STELLA EUSEBIO SIMONE

STELLA EUSEBIO SIMONE (1610 - 1671)

poeta

Immagine del soggetto

Versi di Eusebio Stella in onore del luogotenente Reniero Foscarini nell'"Oratione del Sig. Olderico dalla Porta...", Udine 1640.

E. S., quarto di otto fratelli, nacque da Lucio e Bernardina Cisternini e venne battezzato il 28 novembre 1610. Ricevette il nome del nonno, padre di Lucio, di famiglia proveniente dal bergamasco, insediata a Spilimbergo nel Cinquecento. Numerose omonimie confondono in prima battuta l’identità del poeta (riconosciuto da Amedeo Giacomini in Eusebio Ludovico, figlio di Faustino e Marcolina). A dirimere i dubbi è l’atto di morte, avvenuta il 18 febbraio 1671, all’età di sessantuno anni, mentre da venti esercitava la mansione di cancelliere. Gli atti conservati presso l’Archivio dei conti di Spilimbergo (Archivio di stato di Udine) confermano la coincidenza tra chi li redige e sottoscrive e l’estensore del manoscritto che trasmise la raccolta poetica che lo avrebbe reso noto. I registri parrocchiali consegnano invece nudi dati biografici che sembrerebbero postulare libertà di costumi: una figlia naturale, quando lo S. era poco più che ventenne, nata nel 1632 dalla relazione con Maria Basso, morta precocemente. Altre nascite illegittime a distanza, Lucio Flaminio nel maggio del 1653, vissuto pochi giorni, Francesco Simeone nell’ottobre dell’anno successivo, entrambi avuti dalla domestica Domenica Bazzana. Il matrimonio con Domenica, nel febbraio 1665, sanò la situazione e regalò ancora due figli: Lucio Antonio nell’agosto del 1666, che non superò il mese, Bernardina Agostina nel settembre del 1669. Poco si sa della formazione scolastica dello S., compiuta con probabilità in loco, e delle vicende dei discendenti. Tra questi, Francesco Simeone seguì le orme del padre nella professione notarile e abbozzò un giovanile apprendistato poetico (di lui si conserva presso la Biblioteca civica udinese, manoscritta, La Fillinesta). Le poesie dello S. coprono in ogni caso un arco di tempo circoscritto, e quasi si addensano tra le prime due nascite, a suggerire una prolungata giovinezza senza responsabilità. È però insidioso dedurre parallelismi tra i versi che descrivono in prima persona e con inedito realismo avventure sessuali e le spoglie notizie biografiche, e nulla può provare il dato dei figli naturali o la relazione con Domenica. ... leggi Più rilevante l’aggancio tra poesia e impegno professionale. La scrittura si interruppe quando lo S. assunse l’incarico di cancelliere dei signori di Spilimbergo, cosicché il 1651 si fissa per i versi come termine “ante quem”. Nella Spilimbergo del Seicento, E. S. si colloca come autore di versi in italiano e in friulano, ma è la produzione friulana di argomento erotico che sollecita le note critiche che dalla fine dell’Ottocento lo legano, riduttivamente, all’«aureola ambigua di poeta proibito» (Pellegrini). In vita pubblicò solo pochi versi in tre miscellanee encomiastiche (un componimento per la partenza del luogotenente Reniero Foscarini, nel 1640, il sonetto 254 del manoscritto, e uno per Francesco Pisani, nella raccolta a cura di Goffredo Sabbadini e in una seconda di Giovan Battista Missio, entrambe nel 1651) e non pare altrimenti noto al Liruti, che gli dedicò solo un cenno. Si deve a Vincenzo Joppi l’avvio della curiosità erudita sul poeta, con la pubblicazione tra gli Inediti friulani di stralci del manoscritto autografo, ma solo con Giacomini si giunge ad una proposta di lettura integrale e non inibita, che rende disponibile la produzione friulana nella sua totalità, pur con postulati ideologici non sempre recepibili. È merito del procedere autonomo di Rienzo Pellegrini e Francesco Durante, che prendono in considerazione anche le rime italiane, se la figura dello S. acquista contorni meglio definiti e