TOMMASINO DA CERCLARIA

TOMMASINO DA CERCLARIA

poeta

Immagine del soggetto

Pagina del Welsche Gast (Gotha, Forschungsund Landesbibliothek, ms Memb. I 120, f. 8v).

T. non è certamente il primo autore di opere didattiche medioevali in lingua volgare, ma, come ricorda Rocher, lo avevano preceduto gli Ensenhamens dei trovatori, il libro sulle belle maniere di Etienne de Fougères e il florilegio di Wernher von Elmendorf. Nessuna di queste opere può però stare alla pari con il Welsche Gast di T., che Rocher, il suo grande studioso, definisce «il primo grande scrittore didattico europeo che abbraccia la vita laica nella sua totalità». Come per la maggioranza degli autori di questo periodo, anche i dati biografici su T. sono ricavati esclusivamente dalla sua opera. È lui stesso a rivelarci il suo nome («Ich heiz Thomasin von Zerclaere», v. 75) e la provenienza («ich bin von Friule geborn», v. 71) nel prologo alla sua opera. Secondo Cormeau si identifica con il canonico “Thomasinus de Corclara” riferito nel necrologio della chiesa di Aquileia (Bibl. capit., Udine) senza l’indicazione dell’anno di morte. Nei documenti di quel tempo si parla di un “subdiaconus” di cui non si fa il nome (1236). Negli anni 1185-1198 è documentato un certo Bernardus de Cerclaria, un “miles de Foro Iulii” e uomo d’affari, che faceva certamente parte della nobiltà cittadina di Cividale. Non sappiamo però con certezza quali rapporti di parentela avesse con T. Secondo Grion sarebbe stato suo padre, ma non abbiamo dati certi. Sulla base di diversi atti fra il 1185 e il 1198, esaminati da Teske e Grion è invece possibile ritenere che T. appartenesse alla stessa famiglia di Bernardo. Per sua stessa ammissione, T. era un “welscher”, italiano di nascita e di lingua, anche se certamente esperto della lingua e letteratura provenzale («Ob ich an der tiusche missespriche / ez ensol niht dunken wunderliche / wan ich vil gar ein walich bin», “se faccio errori nella lingua tedesca, non si deve meravigliare nessuno, perché sono un italiano”, v. ... leggi 67). T. ci comunica il titolo del suo libro («min buoch heizt der welhisch gast», v. 14681) e anche per quale pubblico fosse stato scritto: il W. G. è un messaggio che T. offre ai Tedeschi (v. 99), quasi dono ospitale inviato in Germania da un poeta provenzale (Mittner). Nel dialogo fittizio con la sua penna (IX libro) T. ricorda il suo brillante passato mondano (vv. 12239-48) che consisteva nell’aver coltivato le belle maniere, assistito a tornei e danze, aver partecipato alla vita di corte e alle mondanità (vv. 12245-46). Sugli studi di T. non si sa nulla di preciso; alcuni critici (Rückert e Neumann) ritengono che abbia frequentato un’università, altri una “Domschule” («una di quelle scuole annesse al capitolo canonicale che sono attestate a Cividale e ad Aquileia»). Indubbia è invece la sua vasta cultura (T. usa spesso la formula “ho letto”, “ho udito e letto”, “mi ricordo di aver letto”), anche se le sue fonti non sono state ancora completamente esaminate. Sono chiaramente riconoscibili l’influsso dell’opera di Guglielmo di Conches (Moralium dogma philosophorum), di Alanus ab Insulis (Anticlaudianus e De planctu naturae) e di Giovanni da Salisbury. Si notano anche gli influssi di Gregorio Magno e di Boezio, e si può risalire fino a Seneca e Cicerone e alla tradizione della scuola del XII secolo. «Gli elementi in comune di un ambiente intellettuale rendono difficile dimostrare senza dubbio influssi specifici di Innocenzo III e del concilio laterano IV, di Arrigo de Settimello e Boncompagno da Signa» (Rocher). T. fu chierico presso la corte del patriarca di Aquileia, che dal 1204 al 1218 era Folchero da Erla, principe imperiale ecclesiastico in Friuli, con diritti sulla Carniolia e sull’Istria, già vescovo di Passau. Come rileva Rocher, dopo aver finito il suo W. G., T. aveva davanti a sé una carriera di poeta