FIORE DEI LIBERI

FIORE DEI LIBERI

esperto di arti marziali

Immagine del soggetto

Pagina dal Flos duellatorum, composto nel 1410.

Di F. dei L. di Premariacco non si conosce la data di nascita, che si colloca tra il 1340 e il 1350, ed è discussa la nobiltà del casato, verosimilmente presunta, per quanto un profilo autobiografico, dai chiari intenti promozionali, la reclami: «Fior furlano de Cividale d’Austria che fo di messer Benedetto de la nobel casada de li Liberi di Premariacco de la diocesi de lo patriarchado de Aquilegia […]». F. è a Udine nel 1383-1384, implicato nella opposizione della città contro il patriarca Filippo di Alençon, che ha l’appoggio di Cividale: F. si schiera dunque contro la sua terra d’origine. Ma della sua vita vagabonda poco o niente si sa con certezza, pur se il suo Flos duellatorum evoca esperienze fatte nelle corti dell’Italia padana (da Padova a Mantova, a Pavia) e negli stessi steccati si stabiliscono anche rapporti con «tanti magistri e scolari» «todeschi»: un orizzonte di alto profilo, che consente a Fiore di affinare la sua abilità nell’esercizio della «scrima», l’antica scherma, nella quale tocca livelli di eccellenza. Sullo scorcio del secolo F. è a Ferrara, dove nel 1409, che varrà come termine “post quem” per la morte, su richiesta di Nicolò III, compila il Flos duellatorum in armis, sine armis, equester, pedester: «La qual sopradicta glosa e anchora lo libro istoriado de figure dipento è fato appeticione de lo illustro et excelso meser Nicholò signor marchese de la cità de Ferara e de la cità de Modena e de Parma e de Reço citade». Il titolo latino copre un particolarissimo trattato volgare: Il fior di battaglia di maestro Fiore dei Liberi che, con la figura retorica, azzarda ed esibisce insieme una sorta di equazione tra la “scrima” (“fior” di battaglia) e il suo interprete e ordinatore (“Fiore” dei Liberi). F., che si definisce «scolar», carico di dottrina, «ché cinquanta anni in tal arte ò studiado», informa con puntualità sui tempi della stesura (10 febbraio 1409): «De mille quatrocento e nove a dì X de lo mese de febraro fo principiada» «aquesta glosa la qual tracta in facto de armiçar e de conbatere a corpo a corpo: zoè lança, açça, spada e daga, e abraçare, a pe e a cavallo, in arme e sença arme, e d’altre cosse che apertene ad armeçar». E insiste sulla durata (e sulla pesantezza) dell’impegno, sulla sua eccezionalità irripetibile: «et etiam per lo longo tempo che io sonto stato a farlo, non sonto per farne più nesuno de tanta quantità como è questo, ché per mia fede io li sonto stà meço anno a farlo, sì che io non voio più de queste brige per lo tempo vechio che me incalça». F. non è uomo di penna, ma è consapevole dell’importanza decisiva e insostituibile della scrittura: «Ché male se pò tener a mente sença libri e scriptura sì longissima arte e non serà çamay nesun bon scholar sença libri: guarda como porà essere bon magistro!». Le conoscenze di F. spaziano «dalla lotta, in cui ci mostra tecniche anche molto dure e pericolose (e infatti consiglia prudenza a chi le praticasse per addestramento e non durante uno scontro reale), alla difesa contro un avversario armato di daga, all’uso di una gran varietà di armi, come la daga stessa, la spada a una mano, la lancia, la spada a due mani, l’azza (una sorta di grande martello da guerra dalla lunga impugnatura, che si maneggiava a due mani), e ci mostra anche come difenderci contro un avversario armato in modo diverso da noi (difesa con due randelli contro un nemico armato di lancia, difesa con una daga contro un armato di spada). Forse meno interessante e di più difficile applicazione appare oggi la parte del trattato dedicato al combattimento equestre, che