SARPI PAOLO

SARPI PAOLO (1552 - 1623)

servita, consultore in iure della Repubblica Veneta

Immagine del soggetto

Busto di Paolo Sarpi, gesso di Filippo Parodi (Udine, Civici musei).

Nacque a Venezia nel 1552 e vi morì il 15 gennaio 1623. Il padre di P. S. «fu Francesco […], originario per gli avi suoi di San Vido, della patria del Friuli». Questi, narra il biografo Micanzio, «fu per traffico anco in Soria»; era uomo feroce, «più dedito all’armi ch’alla mercatura, in quale anco ebbe i successi che l’indussero a basso stato». A fronte di questo volto malevolo del padre di S., splende quello della madre: Isabella Morelli, la quale «venne in fama di singolare santità». Un padre friulano, dedito «all’arme, alle braverie»; una madre veneziana dedita «alle devozioni» e «a’ digiuni». Verrebbe fatto di domandarsi se il servita non avesse ereditato da altro antenato della Patria del Friuli qualche tratto del carattere rilevato da Micanzio nel S. fanciullo: un tratto, si potrebbe dire, peculiarmente “friulano”. Per esempio, la «ritiratezza in sé medesimo, un sembiante sempre penseroso […], un silenzio quasi continuato, una quiete totale», e poi la sobrietà: quotidiane virtù che «ha servato tutta la sua vita». Ma forse, per riferirsi ancora a delle “identità regionali”, v’è un ultimo tratto “friulano” del carattere del S. che andrebbe rilevato: ed è la laboriosità, l’operosità, il senso “stoico” del dovere. Non per nulla, il 14 agosto del 1612, proprio un mese dopo aver redatto un decisivo consulto sulle giurisdizioni delle terre del Friuli nel corso di una aspra controversia con il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro, all’ambasciatore inglese sir Dudley Carleton, che a nome del re Giacomo I aveva invitato il servita a recarsi in Inghilterra, il S. rispondeva: «Io son qui (secondo che credo) per volontà divina, dalla quale sono stato adoperato per debole instrumento di far qualche cosa a gloria sua […]. Oltre che reputo esser in obligo per debito civile di perseverare servendo il mio padrone, sin che la mia servitù li è accetto, e se occorresse morire per quella (come son stato in pericolo che m’avvenisse), non mi contristarei» (Opere: 647). Nella Vita del padre Paolo Fulgenzio Micanzio narra, infatti, degli anni spesi dal S. come consultore della Repubblica e segnala che il servita «nel pubblico servizio in progresso di tempo, fu trovato così assiduo, così fedele, così al ben del suo prencipe infervorato, che la serenissima e secrete, vedere e maneggiare tutte le scritture del Stato e governo». Ora quell’«ingegno incomparabile» aveva raggiunto una padronanza tale che «sapeva i luoghi ove ritrovare qualunque particolarità», tanto che la sua mente «pareva la stessa secreta, ove prontamente senza fatica ciascuno nella sua viva voce potesse leggere tutto quello ch’avesse o necessità o curiosità di sapere». Peraltro, affinché questo importante uso dei documenti «non perisse con la sua vita», S. fece «tante chiarezze, note, registri, ch’ha molto facilitato l’uso per tutti i tempi»: una simile organizzazione concettuale ha mostrato «il giovamento per bene fondare le cause» nelle «trattazioni, o de’ confini, o di giurisdizione, che durante il suo servizio sono accadute». Del resto, aggiunge il Micanzio, «l’eccellentissimo senato sa l’importanza di tal servizio e quello ch’abbia rilevato in varie negoziazioni nel suo tempo [di S.] occorse. ... leggi Perché l’allegazioni ‘in iure’ importano assai, et in queste ha avuto et ha sempre la serenissima repubblica de’ più gran soggetti d’Europa di che valersi; ma tutto è niente rispetto alla dilucidazione de’ fatti che si cava da’ pubblici documenti». Si è ottenuta più volte attestazione dell’importanza di questo metodo «in materia de’ confini del dominio antichissimo del Golfo, delle giurisdizzioni di feudi o precarie di Ceneda et Aquileia s’è provato nelle trattazioni in suo tempo seguite»: non per caso, «per questo rispetto gl’ecclesiastici mai hanno potuto portare cosa che vaglia, né trovato che opponer a’ fondamenti veri, reali e sicuri della serenissima repubblica». In una stesura manoscritta della biografia