico del nome, e il gusto dell’etimologia, capziosa nelle sue parvenze raziocinanti, ben vivo nella cultura cinquecentesca, scorrerà nella onomaturgia fantasiosa del Testamint di barba Pisul Stentadizza, di cui si dirà. Archiviata l’esperienza di doganiere, il D. è maestro a Caorle, ma gli estremi temporali sfuggono. E ancor più difficile da situare in anni definiti è l’attività notarile («Già solevan li strani e quei del loco / di me valersi nella noderia: / hor d’altri fanno stima e di me gioco»), che però sembrerebbe discontinua. Il D. è poi «osto in Bagnara», ma compie ulteriori passi per evadere dalla dipendenza del reddito agricolo (o per integrarlo): nel 1594 ottiene l’affidamento della «camera di pegni da Sesto», una parentesi che si consuma rapidamente, se nell’estate del 1595 il D. annuncia il suo ritorno a Caorle come «precettor», con rinnovato sperpero metrico. Una tregua momentanea perché: «Scappan quissi scolari / da quissa scola a uno a dui a tre / per no incappare la scritta mercè», per non corrispondere il compenso pattuito, e il D. verosimilmente rientra a Gruaro, ma non è possibile seguire la sua storia umana oltre lo scorcio del secolo. Economicamente il D. dipende dall’andamento delle stagioni e al prodotto agricolo riserva uno sguardo concentrato e premuroso. Per limitare l’inventario ad alcuni testi datati: Per la chiaristia del 1559 vignint el 1560; 1576. Al sig.r Nastaas Carb da Siest: il 31 maggio la grandine distrugge granaglie, fave e lenticchie («duquant ha pistignaat chesta granzola»); Al dì 21 luglio 1576: di nuovo la grandine colpisce il già «flagellato ronco», cadendo «sopra il restante degli acerbi frutti degli miei pochi e spendacchiosi campi». Riaffiora il compianto nel 1585: Sora el grossam e Sora i minuz, poi nel 1587 e nel 1596 Sopra la mala riuscita del grossame. Sono davvero rare le concessioni all’ottimismo e monocorde potrà risultare questa agenda di vita dai campi, ma la resa delle biade e del vino è cruciale: per gli uni il buon frutto varrà stomaco pieno, per gli altri stomaco e, insieme, granaio pieno («Si legrava lu poovar e lu rich, / l’un per emplaa ’l corbam, / l’altri per chel e per emplaa ’l blavarr»). La lavorazione dei campi si colloca anche nel cuore della fantasia. Basti un lacerto della lettera consolatoria Al signoor Nastaas Carb di Siest amalaat: «E ce credesu voo si been io faz chu la vuarzina sbridina, taya e slambra lu terren del mio chiamp, e la grapa lu fora e lu strissina per di lunch e per di triviars, credesu fuars per chist chu i vuoli mal ni chu mi plasi la so ruina? Mai no ’l credit, e sai been chu no ’l credees, percee dutt chel ch’io faz faa è percee chu bandoni la compania delle chiattivis iarbis e si disponi a been recevi la mee siminza a zo chu lu so frutt puossi stanceaa su ’l mio solar. Cusì lu nuostri Signoor […]» [E che credete voi sebbene io faccio che l’aratro stracci, tagli e squarci il terreno del mio campo, e l’erpice lo fori e lo trascini di lungo e di traverso, credete forse per questo che io gli voglia male o che mi piaccia la sua rovina? Non credetelo no, e so bene che non lo credete, perché tutto quello che io faccio fare è perché abbandoni la compagnia delle erbe cattive e si disponga a ben ricevere la mia semenza affinché il suo frutto possa stanziare sul mio granaio. Così nostro Signore (…)]. L’agricoltura costituisce un archivio di metafore, prezioso generatore di immagini. Pretendono però la rassegna i codici impiegati, che sono intercambiabili, non solidali con uno specifico tono stilistico e non costretti in una scala gerarchica. Il D. non manifesta il bisogno di giustificare questa espansione nel diverso, questo liberalismo senza barriere. La “democrazia” è gestita con franchezza, con l’ovvia premessa dell’edonismo linguistico (in particolare della commedia) che nel piacere della commutazione brucia ogni scoria problematica, ogni spunto rivendicativo. Per la verità nel D. non manca qualche isolata spina polemica: a difesa delle varietà marginali contro il friulano udinese che ormai tende a obiettivi egemonici. Congruo con questi principi l’“understatement”: «lu mio favelaa con voo cusì alla gruaresa è dissavit e senza peverada» [Il mio parlare con voi così alla gruarese è insipido e senza