STRASSOLDO (DI) GIUSEPPE

STRASSOLDO (DI) GIUSEPPE

ecclesiastico, poeta

Immagine del soggetto

I castelli superiore e inferiore di Strassoldo e la chiesa di S. Nicolò in un disegno seicentesco.

Figlio di Fantuzzo e di Maddalena Belloni, G. è verosimilmente già maggiorenne nel 1542. Nel 1544 ad ogni modo è cappellano di S. Maria in Vineis e in seguito sarà vicario della Beligna ad Aquileia. In veste di “cameraro” dà inizio, il 21 maggio 1575, alla costruzione del campanile di S. Nicolò, a Strassoldo. In quest’ultima chiesa una lapide del 1736 lo ricorda anche «parroco della arciducale di Fiumicello». Ha due fratelli: Paolo, destinato a una brillante carriera ecclesiastica, e Orazio, al quale sembra sia affidata la continuità del ramo familiare. È ancora vivo nel 1578 e la morte potrebbe risalire al 1597, ma il dato non ha appoggi chiari. Non si trascuri peraltro il dettaglio, – spia di interesse per i materiali d’archivio che «si abbruggiorono con l’occasione che il co. Cristofforo di Tersatz Croatto abbruggiò ambidue li castelli nostri di Strasoldo l’anno 1509» (così Ricciardo di Strassoldo nel manoscritto 140 del Museo provinciale di Gorizia), – che di mano dello S. è un Liber instrumentorum (Tomo degl’istrumenti et altro di casa co. di Strasoldo con soggionto indice. Principia 1257 presso il Museo provinciale di Gorizia), cui ha già felicemente attinto Lorenzoni. Una vicenda biografica agganciata alla terra d’origine, ma rapporti non casuali con l’ambiente udinese sono subito garantiti dal nonno materno, il notaio Antonio Belloni, che nel 1553 indirizza al consiglio di Udine una lettera in friulano (la scelta non è priva di risvolti pungenti): «Seff di Strasold, figl di m(isser) Fantuss, desydere iestri in cheste prime mude al Uffici dagl criminagl di cheste Magnifiche Communitat, et par havè luy di me tante confidentie ch’al crot ciert chu par me recommandation al debi ottignì lu so intent, io, par iestri luy figl di me figle, pover ciert may daben et virtuos, no pues fa ch’io no uus al recommandi chialdamentri […]» [Giuseppe di Strassoldo, figlio di messer Fantuzzo, desidera essere in questo primo rinnovo all’ufficio criminale di questa magnifica comunità, e per avere lui tanta fiducia in me che crede certo che tramite la mia raccomandazione debba raggiungere il suo scopo, io, siccome lui è figlio di mia figlia, povero certo ma dabbene e virtuoso, non posso fare a meno di raccomandarlo caldamente (…)]. La lettera, con quella grigia sequenza di aggettivi «pover ciert, may daben et virtuos», delinea con nitidezza una storia umana dimessa e vale comunque a stabilire un legame perentorio con il perimetro udinese. ... leggi Il corpus poetico tocca con varia cadenza la corda amorosa: tra lode e lamento, tra lusinga e rimprovero, si distende e si ingarbuglia nel resoconto delle piccole peripezie e degli appagamenti delusi. Al centro del gioco è, divertita e inaccessibile, «done Sefe», in cui si è ravvisata una esponente della famiglia Lovaria. Attorno alla protagonista ruota il balletto degli ammiratori, tutti, con la sola eccezione di una ombrosa figura d’oltre Livenza, legati da vincoli di amicizia, quasi di complicità con l’io narrante, il cui ruolo oscilla tra quello dell’attore e quello del cronista. Sfila dunque una galleria di personaggi: un cavaliere forestiero, un Partistagno, un Girolamo Gorghi, un Giorgio di Zucco, un «povar Colombat». Sorprende peraltro ritrovare Giorgio di Zucco, nel ritratto metrico emblema del paladino fedele e generoso, nella trama poco edificante di un intrigo udinese che sfocia nel 1563 in «un voluminoso processo». Sul banco degli imputati siede un gruppo di aristocratici goliardi e scapestrati, colpevoli di avere asportato dalla casa di Albarosa Cossio alcuni pezzi di