sarpiana il Micanzio esemplificava con una certa ampiezza il prezioso lavoro del consultore per i casi giurisdizionali di Ceneda e di Aquileia. Infatti egli osserva che la stessa fatica e diligenza mostrata per il caso di Ceneda padre P. usò «anco per quello che appartiene alle terre patriarcali di Friuli»: basandosi su «verità del fatto», chiarendo che «li patriarchi d’Aquileia possedevano la Patria del Friuli sempre come feudatari degl’imperatori, riconoscendoli per sovrani in tutte le maniere, che nelli feudi di tale natura si ricercano, ricevendo l’investitura, prestando il giuramento, servendo all’Imperio com’era loro debito, sino che Lodovico duca di Teka del 1412 unito con Sigismondo re de’ Romani, con potentissimo essercito assaltò lo Stato della serenissima repubblica». Venezia allora «s’armò a difesa e fu da Dio protettore della giustizia favorita» sicché dopo otto anni, nel 1420, «restò padrona interamente del Friuli e si conservò l’acquisto coll’arme, e lo stabilì nel 1437 con tregua di 5», decretando esplicitamente che Sigismondo possedesse «in dominio utile e soprano». Nel 1499 poi, «per gli offici del pontefice continuati e per quella singolar pietà, con quale dalla sua origine [Venezia] ha favorita la Chiesa e la religione, si indusse a fare al patriarcato d’Aquileia l’entrata di 3000 ducati», parte dei quali doveva ricavarsi da terre friulane quali San Vito e San Daniele, la cui giurisdizione Venezia donava al patriarca «con riserva però di quelle cose che sono espresse in quell’istromento che senza alcun dubbio comprendono la sopranità, sì come di tempo in tempo la serenissima repubblica ha essercitata». Senonché il Micanzio informa dei consulti, ma tace di un’opera più importante, il Trattato sulle giurisdizioni del Friuli. Ha rilevato un autorevole studioso, Corrado Pin, a proposito del silenzio del Micanzio che «sarebbe illusorio attendersene un’esplicita menzione nella Vita, necessariamente reticente sulle materie che “toccano il governo”; ma anche nei suoi consulti un richiamo al trattato, e quindi un invito a leggerlo, non doveva sembragli prudente». Probabilmente alla classe dirigente veneziana, «preoccupata di mantenere buoni rapporti con Roma e con i patriarchi aquileiesi», l’atteggiamento «intransigente» del S., il quale incitava la Repubblica «all’azione energica per reintegrare i diritti statali intaccati dai patriarchi» pareva inopportuno. Peraltro, al confratello e biografo di Sarpi dovette sembrare «controproducente» quella coscienza di «superiorità di carattere intellettuale e morale» che aveva mosso il consultore «a denunciare errori diplomatici e scarsa dedizione all’interesse pubblico di una parte almeno del patriziato». È da ricordare che si era riaccesa, quasi per mero accidente, la vicenda giurisdizionale del patriarcato di Aquileia. Un giovane avvocato sandanielese, Giusto Carga, che si trovava a Venezia per chiedere l’annullamento di alcune sentenze patriarcali, venne arrestato per ordine del patriarca Francesco Barbaro, pronipote del diplomatico e umanista Francesco Barbaro e condannato ad otto anni di prigione in seguito ad un processo sommario e irregolare. Il Carga, tuttavia, fu rilasciato grazie ad una formale ritrattazione delle sue accuse al patriarca, nonché per l’interessamento diretto di alcuni amici del S. Appena scarcerato, si appellò al collegio denunciando i soprusi e le ingiustizie subite, invocando soprattutto i fatti del 1445: egli chiese «per nome di tutto il popolo» che venissero abrogati gli statuti e altri provvedimenti promulgati dal patriarca a San Daniele, provvedimenti che egli dichiarò lesivi dei privilegi della comunità e della sovranità veneziana. Il dibattito tra il S., che prese le parti dell’avvocato, e Francesco Barbaro si sarebbe protratto per mesi. Vero è che, con la morte, il 16 luglio 1612, del doge Leonardo Donà, P. S. perdeva il suo più autorevole sostenitore. Nel darne notizia a Roma, il nunzio aveva potuto con soddisfazione aggiungere che «fra Paolo servita si trova infermo e dicono che il male sia grave e pericoloso». A causa della malattia il S. consegnò solo il 30 luglio i suoi