sapore], «io scrif gruarin per passaa timp adhoris» [io scrivo gruarese per passare presto il tempo], e via via. Ma nel D. si dà anche la prima assunzione esplicita di una evidente pratica di koinè: un friulano intessuto di modi centrali, carnici e “paludani”, con cui si designeranno le parlate della Bassa paludosa. L’intreccio non lineare delle lingue procede in armonia con lo spettro non compatto degli interlocutori. Si può comunque percepire un ventaglio sciolto da scremature, un comportamento disinibito che scivola senza complessi (e con le stesse formule, con lo stesso cerimoniale) dal luogotenente al patriarca, dal vescovo all’organista, dal podestà al capitano, dall’oste al sarto. Il catalogo verbale ad ogni modo traccia percorsi fluidi. Come intarsio di abilità plurime, appariscenti quanto illusorie, in primo luogo. Questa l’emergenza più vistosa: «Furlan: – Ce diavul staisu a faa, seer Mattiuss? / Venitian: – No ve par hora da mandarme a dir: / Berghem: – Fatte un po in za, gruarî vertuliuss? / Latin: – Ad hoc vigilans sto sicuti vir / Spagnol: – Che quier a todos, per vida del duss, / Toscan: – Figer il telo de’ sui alti desir. / Pavan: – Saìu. Mo, prestizzé, potta de gnan. / Ebraico: – Ai badanai vostr’oche va a Melan» [Che diavolo state a fare, ser Mattio? Non vi pare ora di mandarmi a dire: fatti un po’ in qua, gruarino virtuoso? In attesa di ciò, sto come un uomo che vuole ad ogni costo (?), per la vita del doge, raggiungere lo scopo dei suoi alti desideri. Sapete dunque, fate presto, per la potta de gnan. Ah per Dio le vostre oche vanno a Milano]. L’ottava, indirizzata a Mattio Bortolussi, si frantuma in otto lingue diverse, che peraltro non rispecchiano fedelmente il repertorio del D. «Spagnol», «pavan» ed «ebraico» affiorano solo qui: entità effimere, fantasmi privi di spessore. Si incide però limpida la linea di tendenza: l’ottava non punta su una esasperazione delle lingue in contatto (per meglio dire, accostate), ma si premura di ricavarne divertimento schietto, senza attriti espressivi. Il D. non elude paradigmi mescidati come il maccheronico: la già citata Maccaroneschia furlana senza scandulaa del 1576, che tocca delle pene d’amore in età non più verde, una Maccaronea sopra la parte delle armi deffensive e offensive del 1579; e come il “pedantesco”, con il suo forsennato ricorso al latinismo lessicale: la prosa Pedantesca perché di april e maggio s’abbassò il pretio del formento e anco giugno, e de luglio e de agosto s’abbassò il pretio del vino del 1594 (basterà il frammento: «tabefacto il iecore de quibusnam feneraticoli frigescenti» [guasto il fegato di certi usuraiucci languenti], «funicolo canipeo» [funicella di canapa]) e il capitolo Ego mi pedans pedagogus petulans (dove si estrapola: «al cupidineo infantulo incespiti» [inciampati in Cupido], «Mi speculo dealbata la maxilla» [Vedo allo specchio impallidita la mascella]), che tocca ancora delle pene d’amore in età non più verde. Accanto a queste ibridazioni canoniche ne va segnalata una sprovvista di statuto e che con Rizzetto si etichetterà “pascariello”, impasto degli anni tardi con vaghi ricordi meridionali (come il dittongo metafonetico e sue estensioni analogiche): «Piglia, piglia, Checuccio, / dal Pascariello quisso presentuccio» (A messer Francesco Tomason de Portogruaro). Di maggiore impatto un episodio della corrispondenza con pre Luiis, Alvise Scussio, organista di San Vito, corrispondenza che contempla il ricorso a friulano, veneziano e bergamasco, “pascariello”, e a una «lingua francolina» (o “graziana”, tipica di una maschera teatrale, ma con applicazioni anche non teatrali, con tratti dialettali della regione di provenienza, l’Emilia). L’iniziativa è dell’interlocutore: «Ol dottor Scatolon da Francolin / ve manda quest su ’l lett, ol me omincin. // A ve starnudi, ol me ben travasad […]» [Il dottor Scatolone da Francolino vi manda questo sul letto [bisticcio con sonetto], mio caro omicino. Vi saluto [bisticcio con sternuto], mio ben travasato [allusione al vino] (…)]. Contigua la Risposta in detta lengua per le rime: «Al d’odor Schittolon da Frittolin / ghe remand quest su ’l nett ol so Osmarin. // Se bien no v’ho cusì priest resposad […]» [Al d’odore Schittolone da Francolino rimanda questo sul netto [bisticcio con sonetto] il suo Osmarino. Anche se non vi ho risposto [però «resposad»] così presto (…)]. A margine l’«Osmarin» del secondo verso è chiosato: «Os marinum Bocca venitiana». La strategia che governa i testi è concentrata tutta nel distico iniziale, che non si regge in autonomia, che esige il montaggio interlineare. La risposta non è solo per le rime, ma poggia, almeno nell’esordio, su una ripresa fonica quasi integrale, con frizione ininterrotta: “dottor” si riduce a «d’odor», “Scatolon” a «Schittolon», “Francolin” a «Frittolin», “lett” a «nett», “omincin” a «Osmarin», modulando una specie di disturbo della similarità. Azzardi ad ogni modo labili sia il maccheronico, sostenuto da patroni prestigiosi come Teofilo Folengo, sia il pedantesco, che pure gode di precedenti considerevoli (in particolare Camillo Scroffa), perché privi di “grammatica”, perché vincolati alla inventiva geniale, ma inimitabile, sia (e soprattutto) gli esiti ultimi. Non hanno comunque il rilievo dei pur non abbondanti campioni di bergamasco (tre i testi), che nel Cinquecento circola come corda espressionistica, ma che in Friuli non ha documentazione. Alle spalle sta ancora lo scenario veneto, con la sua voracità, con il suo plurilinguismo endemico, ma il carteggio con l’organista accerta un fatto: la scrittura del D. (anche nella sottospecie friulana) è la punta di un iceberg scomparso. Già si è detto di una alternanza fra varietà occidentali (adottate nelle prose) e soluzioni geolinguisticamente meno connotate (più specifiche della poesia), non omogenee, non selettive per principio. Non sono peraltro visibili i canali che il D. segue per attingere “specimina” di friulano centrale: dall’autografo non risultano spie di contatti con il perimetro udinese (fatto salvo il caso non dirimente delle suppliche alle autorità). Un silenzio che è sintomo di frattura. Un friulano comunque sotto controllo e distribuito su una molteplice tastiera di registri, con il supporto di una strumentazione retorica a volte plateale: «E pur purissis, pupa, / adhoris aiudaami allegramentri / con chel chialaa chiarut chiattivamentri / che ’l cor mi zopa e zupa / e pesta e prem e pocca e ponz e pizza / e stenta e strenz e stuarz e strazza e strizza» [E pur potresti, bambina, aiutarmi presto allegramente con quel caro guardare con cattiveria, ché il cuore mi zoppica e saltella e pesta e preme e cozza e punge e pizzica e stenta e stringe e storce e consuma e spreme]. Dove è tangibile il parossismo allitterante. E non sono ingenue le prose che si ispirano all’orizzonte paesano. Si prenda il Testamint di barba Pisul Stentadizza e si consideri la sintassi aperta, il suo anarchico (e pur sapiente) affastellarsi. Così il protagonista, nell’imminenza della morte: «[…] e imparcivut una sera che i mettevin da chiaf la chiandela e da peis la crous, e sintinsi schiampant i gardilins del bosch e sudant el cerneli e businant le aurelis e tarlupant i vuoi e sfreidant el nas e strenzint le mascellis e flapint i lavris e cluccint i dingh e scozzant la lenga e scrosopant la pitturina e quasi destirant i tellons […]» [(…) e accortosi una sera che gli mettevano da capo la candela e ai piedi la croce, e sentendosi scappare i cardellini dal bosco e sudare la fronte e ronzare le orecchie e lampeggiare gli occhi e raffreddare il naso e stringere le mascelle e inaridire le labbra e battere i denti e cozzare la lingua e scricchiolare il petto e quasi stirare i talloni (…)], in un preciso e insieme ipnotico filmato della reattività del corpo ormai prossimo alla fine. Così l’avvio del dispositivo testamentario: «Che lui di biella prima raccomanda l’anima al stellaat e lu cuarp al segrat, daspuò lassa in rason di legat che ogni so creditour sei volenteir paiaat o la vea dell’ultim merchiat passat, o la fiesta del prim che vignarà di bruma a miez estat […]» [Che lui per prima cosa raccomanda l’anima al cielo e il corpo al camposanto, in secondo luogo lascia a titolo di legato che ogni suo creditore sia pagato di buon grado o la vigilia dell’ultimo mercato passato, o la festa del primo che verrà di dicembre in piena estate (…)], con la fitta maglia delle rime («stellaat» : «segrat» : «legat» : «paiaat» : «merchiat» : «passat» : «estat») e con la sibillina