armatura, che, in aggiunta al furto con effrazione, «avevano lordata la stanza, lasciando una carta sulla quale in lingua friulana era scritto un sonetto». I verbali documentano le ripetute insolenze degli accusati che, prima di costituirsi, inscenano una parodia di processo. Dalle testimonianze emerge che gli inquisiti «altra volta avevano rubato dei prosciutti alla stessa signora Cossio, che rubavano le merci esposte nelle vetrine dei negozianti, che alle donne che venivano dalla campagna a vendere sul mercato di Udine toglievano la roba dai cesti bastonandole, che giravano le campagne commettendo furti di pollame e d’altro, che per pura malvagità gettavano le persone nella roggia, e che si divertivano ad assalire le donne, in specie le giovani, ed alzate loro le sottane, gliele legavano sopra la testa a guisa di sacco, lasciandole nell’impossibilità di liberarsi da sé, e colle gambe esposte al vento e agli occhi dei passanti». E ancora: «il giorno della passione di Cristo, durante le funzioni erano entrati nella chiesa di Aquileia e tratte le spade s’erano messi a tagliare i banchi. Il capitano di Aquileia presente aveva imposto loro di smettere, minacciandoli di farli legare ‘come gatti’, ma essi, dopo esser stati a casa ad indossare le armature, erano ritornati in chiesa e, collocatisi presso l’altar maggiore, avevano cominciato a battere coi pugni sui banchi, e colle spade sugli elmi di ferro gridando ‘miserere’ ed ‘ora pro nobis’ con tal violenza che pareva volessero rovinare la chiesa. Cacciati dal capitano, colla forza, prima d’uscire disegnarono sulle pareti della chiesa, col carbone, delle figure pornografiche e dopo esser stati a cantare delle canzoni oscene all’indirizzo delle monache sotto le finestre del monastero, saltati a cavallo, s’erano rifugiati sul territorio veneziano» (Della Porta). Il confronto tra la personalità dello Zucco che si profila con crudezza nell’incartamento e la figura stilizzata nei versi suggerisce una più appropriata chiave di interpretazione della poesia. Si tenga inoltre presente che Giorgio di Zucco ha sposato una Lovaria e che lo stesso suocero partecipa alle bravate. Nella edizione allestita da Lorenzoni (e da questa si cita) i versi si distribuiscono in quindici componimenti: in apertura una lunga Canzone (o piuttosto frottola, con la sola rima al mezzo), tredici sonetti (nella quasi totalità caudati) e, a sigillo, un Testamento (nello schema della Canzone: già il titolo indica il filone parodico). I criteri adottati da Lorenzoni soffrono qualche eccesso di normalizzazione (e il riordino che stabilisce un disegno narrativo plausibile, con la Canzone in avvio e in punta il Testamento, non ha riscontro nel manoscritto). I testi sono stati considerati espressione genuina degli affetti e dell’orizzonte interiore. Quasi unanime (da Bindo Chiurlo a Gianfranco D’Aronco, da Guido Manzini ad Antonella Gallarotti) il ricorso al petrarchismo, categoria non generica e anzi cogente, ma nella scrittura sembrano prevalere le istanze del controcanto: lessico feriale, immersione nelle non distillate grevità del dialetto, affanni metrici, l’insieme delle situazioni – con lo spazio concesso al parlottio, con l’udienza data alla “silhouette” delle serve –, sono ingredienti che negano la codificazione “alta” e, negandola, ne costituiscono il contraltare ironico e ammiccante. Un rilassato gioco di società, a vantaggio di amici complici e implicati. Lo S. non si nega soluzioni sostenute, come «alte reine», «flor galant», «speranze biele» e, su altro versante, «radrose ombre» [ombra scontrosa], sintagmi peraltro acclimatati nella letteratura popolare. Non mancano contatti trasparenti con il petrarchismo. Un sonetto in particolare, in cui è stata riassunta in cifra questa poesia: «O biele man cu