mondano, consigliere e moralista, chierico-funzionario, probabilmente alla cancelleria patriarcale. T. conosce bene gli eventi del suo tempo, che ha trattato soprattutto nell’VIII libro: le lotte nelle regioni italiane, il conflitto fra Francia e Inghilterra, le correnti eretiche in Provenza, Spagna, Lombardia e in Austria, l’ascesa e il tramonto dell’imperatore Ottone IV. Si suppone che sia stato alla corte di Ottone quando questi scese in Lombardia, probabilmente nel settembre-ottobre 1209, e che abbia partecipato, insieme al patriarca Folchero, al corteo che si recava all’incoronazione di Ottone a Roma (1209). L’opera fu scritta (e non dettata come afferma T. stesso) nell’inverno 1215/1216 e l’autore impiegò otto mesi. T. non aveva allora ancora compiuto i trent’anni (v. 2445), il che ci fa collocare la sua data di nascita intorno al 1186. T. ricorda infatti che erano passati 28 anni dalla presa di Gerusalemme da parte del Saladino (vv. 1715-16). Il W. G. si compone di circa 14.800 versi rimati, con un prologo sulla dottrina del comportamento e 10 libri, a loro volta suddivisi in capitoli di diversa lunghezza. Rocher, come già Rückert, preferisce parlare di “parti” (“partie”) piuttosto che di libri, mantenendo il termine usato anche da T. (“Teil”). Lo sforzo di coerenza logica è visibile in tutti i libri del W. G., a cominciare dal riassunto in prosa che compare in quasi tutti i manoscritti. È notevole quanto fossero chiari i suoi intenti per essere stato capace di condensare in 10 pagine quanto dirà poi in quasi 15.000 versi. Se secondo il Mittner il W. G. è «l’unico trattato completo sulle virtù cavalleresche e sulle virtù in genere che sia stato scritto nel Medioevo in lingua tedesca», de Boor e Cormaeu hanno sottolineato il fatto che l’opera di T. non mira alla sistematicità, a creare una dottrina delle virtù, bensì a offrire un insegnamento pratico di comportamento per laici, una guida morale ai suoi lettori. Suo modello non è il trattato, ma la predica. T. è fondamentalmente un conservatore: come Walther von der Vogelweide, crede nella validità degli ordinamenti costituiti che hanno un solo punto di gravità costituito dalle due classi dirigenti: nobiltà e clero (“sacerdotium et imperium”). T. si rivolge soprattutto ai «vrume Riter, guote Vrouwen, wise Phaffen» (“pii cavalieri, donne perbene, saggi preti”, 1465 s.): alla classe dominante, ai signori feudali (laici ed ecclesiastici) e poi ai cavalieri del Dienstadel ed anche i clerici, che, in virtù al loro ufficio, appartengono alla classe dominante. È vero che delle classi sociali fa parte anche il commerciante e il contadino, ma T. non considera la città e la sua borghesia come fattori essenziali dell’ordinamento sociale e politico. Non usa la parola “Bürger” (cittadino, borghese) e nomina il commerciante solo raramente e in senso negativo (14391 ss.). Per T. il commerciante appare come un «Wuocheraere» (usuraio) e «Samenaere», esemplificazioni di due vizi che T. esecrava particolarmente, la sete di guadagno e l’avarizia. Egli vede dunque il commercio con l’occhio dell’ecclesiastico e lo condanna in base ai criteri della Chiesa di allora. Il I libro occupa una posizione del tutto particolare rispetto all’opera completa. È una vera e propria dottrina dell’educazione e del comportamento cortese, che comprende anche le buone maniere a corte e a tavola. Nella conclusione T. riprende quasi 400 pagine (vv. 1174-1552 ss.) della sua precedente opera in provenzale Enhansamen (che chiama «uoch der Hüfscheit») che conteneva la sua dottrina dell’amor cortese e i consigli per un corretto corteggiamento. Qualche critico ha ritenuto in questo modo che T. avesse deprezzato il suo Ensenhamens, considerandolo solo come opera didattica scritta per i giovani che non possiedono ancora una cultura cortese. Ma bisogna tener presente che la prima parte è stata scritta espressamente per