negazione di ogni risarcimento dei debiti. E così l’interminabile litania di apposizioni che accompagna la figura della morte: «[…] la settora che no si viot, appasamint de custions, cidinamint de liz, disgropadura de matremonis, disvuluzzon de parintat, dispeam d’amicitia, disconceir de commuditat, paura de richs, argumint de puovars, aspiettida ciarta de vecchius, vignuda inciarta de zovins, allegrezza de bons, gramezza de chiattiis […]» [(…) la falciatrice che non si vede, pacificatrice di questioni, acquetamento di liti, scioglimento di matrimoni, liberazione di parentela, slegamento di amicizia, sconcerto di comodità, paura di ricchi, sostegno di poveri, attesa certa di vecchi, venuta incerta di giovani, allegria di buoni, infelicità di cattivi (…)], dove il collante è garantito dalla rima («appasamint» : «cidinamint», «allegrezza» : «gramezza»), dal battere del prefisso dis– («disgropadura», «disvuluzzon», e via via) e dal gioco protratto delle antitesi («richs», «puovars», e via via). Si osservi ancora il titolo nella sua interezza, trascurando il reticolo dei richiami fonici, tra rima, allitterazione e bisticcio, Testamint di barba Pisul Stentadizza con la sententia del stallent ser Prudentul Strizzalez da Coder: Pisolo Stentaticcia (con uscita in -izza), Prudente (con suffisso di sapore pedantesco) Spremilegge da Coderno (ma «coder» è anche quaderno, con la balzana prospettiva dello spremere le leggi da un quaderno, da un codice), e «stallent» a fondere l’“eccellente” preteso dal contesto e “stalla”, maligna intenzione abbassante. Una prosa di straordinaria densità, a contatto con la categoria del “carnevalesco”, zeppa di informazioni sul costume. A connotare la pagina del D. è l’estro sperimentale e, in chiusura, si annette un ulteriore tassello. Quanti saluti che fa un i e tre o [vale a dire 1000] / vi porgo e prego che vi faccin pro (e Senza salata e salsa io vi saluto / come amico domestico e canuto) raccoglie una prosa farcita di massime latine parafrasate in friulano. Uno scampolo indicativo: «non mi terrò a vergogna il retornarmi all’uso mio dicendo con Propertio: ‘Naturae sequitur quisque suae’, che nella usata loquella vol dire: ‘Lu chiamp di rar produss frutt chu sei boon, / si no di cheel chu semina ’l paroon’» [Il campo raramente produce frutto che sia buono, se non di quello che semina il padrone]. È forse il primo saggio di traduzione in friulano: una traduzione senza sottintesi caricaturali (si allude al travestimento del primo canto del Furioso), che attinge ancora al patrimonio contadino piegato in metafora, e si avverte l’eco del virtuosismo consapevole, di una nuova possibilità di variazione. Una personalità, quella del D., esuberante, ma anche prodiga e dispersiva, e forse sta qui la ragione (o una delle ragioni) del mancato coagulo di un friulano letterario nella destra Tagliamento.

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Bibliografia

BSAU, Scritti varii in versi ed in prosa 1559-1599.

G. VALE, Giovanni Battista Donato, «Rivista della Società filologica friulana», 5 (1924), 9-16, 137-150, 227-242; 6 (1925), 25-40, 105-115, 171-179 (poi in estratto); P. RIZZOLATTI - A. ZAMBONI, Antichi documenti linguistici dell’area portogruarese, in L’area portogruarese tra veneto e friulano. Atti del convegno (Portogruaro, 18-19 dicembre 1982) a cura di R. SANDRON, Portogruaro, Tip. Portogruarese, 1984, 157-184; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 153-157; P. RIZZOLATTI, Due testi friulani inediti: «Per la chiaristia del 1559 vignint el 1560» e la «Sente Croos di Rumtot», «Diverse lingue», 1 (1986), 79-84; PELLEGRINI, Ancora tra lingua e letteratura, 169-259; A. RIZZETTO, Giovanni Battista Donato, Pres. di M. CORTELAZZO, Padova, Biblioteca Cominiana, 1997; L. NASCIMBEN, Tra “invuluzzar pinsiirs” e “furlananze desusae”. Gli “Scritti varii in versi ed in prosa (1559-1599) di Giovanni Battista Donato, t.l., Università Ca’ Foscari di Venezia, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2006-2007. Su Donato traduttore: A. CARROZZO, Classici latini in friulano: forme e modi del tradurre, t.l., Università degli studi di Trieste, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1999-2000.

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