viene trattato anch’esso con riferimento a diverse armi: la lancia e la spada, ma si trova anche una parte dedicata alla lotta a cavallo senza armi». Il trattato si compone di una parte figurativa, che ha ruolo portante e non ornamentale, e di una serie di didascalie in versi, confinate in una fascia di rincalzo all’immagine. ... leggi Efficace, ma forse anche severo e sbrigativo, il giudizio di Marchetti: «Ogni pagina contiene generalmente sei oppure otto scene di lotta, chiosate ciascuna con uno o più distici in volgare: ma queste chiose, spesso puerili od insignificanti, fatte di minacce o d’ingiurie contro l’avversario, non rappresentano alcunché d’essenziale per l’intelligenza del disegno. Il valore e il significato dell’opera è tutto nei disegni stessi, eseguiti evidentemente secondo precise e minute indicazioni del maestro, i quali non potrebbero essere sostituiti adeguatamente nemmeno dalle più accurate e prolisse descrizioni». In effetti la vignetta, con l’evidenza impressiva dei gesti, essenziali e perentori (ma anche mossi e vivaci), assicura in totale autonomia il percorso pedagogico, obiettivo primo del trattato, ed è la vignetta responsabile di un successo che giunge ai nostri giorni, con il recupero (non imbrigliato dai confini) a fini spettacolari dell’antica “scrima”. Il rango delle didascalie peraltro, pur servile (ma non tale nelle intenzioni dell’autore: «faremo sì che leçeramente ‘se porano intendere per le parole scripte e per le figure dipente’»), ha un suo rilievo: espediente mnemonico in grado di riassumere i gesti con la mediocre cantilena delle sue rime, con la grana apparentemente stinta dei suoi insulti, con la rinuncia a una qualche elaborazione formale. Il Flos duellatorum non prevede destinatari acculturati e la sua inerzia stilistica non è sintomo di debolezza, ma di coerenza: un codice multiplo saldamente strutturato. F. rivendica la paternità della “glosa” e degli stessi disegni, per i quali non si ritaglia una modesta nicchia di suggeritore e di regista. I codici pervenuti non sono autografi e nelle figure si ravvisa una perizia che è francamente oneroso postulare di mano di F., ma la concezione è compatta e unitaria, non parcellizzata: «In la qual glosa parlaremo cum tuto nostro saver e prima diremo de abraçar a pe e poy de li altre cosse de armiçar, ‘segondo che voy vederiti dipento e ordenato per lo dicto Fior’». Una paternità che non sembrerebbe lecito revocare in dubbio («La qual supradita glosa è fata cum tuto lo nostro saver sopra uno libro isturiado de figure depento, sopra lo qualle andarano aqueste glose e rubriche de numero in numero»), per quanto non manchino le allusioni a sostegni ricevuti nella stesura. È plausibile il sospetto di aiuti esterni per i prologhi latini, pur se il ragionamento di Novati, primo editore del Flos duellatorum, si direbbe preconcetto e aprioristicamente ingeneroso: «Chi legga il primo prologo in latino, i versi, pur latini, che chiudono il secondo, e quelli che si pompeggiano sotto le figure dei quattro maestri di daga, non esiterà un momento ad ammettere che lo schermidore nostro abbia chiesto ed ottenuto l’ausilio d’un letterato di professione per questa – del resto esigua – porzione dell’opera sua. I versi volgari in quella vece debbono proprio essere stati foggiati da lui; nella loro indescrivibile rozzezza noi rinveniam la prova più luminosa della loro originalità». Nulla sappiamo della formazione di F., del suo iter scolastico, se di iter scolastico si può parlare, ed è astratta l’antitesi, per quanto attendibile, tra la superiorità «d’un letterato di professione» e la «indescrivibile rozzezza» dello «schermidore». Sconcerta anzi che in tale «indescrivibile