due consulti su Aquileia. Le due lunghissime e dense scritture, frutto di ricerca di prima mano e di un vasto materiale in parte rintracciato da Erasmo Graziani, in parte reperito negli archivi del Senato e del consiglio dei Dieci, attestano «un’indagine sistematica ben altrimenti impegnativa del pur coscienzioso ma ordinario lavoro degli altri consultori». Ma, «benché rispondano compiutamente al mandato del Senato di affrontare in tutta la complessità la questione giurisdizionale», le due scritture denotano «un’urgenza che poco s’addice a una sistematica ricerca di carattere generale» (Pin). Esse risentono di un «assillo di sbarazzarsi oltre che delle tesi della parte patriarcale, anche delle sode argomentazioni dei due colleghi consultori», Servilio Treo e Marc’Antonio Pellegrini, il che induce S. a scendere «sul loro terreno, nell’angusto ambito della diatriba giuridica». Tuttavia, una volta «pagato lo scotto della lizza avvocatesca, il consultore affronta le stesse obiezioni sul piano politico e con sicurezza, ma sempre attento a non sconcertare l’uditorio», anzi guidandolo passo passo con l’ausilio di un linguaggio non specialistico. Proprio in questo risiede «l’originale differenza dagli altri consultori e la maggiore forza di convinzione», con la quale «riesce ad imporre la sua moderna visione dello Stato», mettendo i dirigenti nella necessità di operare una scelta che, per quanto prudente, risultasse esente da equivoci. «Senza una preliminare risoluzione della questione della sovranità, per il S. ogni altra analisi teorica o consiglio pratico sarebbero risultati precari». Le due scritture sarpiane radunano e organizzano un notevole quantitativo di dati sulla questione di Aquileia, senz’altro «il lavoro più imponente e organico scritto fino ad allora sui rapporti tra la Repubblica e il patriarca di Aquileia», riuscendo a demolire tutte le tesi degli avversari. Si tratta di una «improba fatica» di fronte «a quello scomodo documento che era la transazione del 1445», che inquieterà il S. a causa dei punti oscuri e delle contraddizioni sui quali i patriarchi facevano aggio per rivendicare la loro sovranità (Pin). Quel documento costrinse Sarpi a notevoli «acrobazie dialettiche» per non dover ammettere «quanto Treo e Pellegrini avevano avanzato come verità lampante», ossia che Venezia aveva ufficialmente accordato, attraverso le dichiarazioni dei suoi giureconsulti e dei suoi magistrati, l’indipendenza del patriarca. Nel consulto del 30 luglio 1612, in epilogo, P. S., rilevando che il patriarca Giovanni Grimani il 21 giugno del 1580 «producesse e facesse leggere una lettera scritta 140 anni inanzi da papa Eugenio IV al cardinal S. Clemente suo nipote, legato in Venezia», la quale lettera «non è come di pontefice, ma di privato e inconcludente», e rilevando altresì che Grimani «usò questo modo di parlare, che la giurisdizione sua è separata da quella della Serenissima Repubblica e che non depende dalla superiorità sua», il S. denuncia siffatto «modo di parlare», auspicando che «sarebbe ben condecente che se chi ha la ragione se ne vale con modestia, molto maggiormente chi non l’ha s’astenesse dalle parole pregiudiciali agli altri» (Consulto 30 luglio 1612, seconda). Ora, è da rilevare che in un consulto del 15 settembre 1618 intitolato Carico di consultor in iure della Repubblica, P. S. si difendeva da quegli avversari che cercavano di ridimensionare l’incarico affidatogli, e lo faceva con «piglio risoluto, vigoroso, contrapponendo il suo metodo a quello dei giuristi» e precisando quanto, in virtù di esso, egli fosse «riuscito a realizzare nelle maggiori questioni che gli era stato dato di trattare». Osservava il S. in apertura del consulto: «L’ufficio del consultor in iure è rispondere quel che è di raggione nel fatto o caso over negozio che gli vien proposto». Per rispondere de iure nelle scuole «non vi si ricerca altro che una buona cognizione delle legi perché li casi si propongono in termini universali che non ricevono varietà e quel che una volta è ben discusso serve per sempre». Senonché, scrive il S., questo è il metodo seguito nelle scuole: perché poi