puarte la saete / e l’arc e la virtùt del miò signòr […] // O man blance qual nef ovér qual perle, / o man d’arìnt cu rez lu ciar d’Amòr, / o man cu par tociâ la bèstie berle; // o man sole cu dà ogni savòr / ’e lenghe del Strassòlt cu simpri zerle / in laude so emplàt di gran furòr; // o man d’ogni valòr / e del so cur radrìs sì dolze e fuart, / ate a tornâ la vite ad ogni muart» [O bella mano che porta la saetta / e l’arco e la virtù del mio signore (…) // O mano bianca come neve ovvero come perla, o mano d’argento che regge il carro d’Amore, o mano che al semplice tocco la bestia strilla; o mano che sola dà ogni sapore alla lingua dello S. che sempre zirla in lode sua pieno di grande furore, o mano di ogni valore e del suo cuore radice così dolce e forte, atta a restituire la vita a ogni morto]. Dove la parafrasi italiana basta a marcare gli stridori e dove si impone nella sua dissonanza la rima «perle» : «berle» (strilla, qui accoppiato con una equivoca bestia) : «zerle» (zirla, fischia, proprio del canto degli uccelli), dal forte impatto acustico. Il piano dell’elezione, che nel Petrarca mira a domare l’instabilità e la mutevolezza del contingente, nello S. ha sussulti sporadici e interferisce con sintagmi ben più diretti e sanguigni. I prelievi sono estemporanei, aleatori: non “citazioni”. «O sorte me crudêl, o vite di serpint, / o maladete jete spasamade» [O sorte mia crudele, o vita di serpente, o maledetta età tormentata] riflette forse «Questa vita terrena è quasi un prato, / che ’1 serpente tra’ fiori et l’erba giace» (RVF, 99, vv. 5-6). Ma la tematica amorosa non distilla metafore preziose, non si accanisce nell’analisi delle angosce e dei tormenti, si espande per contro in scelte di più immediata corposità: «Ni zove a meti sal su pe mignestre» [Né giova mettere sale nella minestra], «Miei è, o Sef, cu vadis mo’ a cïâ» [Meglio è, Sef, che tu vada dunque a cacare], «Fa cont cu tante zeve o ver zevole / simpri pal cuel e gole su mi vigni» [Fa’ conto che tanto scalogno o cipolla sempre mi rigurgiti dal collo e dalla gola], e via via, a respingere bruscamente l’etichetta del petrarchismo. A qualificare la lingua dello S. è proprio questo libero ingresso di un vocabolario comune e familiare, questo dettato oggettivo e insieme pittoresco, degradato e ammiccante. Non esemplato nell’autografo (e riferito dal codice Vaticano 13711) un sonetto che consente acquisizioni ulteriori: «Io paiares un solt, di zintil hom, / no iestri vuee iissuut quintre merchiaat, / ch’io sares ch’io credi mai intopaat / in che massarie ch’io no ii sai lu nom, // ma sta chun to parint chu Dioo ial lon, / chu tante male gnove e m’ha puartaat, / ni pues plui favelaa che m’ha accoraat, / ni mai sintii par Dioo tal pasion. // Io croot dret di murii s’tu no m’aiudis / e mai fami savee in curt lu veer / s’tu soos maridade sì ch’al si dis. // Io brami tant, Iosephe, iessi sinceer / quant, s’io fos muart, havee lu paradiis. / Soffle su prest, no staa a metti paver // chu ’1 dolor è sì feer / ch’io no pues padimaa pur un sol cit / e brami. S’tu vedes cho tas afflit, // tu dires: Ce alit! / Par une volte io sai ti mudares / dal solit to custum e lu fares, // e anghi tu sares / par Udin dut in chest tant laudade / quant su riine fos mo diventade» [Io pagherei un soldo, parola di gentiluomo, a non essere oggi uscito verso mercato, ché non mi sarei imbattuto credo in quella serva di cui non so il nome, ma sta con quel tuo parente che Dio lo benedica (?), che mi ha portato così brutta novità, né posso più parlare ché mi ha colpito al cuore, né sopportare per Dio tale strazio. Io credo proprio di morire se tu non mi aiuti e non mi fai sapere in breve la verità se sei sposata come si dice. Io bramo tanto, Iosephe, di avere un chiarimento quanto, se