rozzezza» si pretenda di cogliere «la prova più luminosa della loro originalità»: della autenticità dei versi. La lingua non denuncia interferenze friulane («pensir», che Novati ritiene friulano, è in rima con «ferir»). L’unico fenomeno che il friulano condivide con la quasi totalità dei dialetti settentrionali è la cancellazione della vocale finale, che nei versi ha isolate emergenze («dent», «ellefant», «faliment», «fendent», «taiaret»), ma la lingua nel suo insieme è rispettosa delle soluzioni di koinè, esito forse di un percorso non lineare, dove la volontà di F., vagabondo per larga parte della sua vita, si sarà intrecciata con l’azione livellatrice di copisti più o meno fedeli. Opera comunque concepita lontano dal Friuli e non agganciata nelle intenzioni alla terra d’origine. Per la sua edizione diplomatica, con facsimile, Novati ha attinto a un codice di proprietà di Alberto Pisani-Dossi. Il testo, nitido come poteva uscire solo da mani esperte, non è autografo e le illustrazioni sono dovute ad artista non mediocre. A F. si deve forse un altro trattato in prosa, più conciso, ma interessa qui la dialettica asimmetrica di figure e didascalie legate in rima (sempre baciata, con rare escursioni oltre il limite del distico): «quello stampo metrico, onde da tempo immemorabile solevano valersi gli scrittori a dichiarare pitture e disegni, fossero questi compresi nel breve spazio d’una tavoletta o d’una membrana, oppur si stendessero quelle ad istoriare largamente pareti di cattedrali, di reggie, di chiostri. Sicché tutta la scienza sua F. volle costringere nel distico, lo schema preferito dalla poesia gnomica, sentenziosa, proverbiale». F. si inserisce in una tradizione e i suoi distici, dalla prosodia non ineccepibile e anzi ingenua e approssimativa, si possono qualificare come versi “esposti”. Spigolando qualche lacerto nelle zone meno bisognose di chiarimenti tecnici, si osserverà la trasparenza plastica del gesto, che risulta spiccato, quasi cinematografico, a documentare senza veli la brutalità dell’“arte”. Per l’«arte dell’abbracciare», vale a dire della lotta, in una sequenza spoglia, istruttiva anche in difetto di commenti: «Per la testa che io ò posta soto el tuo braço / in terra ti farò andare cum poco mio impaço», «De dredo me prendisti a grande tradimento / e questa presa te manda in terra sença falimento», «In li chogiuni ti farò tal percossa / che tuta tua força ti serà rirnossa», «In tuo naso faço tanta pena e doia / che a lassarme tosto serà tua voia», «Cum un bastoncello lo collo t’ò ligato. / Se non te meto in terra, àyne bon merchato». E ancora, per l’«arte della daga», vale a dire della scherma: «A dislogarte lo braço non n’ò fadiga / e la daga ti posso tore sença briga», «Aquesto è uno altro deslogare forte / e cum tua daga ti posso dare morte», e si tratta di campionatura puramente indicativa. È ovviamente folto e di accesso non sempre agevole lo specchio del lessico tecnico: «zoghi e coverte e feride e prese e ligadure e roture e dislogadure de braçi e gambe e torsion e lesion e in li [l]ochi più perigolusi», per riferire solo un lembo del perimetro esplorato, con la ricchezza inquietante dei suoi lemmi. Le considerazioni svolte fin qui fanno riferimento al volume allestito da Novati, che è alla base delle fortune novecentesche di F. Di due codici americani dà ora conto una nuova edizione, curata da Marco Rubboli e Luca Cesari: il ms Ludwig XV 13, J. Paul Getty Museum (Los Angeles), e il ms M. 383, The Pierpoint Morgan Library (New York), che Rubboli e Cesari presumono più antichi del Pisani-Dossi «e quindi probabilmente anche più vicini all’originale», latori ad ogni modo di «commenti tecnici diversi» a fronte di quelli noti «e