v’è la varietà dei casi particolari. Infatti egli così rileva: «ma a consultare nei casi particolari oltra la cognizione delle legi vi vuole esquisita notizia del fatto cioè del negozio con tutte le sue particolari circostanze et è regola di giuriconsulti che qualunque minima variazione di circostanze muta tutta la raggione in iure». Persino nelle cause di privati «non può un consultore rispondere con fondamento» se non intende pienamente «tutta la continenza del fatto e studiate tutte le scritture e tutte le parti loro». E prosegue: «et una minima scrittura tralasciata et anco un minimo passo di scrittura et una minima occorrenza non saputa rende il conseglio inutile e non applicabile». Icastica risulta la conclusione di questo incipit: «La Serenissima Repubblica può tener consultori per riputazione che abitino lontani da Venezia et a qualche occorrenza siano chiamati, ma se fossero li più periti che il mondo abbia avuto, se prima non averanno studiato le scritture sopra quali s’ha da far ‘fondamento tutte intiere’, non daranno conseglio che valga» (Opere: 464). Dunque, come è stato osservato, si trattava di un atteggiamento «pragmatico, che il servita esplicitamente contrapponeva al modo di argomentare teorico praticato nelle scuole di diritto». Difatti, per poter cogliere «la dimensione di una vicenda sulla quale doveva esprimere un parere», il consultore non poteva «avvalersi semplicemente del dettato delle leggi o di argomentazioni teoriche»: solo «un’attenta ricostruzione storica e documentaria avrebbe potuto aiutare il consultore a comprendere la reale portata della vicenda sulla quale egli era chiamato a rispondere». Intanto, dopo la premessa di metodo, S. passa a ricordare il suo impegno di consultore. Dopo la materia di Ceneda v’è stata la materia di Aquileia, la quale è stata studiata «diligentemente per deliberazione dell’eccellentissimo senato e con visione non solo delle scritture che erano adunate, le qual erano poche, ma de tutte anche le sparse per i libri [ritorna qui il peculiare stilema sarpiano di ‘tutto intiero’] e dilucidata in maniera adesso che la superiorità della Repubblica quale era posta in dubio da alcuni resta senza difficoltà». ‘Difficoltà’ risulta un lemma peculiarmente sarpiano: e si direbbe che l’impegno e la fatica dell’ultimo S. sfidino le difficoltà secondo una immagine che ci è resa viva anche nella Vita del padre Paolo. Intanto, per ritornare alla controversia sulle giurisdizioni del Friuli, è da rilevare che gli abitanti di San Vito non erano rimasti a guardare l’iniziativa politica degli abitanti di San Daniele: anzi, è probabile che l’avvocato Carga fosse d’accordo con Giulio Linteris, un feudatario sanvitese, per portare insieme le proprie rimostranze a Venezia, sulla base di un’azione comune, per ciò stesso più difficile da contrastare. Tuttavia, una serie di circostanze tolse incisività all’azione dei feudatari di San Vito: «la sordità dei veneziani nei loro confronti, la sorte del Carga», ucciso da un fautore del patriarca, «la violenza delle minacce patriarcali, l’emanazione di un nuovo statuto che abrogava quello del 1597». Nonostante le suppliche dei singoli feudatari, nonché della comunità e del consorzio dei feudatari d’abitanza, la Serenissima prese in considerazione la questione di San Vito solo nel 1619, delegandone lo studio ai provveditori sopra i feudi – e dunque, indirettamente, a S. In quell’anno sia la comunità che il consorzio feudale si erano rivolti alla Repubblica, chiedendo di riottenere i propri diritti giurisdizionali e rivendicando entrambi di possedere «il privilegio dell’astanzia e sostenendo di esserne stati sostanzialmente esautorati dal patriarca». Osserva in proposito Folin che il concetto di “rappresentazione” è stato solo recentemente applicato alla storia sociale, poiché a lungo confinato in discipline quali la storia dell’arte o l’antropologia. È sulla base di questo concetto che si possono decifrare le richieste rivolte a Venezia dalle parti, individuando uno scarto tra la percezione che i notabili volevano trasmettere di sé e le consistenze dei rapporti sociali che li