l’“edelin Kint” (Kint significava allora adolescente), mentre agli adulti sono riservate altre mete e altri mezzi culturali. Le letture esemplari che T. consiglia per l’educazione dei giovani nobili sono le storie degli eroi cavallereschi: Gawein (dall’“eccellenza senza macchia”), Cliges, Erec, Iwein, “il nobile re Artù”, “re Carlo, il buon eroe” (I, 1041-48) ed anche Alessandro, Tristano, Segremors e Kalogreant (I, 1050 e ss.). Nonostante che, secondo l’opinione di T., «spesso le poesie [fossero] rivestite di menzogne», egli poteva ugualmente considerare valida la poesia anche se solo per coloro che non sono in grado di concepire la vera saggezza. «Sebbene la poesia ci presenti delle menzogne, non la rimprovero perché contiene simboli dell’educazione cortese e della verità» (I, 1121-25); «[…] Se le storie inventate non sono vere, esse rappresentano tuttavia simbolicamente ciò che ogni persona deve fare se vuol condurre una vita esemplare» (I, 1131-34). Questo I libro costituisce una specie di propedeutica alla dottrina dei principi che inizia con il libro II. I “Vürsten” e i “Herren” (i principi e i signori), per poter essere di esempio (“guot Bild” e “Spiegel”) a tutti, devono ricevere un’educazione ben superiore a una «Hof-Zuht» (educazione di corte). A un nobile signore si richiedeva in particolar modo un comportamento virtuoso, perché alla nobiltà della sua nascita doveva corrispondere la nobiltà dei sentimenti. Tale esigenza era profondamente sentita anche nei poemi cavallereschi (Bumke). T. parte dalle quattro virtù, “Staete”, “Maze”, “Reht”, “Milte” (fortezza, giustizia, diritto, generosità/liberalità) che corrispondono però solo parzialmente alle quattro virtù cardinali del sistema ecclesiastico, “prudentia, iustitia, fortitudo, temperantia”. La “Staete” (fortezza) gode di una considerazione superiore alle altre tre virtù che le sono subordinate, in quanto costituisce la base della “virtus”, e quindi T. le dedica lo spazio più ampio, particolarmente nel II libro. Qui la virtù della “Staete” (fortezza) viene estesa all’ordine cosmico (e T. coglie l’occasione per impartire una lezione di fisica e astronomia). Ad essa T. contrappone il disordine umano, esemplificato dagli eventi politici del suo tempo. La “Staete” ha una dimensione sacrale, in quanto costituisce l’“ordo”, la misura, l’ordine della creazione divina (Ehrismann). Il III libro definisce la “Unstaete” (l’opposto della “Staete”, quindi l’inconstanza) come l’abbandono dell’ordine e la esemplifica nei 6 “beni” transitori (“bona fortunae”): signoria, ricchezza, potenza, gloria, nobiltà e voluttà (“Herschaft, Richtuom, Maht, Name, Adel, Gelust”). T. riprende la teoria di Cicerone e la sua suddivisione in “bona fortunae” e “bona corporis”, il che aveva costituito una delle più importanti dottrine sulle virtù del XII secolo. Questa dottrina era stata ripresa da Guglielmo di Conches nel suo Moralium dogma philosophorum, secondo il quale non c’era una differenza fondamentale fra l’“honestum” e l’“utile”. T. che conosceva bene quest’opera e l’usò come fonte, ha introdotto una distinzione rispetto alle dottrine precedenti: i beni dell’utile sono ambivalenti, possono essere contemporaneamente buoni e cattivi. «Uomini e donne possiedono cinque cose nel loro corpo e altre cinque che non sono legate al corpo. Su queste deve dominare l’anima, altrimenti causano grandi vizi nei vecchi come nei giovani. […] Chi non sa combinare con la ragione questi 10 beni non può chiamarsi uomo» (9721-42). Il IV libro tratta dei “bona fortunae”, a ognuno dei quali corrisponde un vizio. Il V libro sviluppa i principi metafisici dell’ethos: Dio è l’“oberstez Guot” (il bene supremo), verso il quale ci guidano le virtù, mentre il diavolo e i vizi, ci attirano in direzione opposta. In mezzo stanno le sei “Dinge” (“bona”), la cui determinazione etica dipende dal modo con cui sono usate. Questa