quasi sempre ben più chiari ed estesi». Il lavoro peraltro è destinato al pubblico specialissimo dei cultori delle arti marziali ed è perciò mirato a una esegesi del gesto, a una sua comprensione (e virtuale traduzione) libera da equivoci, ma filologicamente (nel senso della filologia testuale) meno attrezzato. La diversità anche vistosa dei testimoni non si giustifica (così almeno si direbbe) con la casistica usuale delle varianti, ma va ricondotta al carattere intrinseco del Flos duellatorum, un trattato pratico: le copie, diramandosi, non puntano al rispetto dell’originale, che si piega alla misura del nuovo utente, configurandosi come rielaborazione, magazzino di competenze cui ricorrere senza scrupoli, del resto impensabili all’epoca (e impensabili per il tipo di opera). Ma la paternità di F. non si eclissa e non viene cancellata. Senza ombre è l’orgogliosa consapevolezza del proprio valore, dimostrato sul campo, e della propria dottrina, dovuta all’esperienza, ma anche allo studio protratto (e su questi aspetti ora si indugia, perché meno scontati): «Che io Fiore ‘sapiando legere e scrivere e disegnare’ e habiando libri in quest’arte […]. E sì digo che s’io avesse studiado XL anni in lege, in decretali e in midisina chome i’ ò studiado in l’arte del armiçare che io saria doctore in quelle tre scientie. Et in questa scientia d’armizare ò habuda grande briga cum fadiga e spesa d’esser pur bon scolaro […]. Considerando io predetto Fiore che in quest’arte pochi al mondo sen trovano magistri e vogliando che di mi sia fatta memoria in ella io farò un libro in tuta l’arte e de tutte chose le quale i’ so e di ferri e di tempere e d’altre chose […]». Dove si noterà il desiderio di memoria, la voglia di durare nel tempo. E l’ideale di una preparazione non sbilanciata, non risolta nella pura manualità, nell’addestramento fisico, quel «sapiando legere e scrivere e disegnare» (retoricamente non perplesso nella sua scansione ternaria e nel suo polisindeto), rifluisce poi nella titolarità non frantumata dell’opera, nella prima persona che si stacca a tutto tondo, assumendo la responsabilità indivisa di didascalie e illustrazioni: «Le quale tutte chose ‘scrivirò e porò depinte’ in questo libro de grado in grado chome vole l’arte» (Rubboli – Cesari, 27). La debolezza filologica del libro di Rubboli e Cesari è ad ogni modo indizio eloquente delle particolari fortune del Flos duellatorum, fortune sontuose nell’ambito delle arti marziali, un settore specialissimo e senza frontiere, che può prescindere da una più fondata competenza ecdotica.

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Bibliografia

Flos duellatorum in armis, sine armis, equester, pedester. Il fior di battaglia di maestro Fiore dei Liberi di Premariacco, testo inedito del 1410 pubblicato ed illustrato a cura di F. NOVATI, introd. di R. NOSTINI, Pisa, Giardini, 1982 (1902, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche). I brani citati tengono presente la trascrizione diplomatica di Novati e il facsimile. Il discorso di Novati è ridotto a più sobria misura da MARCHETTI, Friuli, 158-162. Le pagine di Marchetti, alcune di Novati, insieme con la riproduzione del testo (ma i versi non sono trascritti), in T. MIOTTI, La vita nei castelli Friulani, Udine, Del Bianco, 1981, 297-319. Ripropone il codice Pisani-Dossi il Flos duellatorum in armis, sine armis, equester, pedester, a cura di G. RAPISARDI, Padova, Gladiatoria, 1998. Da ultimo, con l’incremento di due testimoni, FIORE DEI LIBERI, Flos duellatorum. Manuale di arte del combattimento del XV secolo, a cura di M. RUBBOLI - L. CESARI, Rimini, Il Cerchio iniziative editoriali, 2002.

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