definivano. Se, infatti, i ceti eminenti di San Vito e di San Daniele erano sostanzialmente «simili per origine sociale, radicamento nella comunità e modi in cui esercitavano la loro egemonia», profondamente diverso fu il modo di rappresentare se stessi. Queste differenti rappresentazioni influenzarono S. e i funzionari veneziani, che le recepirono modificando la propria posizione a seconda della controparte con cui trattavano. E proprio il fatto che tali immagini venissero «ratificate» dalle magistrature della Repubblica avrebbe finito per condurre i notabili delle due comunità «ad introiettare le rappresentazioni da essi stessi create e identificarsi con esse». Anche in occasione della controversia per San Vito il S. si impegnò per produrre prove in sostegno della sovranità veneziana: tuttavia, nonostante il suo ottimismo (testimoniato dalla minuta, redatta nel 1621, della parte con cui sarebbero stati cassati tutti gli atti patriarcali anche nel secondo castello friulano), la pratica non fu più continuata. Dunque, S. raggiunse solo parzialmente il suo scopo ultimo, quello di estromettere ogni potere estraneo che impedisse alla Repubblica un esercizio della sovranità «senza discriminazioni e inflessibilmente». La spiegazione di un così repentino mutamento di condotta del collegio, che inizialmente aveva attribuito molta importanza al caso di San Vito, può trovarsi guardando alla situazione internazionale e, di riflesso, a quella di Venezia in quella fase. Quanto il 1619 era stato per S. e i suoi sodali un anno di speranze, tanto il 1620 si rivelò rovinoso, poiché vide il trionfo dell’impero e della Spagna. A Venezia «il patriziato ‘papalino’ filo spagnolo e pacifista cresceva in potenza nei maggiori consessi della Repubblica», tanto che persino il prestigio del S. era in declino. In questa drammatica situazione Venezia aveva optato per una scelta prudente anche nel caso di San Vito. Con questa drammatica situazione s’intreccia probabilmente la stesura del Trattato sulle giurisdizioni del Friuli. Così S. comincia il suo Trattato: «Ducent’anni sono che per salutifera ventura dell’Italia la Patria del Friuli venne sotto il dominio della Repubblica, la quale, se dove allora fu vittoriosa nelle guerre eccitate contra di lei in Trevisana e Cenedese da Sigismondo imperatore e Lodovico duca di Teck patriarca d’Aquileia, per il contrario fosse rimasta perdente, la Marca Trivisana sarebbe fatta un membro di Germania e aperta la via a ritornar l’Italia nel cattivo stato di soggezione tedesca, dal quale si era liberata prima con guerra di cent’anni contro la casa sveva» (Trattato: 129). Com’è stato rilevato, «se in questo specifico caso il termine ‘Patria’ indica semplicemente la regione friulana, altre volte, sempre nel Trattato, assume il significato di territorio legalmente costituito da quel complesso di enti ecclesiastici, di casati feudali e di comuni privilegiati, che avevano veste giuridica per prendere parte nel governo della regione stessa» [ivi: 136]. Il consultore continua ricordando un «altro pericolo nel secolo passato per le guerre promosse da Massimiliano»; questo pericolo fu tuttavia breve e in meno di sei anni cessò totalmente. Senonché, presto «fu dato principio ad un’altra sorte di guerra forense per escludere la Repubblica totalmente dalle terre da lei medesima per propria magnificenza al patriarca assegnati e stabilir un altro principato supremo, o più tosto due o tre, in mezzo la Patria del Friuli» per diminuire l’influenza veneziana. Scrive il S. che, poiché «forse questo umore ora sopito non è in tutto spento e potrebbe nei tempi seguenti esser svegliato e posto in moto», si rende necessario «aver sotto gli occhi tutt’insieme quanto in tal materia è successo». Si noti l’immagine dell’umore sopito ma non spento: si tratta di locuzioni presenti tanto nella tradizione del linguaggio politico Cinque-seicentesco, quanto in scritture sarpiane come i Pensieri medico-morali, l’epistolario e le opere storiografiche. È questo il motivo per cui S. ritiene che non sia «opera infruttuosa raccogliere insieme le cose passate e farci sopra quelle considerazioni di ragione» utili «alla causa pubblica» [Trattato: 129] e osserva che, benché sia risaputo che tutti gli accordi si facciano «per componere le differenze presenti e ovviare a quelle che si temono poter nascere all’avvenire», tuttavia spesso «le parole usate nel terrore delli medesimi accordi in progresso di tempo producono nove difficoltà, differenze e liti maggiori che le vertenti inanzi che la causa fosse accordata, e tanto più quanto più tempo sia passato». Ciò accade perché «resta persa la memoria della qualità de’ contraenti, dello stato delle cose qual passava al tempo dell’accordo»: il che induce le parti a curvare gradualmente al proprio interesse l’interpretazione dell’accordo in direzioni «aliene dalla mente delli contraenti», tanto che la legge recita «In omni contractu scire oportet quis, cum quo, de quo et qualiter contrascerit» [ivi: 135]. Nel capitolo VII del Trattato S. narra che, nel 1580, la lunga e fruttuosa intesa di Grimani con il consiglio dei Dieci si interruppe quando, per una questione di competenza di foro in materia feudale, si aprì la controversia tra la Repubblica e il patriarca aquileiese e, di lì a poco, della Repubblica con Roma. Si tratta di una delle vicende più aspre della secolare storia dei rapporti di Venezia con i patriarchi aquileiesi, dopo la conquista del Friuli nel 1420, proprio in virtù dei lunghi anni di schermaglie giuridiche, del diretto coinvolgimento della Santa Sede e dell’animosità dei contendenti: il servita annota che nel 1580 avvenne un accidente che per cinque anni tenne le parti «in esercizio, con molti pericoli di gran conseguenze e con varie occorrenze di gran documento, per insegnar a maneggiar questa materia e altre simili con maggior circospezione e risoluzione». Si trovava nel territorio di San Vito, narra il S., un luogo chiamato Taiedo, «feudo antichissimo delli Altani; una parte di questo Ulisse Altano (quale l’anno 1538 ne aveva ricevuto l’investitura dal Luogotenente) l’anno 1539 ne vendete a Francesco Altano ‘iure liberi’», con il consenso del luogotenente patriarcale. A Francesco successe sua figlia Elisabetta Savorgnana, la quale, sapendo che la vendita non era valida, nel 1562 «denunciò la caducità del feudo per ragione della alienazione fatta senza consenso e dimandò esserne investita, e le fu concesso». Annibal Altano, successore di Ulisse, nel 1569 «allegando il luoco esser feudo retto e legale e pertanto esser stata nulla la vendita di Ulisse suo progenitore, dimandò la restituzione e il Luogotenente pronunciò per l’attore». Elisabetta Savorgnana fece appello e nel 1574 la sentenza del luogotenente fu incisa nella Quarantia Civil Nova (Trattato: 241-242). Nonostante l’evidente antipatia del S. per Giovanni Grimani, le polemiche e le annotazioni pungenti sul suo operato non si tramutano mai in mero disprezzo, come sarebbe potuto accadere se il S. avesse seguito gli esacerbati giudizi di Leonardo Donà, allora legato a Roma, che giudicava Grimani «più ambizioso che non fu Lucifero», tanto orgoglioso da considerare gli altri patrizi «gentiluomini de dozena», giudizi che venivano ripresi in Senato, dove il Grimani veniva definito «sfacciato e presuntuoso». A parere di Pin meriterebbe un’attenta analisi di carattere sia stilistico sia contenutistico la rielaborazione operata dal S. dei dispacci degli ambasciatori, specie per il periodo della contesa di Taiedo. È da osservare come, «pur attingendo con dovizia ai dispacci di Leonardo Donà (i più vivi e ricchi fra quelli dei quattro rappresentanti veneziani a Roma nel periodo della contesa)», S. ne lasci «decantare tutti gli umori spinti fino a toni passionali» nei confronti del patriarca Grimani, per conservarne invece «le osservazioni più acute e pungenti». Grimani, scrive S., ebbe «‘fisso il pensiero’ ad acquistar assoluto ‘dominio’ nelle terre della sua giurisdizione» ma, essendo uomo molto accorto «che sapeva usar ‘a tempo’ li termini di umiltà e alterezza, giudicò necessario caminare con passi più lenti», vincendo «li sudditi con timore e li superiori con dimostrazioni di ossequio». Grimani si servì di amici e parenti per convincere Venezia della propria