ambivalenza, esemplificata dall’allegoria della scala dei vizi e delle virtù, ha avuto anche una gustosa raffigurazione dall’illustratore del manoscritto (cfr. VIII libro). Il V e il VI libro propongono un nuovo sistema e nuovi simboli, che culminano nell’allegoria del combattimento del cavaliere armato di virtù contro le schiere dei vizi (VI libro). Questo combattimento allegorico costituisce un topos nella letteratura e nelle arti figurative che risale all’antichità classica. La descrizione procede per tre stadi: l’autore presenta la schiera degli avversari (i sette vizi capitali), capeggiata da “Uebermuot” (superbia), poi descrive in modo particolareggiato l’armatura del cavaliere e del suo cavallo, ogni parte della quale è collegata a una virtù, e infine il combattimento, secondo i canoni dell’epoca. Il VII libro sottolinea il ruolo importante dell’intelletto umano in campo etico che si esprime con le quattro facoltà “imaginatio, ratio, memoria, intellectus”. Vuole aiutare a combattere il vizio con un exposé antropologico al quale si aggiunge una presentazione del sistema delle scienze (le sette arti liberali, “Physica e Divinitas”, la teologia). Seguono i 5 pregi fisici ed esteriori (le “Dinge” tranne “Gelust”, la voluttà). L’VIII libro è dedicato alla virtù della “Maze” (misura), un fondamentale principio etico, che costituisce l’equilibrio fra l’eccesso e il difetto. Senza questa virtù ogni azione si trasforma nel suo contrario, diventa vizio. Un esempio di “Uebermut” (corrispondente alla greca “hybris”) è rappresentato, secondo T., dall’imperatore Ottone IV. Contro la critica rivolta al papa da W. von der Vogelweide, T. contrappone l’appello alla crociata rivolto ai cavalieri tedeschi e al re Federico. Il tema dell’VIII libro è il trattato sulle “sehs Dinc” (i sei “bona”), che è stato già anticipato nel III libro (cfr. il saggio di C. Dietl). Dio ha fornito all’uomo insieme all’intelletto la “Staete” (“fermezza”, “costanza”), che costituiva l’intima unione fra l’ordine divino e il libero arbitrio, ma essa era stata distrutta da Adamo mediante il peccato originale. In compenso l’uomo ha ottenuto la scienza del bene e del male, la capacità del discernimento etico. Così la perdita della “Staete” donata da Dio ha dato origine all’etica, la cui meta è la riconquista della “Staete”. Le virtù, com’è detto espressamente nel V libro, costituiscono la scala che porta a Dio. Sei “cose” (vizi) però cercano di portare l’uomo per la via opposta, quella che conduce al diavolo: sono le stesse “sehs Dinc” (sei “beni”) di cui si parla già nel III libro, che inducono l’uomo a spezzare l’ordine dato: “Adel, Maht, Gelust, Name, Richtuom, Herschaft” (nobiltà, potenza, voluttà, origine, ricchezza, signoria), che T. definisce “gli uncini del diavolo”. Questa allegoria, particolarmente significativa, è stata illustrata con variazioni nei diversi manoscritti ed è rappresentata dalla scala che da una parte conduce al cielo, dall’altra all’inferno e su cui un uomo sta cercando faticosamente di salire. I singoli pioli della parte superiore portano i nomi delle virtù, i pioli spezzati della parte inferiore, che conduce all’inferno, i nomi dei vizi. Ai lati della scala stanno i diavoli, tre per parte, forniti di uncini con cui cercano di far cadere l’uomo e che portano a loro volta delle scritte con i nomi dei vizi. Questa illustrazione riassumeva in modo molto pregnante tutta una serie di considerazioni che l’autore esemplificava successivamente in ben 300 pagine. Il IX e il X libro si attengono più strettamente al tema “morale”. Il libro IX tratta del diritto, e in particolare i diritti e i doveri del signore, cioè l’ambito sociale, mentre il X prende in considerazione la “Milte” (generosità/liberalità), considerata la virtù precipua del vero signore. Anche nell’opera di T., come in quella di Walther, risuona la “laudatio temporis acti” che è una