fossi morto, di avere il paradiso. Sbrigati, non tergiversare, ché il dolore è così grande che non posso avere tregua un solo istante e chiedo aiuto. Se tu vedessi come sono afflitto e silenzioso, tu diresti: Com’è consumato! Per una volta so che ti muteresti dal tuo solito costume e lo faresti, e saresti anche per tutta Udine per questo tanto lodata quanto se tu fossi ora diventata regina]. Lo scorcio della «massarie» evoca il rimbalzare del pettegolezzo (di livello “comico”, dato il rango sociale della informatrice), e le smanie della disperazione (enfatiche, ad uso di destinatari specifici) si inseriscono in tale cornice. Si osservi comunque come coesistano locuzioni proverbiali, fraseologia domestica («Soffle su prest, no staa a metti paver» con il valore di spicciati, non tardare, da affiancare all’italiano attaccare il lucignolo, dilungarsi in discorsi interminabili, attaccare un bottone) e, accanto al lessico più usuale e franto, riprese di stilemi aristocratici (gli ultimi versi) che nel contesto agiscono tra l’ironico e il melodrammatico: dove i due aggettivi non formano antitesi. Non tutto è limpido, ma importa il richiamo a Udine. La città disegna uno sfondo stabile per la storia calata nei versi e gli attori sono immersi in questo perimetro: anche la poesia dello S. va letta in prospettiva udinese, confluendo nel raccordo che connota il Cinquecento friulano, quando è la città a costituire un nodo di riferimento anche per autori che ne vivono lontani (i Morlupino, i Biancone). Un ritorno al Libro de mi Josefo Strasolt, il manoscritto autografo («un fascicoletto oblungo di 14 fogli cartacei piegati a metà, e legati con uno spago resistente») che trasmette i versi editi da Lorenzoni, conferma il radicamento urbano. Con i versi, marcati da pentimenti, da ritocchi non fortuiti, il manoscritto accoglie appunti contabili per il 1556 e il 1557. Lo S. registra una lista di oggetti avuti in prestito, ma soprattutto affitti di «morari» a nome del padre Fantuzzo: a una «librara», «a ser Zuanne barbier de Postcol», e via via. In un contratto del 23 febbraio 1557 si nomina il cancelliere in castello, ma si osservi una scrittura dell’11 aprile 1557: «Actum Utini in vico Divae Mariae domi mei […]». E si osservi ancora, sondando di passaggio la lingua impiegata: «1557 14 marzo Nota como io son accordato con Zuan Lizer et compagno de Paderno, mi deveno conzar tutte le vide del brolo ‘qui de Udene’ a loro spese tutte, et dar a terra quelle hanno di bisogno, et raclarmele in ordene, et io li dago […] li venchi che vano». Versi e voci contabili sono solidali: per l’arco cronologico in cui si dispongono e per le coordinate urbane in cui si situano: «Utini […] domi mei», «qui de Udene», scenario pertinente anche per una corretta definizione della vicenda letteraria.

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Bibliografia

Ms BCGo, 310, Libro de mi Josefo Strasolt; BAV, cod. Vat. Lat. 13711.

G. LORENZONI, Un poeta friulano nel Cinquecento. Joseffo Strassoldo, «Rivista della società filologica friulana», 5 (1924), 17-25 (Il poeta e l’opera sua) e 151-168 (I versi); G.B. CORGNALI, Scritti e testi friulani, a cura di G. PERUSINI, Udine, SFF, 1968, 150; G. DELLA PORTA, Teppisti aristocratici udinesi del secolo XVI, «Pagine friulane», 15 (1902-1903), 86-87; A. e L. DELUISA, Le chiese di Strassoldo e altre notizie, Strassoldo, Pro Loco, 1985, 11, 24, 65-66, 79; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 145-146; ID., Due sonetti inediti di Giuseppe Strassoldo e Il Goriziano tra Cinque e Settecento, in PELLEGRINI, Ancora tra lingua e letteratura, 97-106 e 297-324; A. GALLAROTTI, Letteratura goriziana in friulano, Gorizia, Stampa Goriziana, 2002, 15-18.

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