buona fede di cittadino e «far credere tutte le sue mire essere servizio della Patria, le quali portavano il servizio pubblico in apparenza», quando invece «i fatti miravano ad ampliare la giurisdizione patriarcale» (Trattato: 219). Nel Trattato il S. narra inoltre degli anni tra il 1595 e il 1612, quando le controversie giurisdizionali si riaccendono: sono anni che si configurano come un periodo di conflitti qualitativamente diverso dai precedenti, «per la forza e la violenza degli schieramenti contrapposti, per il grado di elaborazione teorica raggiunto da entrambe le parti allo scopo di legittimare le proprie prese di posizione, per l’importanza politica che il dibattito venne ad assumere», muovendo da un livello locale ad uno internazionale. Schieratosi dalla parte delle comunità di San Daniele e San Vito contro il patriarca Barbaro, impegnò se stesso e i suoi sodali nell’«ultima grande battaglia della sua vita, rivendicando la sovranità della Repubblica sulle giurisdizioni patriarcali». Ora, i temi della sovranità e del diritto di guerra riaffiorano continuamente nel Trattato ma, come ha osservato Pin, non devono far passare «inavvertiti altri motivi o momenti meno rilevanti» in quest’opera, motivi che diventano «più originali e nuovi se considerati in relazione all’intera produzione storica e giuridica di fra Paolo». Sul giudizio espresso a proposito del comportamento degli ecclesiastici è da rilevare che – dai papi ai patriarchi aquiliesi, ai prelati di curia, ai nunzi pontifici – da P. S. «tutti sono considerati, o per ambizioni private o per accrescere il potere della Chiesa, nemici dello Stato», la cui compattezza e sovranità continuamente tentano di intaccare. Esemplarmente, il servita racconta di un momento in cui il patriarca di Aquileia del suo tempo, Francesco Barbaro, nel cuore della controversia con Venezia dava lettura di un consulto nel collegio e «a diversi passi in voce amplificò maggiormente alcuni punti: ma, doppo letta tutta, si dolse che, avendo per il passato la Repubblica voluto che le cose d’Aquileia fossero sepolte nel Conseglio de’ X, ora si pubblicassero per le piazze», il che avrebbe potuto «partorire gran romori». Il patriarca aggiunse che non ne avrebbe parlato ma, qualora avesse ricevuto da Roma delle richieste di informazioni, sarebbe stato «sforzato dire quanto nei fogli presentati si contiene. Disse di più che più tosto che sopportar d’esser vilipeso dal Carga, esso e suo fratello renonceranno la chiesa». Il patriarca precisò pure che «egli e il Grimani suo processore insieme afferirono di renonciar la giurisdizione, permutandola in altro, e che con tutte le instanze de’ Arciducali, nelle terre de’ quali ha tre quarti della sua diocesi, non ha voluto levare la residenza di Udine» (Trattato: 337). A ben considerare, l’intento principale del Trattato resta quello di «indicare senza sfumature alla Repubblica che i primi e più pericolosi avversari non solo di Venezia, ma di ogni Stato, sono gli ecclesiastici», i quali «non stimano alcun termine indebito, quando si tratta di avanzar giurisdizione» (Trattato: 251); che mettono a tal fine discordia tra «i principi, con quai modi hanno travagliato e messo in compromesso non un Friuli, ma amplissimi e potentissimi regni e l’istesso Imperio» (ivi: 132). Questa polemica è spesso affidata a note pungenti e sarcastiche e raggiunge punte di severa indignazione quando accusa i religiosi di arrogarsi diritti «pretendendo poterlo dedur dall’Evangelio sinistramente interpretato e spaventando col manto della religione e salute dell’anima», mezzi efficaci più «nelli secoli passati che in questo, quando la distinzione delle cose temporali dalli spirituali è fatta più manifesta»; tuttavia, simili affermazioni possono arricchire il repertorio antiecclesiastico sarpiano, ma non contraddistinguono in senso originale il Trattato. Non per nulla, l’ultima pagina del Trattato rappresenta una querimonia ‘in scena’. Racconta P. S., infatti, che il patriarca che succede a Francesco Barbaro, il fratello Ermolao, fece «longa querimonia del titolo di prencipe, affermando che il Luogotenente non li aveva