caratteristica del suo tempo. «Da cosa dipende il fatto che oggi non si trovano più persone virtuose come un tempo?» (V, 6281-83) si chiede T. Egli attribuisce la responsabilità della decadenza morale ai nobili, soprattutto ai grandi signori feudali che non si circondano più di persone capaci e intelligenti, ma solo di malvagi e usurai. Nei riguardi di questi ultimi, come pure dei commercianti, T. esercita una critica molto aspra. È il denaro a governare le corti e chi non è ricco non esercita alcun influsso (V, 6301 ss.). Non ci sono più gli Erec e i Galvano (celebri eroi del ciclo arturiano) «perché in nessuna parte del paese c’è un re Artù» (V, 6328-29). Secondo H. Schüppert il motivo dello straordinario favore che il W. G., opera piuttosto pesante, godeva sia presso i lettori che presso gli ascoltatori consisterebbe nell’aver illustrato vizi e virtù mediante esempi e immagini tratti da testi ben noti al pubblico. Le allegorie di T., che H. Schüppert analizza nel suo saggio, sono di diversa provenienza, sono tratte dalla vita quotidiana (storia, Bibbia e letteratura) e dalla natura. Il mondo quotidiano preso in considerazione da T. è soprattutto quello dei nobili, mentre la rappresentazione del mondo del clero rimane più scialba. Per indicare le conseguenze cui può portare il desiderio di potere, T. è ricorso ad esempi tratti dall’antichità classica: Alessandro, cui il destino concesse solo dodici anni di sovranità, Cesare, che ne ebbe solo due, Ettore e Annibale. In particolare l’uccisione di Cesare e di Ettore sono stati commentati più diffusamente da T., e anche scelti come esempi dall’illustratore del manoscritto. Le allegorie di origine naturale provengono dal mondo vegetale e animale, ma anche dal cosmo. Sole e pianeti, vento e intemperie, piante e pietre vengono scelti quali immagini corrispondenti o contrarie nel mondo umano (Schüppert). Due esempi gustosi tratti dal mondo animale sono quelli del lupo e dell’orso che ci ricordano le favolette del mondo classico. L’orso che non imparerà mai a cantare simboleggia l’uomo limitato dalle sue basse origini. Quando al lupo, simbolo dell’avidità e dell’ingordigia, mentre il “magister” cerca di insegnargli il Padrenostro, non sa far altro che ripetere “Lamp, Lamp” (agnello). Anche in questi esempi si manifesta lo spirito conservatore di T. che si mantiene fedele all’interpretazione tradizionale del mondo animale, com’era noto al pubblico tramite enciclopedie, prontuari di storia naturale, ma anche testi teologici e di critica (Schüppert). Un’allegoria originale è quella presa in considerazione da Rocher (1995): il dialogo di T. con la sua penna come esempio della sua “ars oratoria”. Rocher voleva dimostrare come l’autore, pur avendo rinunciato alla conversazione di società (le “nugae curialium”), non avesse rinunciato ad ogni forma di “delectatio”, anche se una “delectatio christiana”. A T. è stata rimproverato la limitatezza del patrimonio lessicale, la preferenza per concetti generali, la povertà del repertorio di rime, difetti dovuti al fatto di non essere di madre lingua tedesca (Reininger), mentre la presenza di certi dialettismi rivelerebbero l’influsso della lingua parlata (come ha notato in particolare Ranke, 1908). È stato anche rilevato che ai suoi versi «manca la levigatezza dei grandi narratori del suo tempo» e che «rima e metro corrispondono solo in modo imperfetto alla norma» (Cormeau). Ciò era dovuto probabilmente al fatto che a T. stava più a cuore il tema da lui trattato che non la forma e lo stile. D’altra parte Rocher rileva che «anche se i versi di T. non sono poesia, sono il discorso eloquente di un uomo colto, accorto, ardente e sincero, che sa sviluppare un’argomentazione, raccontare una favola, forgiare formule concise e vigorose».

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Bibliografia

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