detto espressamente che fosse ordine del Senato; che non vuol dire quel che il Luogotenente abbia fatto doppo, se non che le ingiurie fatte al ministro sono fatte a Dio». Questa la nota di commento a pie’ pagina da parte del S., apparentemente pacata e colloquiale, ma in realtà “terribile” nel suo stile asciutto: «Che li prelati e altri ecclesiastici siano ministri di Dio non è dubio nelle cose spirituali, che Dio li ha concesso; nel maneggio delle temporali sono uomini come gli altri e le debbono trattare servando le leggi umane, né è giusto che vogliano per loro leggi distinte dagli altri». Inoltre, rileva ancora il servita, «né diversamente s’ha da trattare con un patriarca che con un secolare che fosse possessore di quella giurisdizione con la stessa regione» (Trattato: 366-367). Anche da queste ultime, asciutte, osservazioni sarpiane si può inferire che, se i consulti negli ultimi anni di crescente isolamento risentono di una volontà «sempre più intransigente e caparbia nell’indicare come valide e degne d’uno Stato sovrano solo le soluzioni da lui proposte», il Trattato, pur nascendo nello stesso clima, assume un tono «generalmente più pacato e persino distaccato», proprio di chi, certo delle proprie convinzioni, «non ha interesse a carpire un pronto assenso con qualsiasi mezzo», ma si propone di convincere con la forza di «una documentazione ricca, precisa, di prima mano, di cui si ribadisce più volte la veridicità» (Pin). Mancando la minuta dell’opera, non è possibile seguire per il Trattato «il lavoro di aggiustamento e pulitura» dello stile. Ma è possibile osservare che la narrazione del Trattato, «dall’andamento più disteso e scorrevole di quella dei corrispettivi consulti», è contraddistinta da una ricerca di semplicità e di prosaicità, quasi povertà, del linguaggio che mirava a raggiungere quella «apparente uniformità di tono» (sono parole di Giovanni Getto) che è il segno «della piena aderenza della parola alla sua mentalità scientifica». È pur vero che la Serenissima, sebbene avesse optato per il partito della prudenza nelle questioni giurisdizionali del Friuli, non abbandonò mai la protezione del suo teologo nonostante le pressioni della Santa Sede, né smise di servirsi, anche dopo la sua morte, del prezioso patrimonio dei suoi consulti.

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Bibliografia

Per le edizioni dei testi sarpiani: P. SARPI, Opere, a cura di G. e L. COZZI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969; Venezia, il patriarcato di Aquileia e le «Giurisdizioni nelle terre patriarcali del Friuli» (1420-1620). Trattato inedito di fra Paolo Sarpi, a cura di C. PIN, Udine, AGF, 1985; Della potestà de’ prencipi, a cura di N. CANNIZZARO, con un saggio di C. PIN, Venezia, Marsilio, 2006.

La biografia è quella di F. MICANZIO, Vita del padre Paolo in P. SARPI, Istoria del Concilio tridentino, a cura di C. VIVANTI, II, Torino, Einaudi, 1974. C. PIN, Introduzione a P. SARPI, Venezia, il patriarcato di Aquileia, cit., 3-119; G. TREBBI, Francesco Barbaro, patrizio veneto e patriarca d’Aquileia, Udine, Casamassima, 1984; M. FOLIN, Fazioni politiche e rappresentazioni del sociale. (Per una ricerca sulle terre patriarcali di San Vito e San Daniele), «Studi veneziani», n.s., 24 (1992), 15-67; C. GRIGGIO, Nuove prospettive nell’epistolario di Francesco Barbaro, in Una famiglia veneziana nella storia: i Barbaro, a cura di M. MARANGONI - M. PASTORE STOCCHI, Venezia, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, 1996, 345-362; P. GUARAGNELLA, “Agnosco stylum”. Un consulto di Paolo Sarpi e la retorica, in ID., Gli occhi della mente. Stili nel Seicento italiano, Bari, Palomar, 1997; ID., Malattie e malinconie, in ID., La «prosa» e il «mondo». ‘Avvisi’ del moderno in Sarpi, Galilei e la nuova scienza, Bari, Adriatica, 19982; C. POVOLO, Un rapporto difficile e controverso: Paolo Sarpi e il diritto veneto, in Ripensando Paolo Sarpi. Atti del convegno internazionale di studi nel 450anniversario della nascita di Paolo Sarpi, a cura di C. PIN, Venezia, Ateneo Veneto, 2006, 395-416.

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