dati biografici solidi, uscendo dall’immagine del rimatore anticonformista. L’interesse per il poeta suscita l’approfondimento storico (Metz sui rapporti del poeta con il musicista Lazaro Valvasensi, Ioly Zorattini sui contatti, accertati dalle poesie, con la comunità ebraica) e il recupero alle stampe di diversi testi, fino alla recente edizione del manoscritto a cura di Renzo Peressini, con sostanziosa nota introduttiva di Piera Rizzolatti sul friulano. Le uniche notizie sul manoscritto 347, che raccoglie duecentonovantun poesie, precedute da un indice dei capoversi o Tavola, autografa, sono riportate da Iacopo Pirona. La rilegatura è successiva e il manoscritto risulta in gran parte di mano dello S.: fanno eccezione alcune integrazioni dell’indice, un sonetto tra quelli trascritti in lode del poeta, cassato, alcune poesie attribuite alla mano di Francesco Simeone. La numerazione delle carte non è originale, mentre quella dei testi non è uniforme: sonetti, madrigali, cartelli carnevaleschi hanno segnature autonome; canzoni, odi e ottave ne sono privi. I componimenti sono a volte forniti di titolo, informando così utilmente su occasione e destinatario e contribuendo alla possibile datazione. Di agevole lettura e ben conservato, il manoscritto presenta cassature nette e riscritture posteriori in corrispondenza a delle espressioni spinte, con certezza della lezione in qualche caso compromessa. La fortuna delle rime, che variano tra intenti celebrativi o colmano lo spazio dello svago e del complimento garbato, asseconda la vena burlesca e ammiccante propria del tempo, privilegia la cerchia ristretta e i canali clandestini, sondando i codici e i registri praticabili (italiano, friulano, ma anche veneto e, con una sola singolare emergenza, spagnolo). La manciata di poesie in lode dello S., che occupano le carte IX-XIV, accostano nomi che compaiono anche altrove nel manoscritto e non disegnano itinerari significativi, insistendo peraltro su formule e modi topici (assai sfruttato il gioco sul cognome), in italiano o latino. Ma è stato il corpus friulano ad attirare sguardi reticenti ed elusivi. Joppi distingue tra versi italiani e friulani, attribuendo a questi ultimi vivacità inesplorate, di fronte a una produzione in lingua trascurabile per i ripiegamenti barocchi. Dalla dicotomia pregiudiziale tra «gusto ammanierato» delle rime italiane e spontaneità brillante del realismo friulano, nonché dall’accenno ai temi rimossi perché «lubricissimi» (Joppi), si dipartono censure che velano seduzioni (Chiurlo), analisi fondate sul criterio psicologico della rispondenza tra poesia e vita (D’Aronco), preferenze accordate al friulano e alla centralità del filone erotico (Faggin e Durante, ma anche Peressini), apprezzamenti per la vena spregiudicata dello S. friulano, che in essa individuano una piega autentica, una voce polemica, poeticamente precorritrice dei grandi dialettali (Giacomini). La comprensione adeguata del poeta non può non passare tuttavia attraverso una pur approssimativa messa a fuoco della Spilimbergo del Seicento e un’analisi compiuta della personalità e dell’opera, inquadrata entro il gusto barocco e la fioritura dialettale seicentesca. Di fronte al manoscritto, assemblato senza concessioni alla misura del «canzoniere», con un disordine che sconcerta, Pellegrini, che persegue con prudente acume una lettura bilanciata tra testi friulani, italiani ed emergenze plurilingui, concede inizialmente margine all’idea di una scelta consapevole, intonata al clima letterario e culturale del Seicento, e dunque «specchio dell’effimero», per rilevare poi una sequenza cronologica nei testi, facilmente ripercorribile e legata a scadenze definite. Chiari il rispetto dell’occasione e la condiscendenza per l’uso sociale, con la trafila degli elogi, delle poesie in morte, per lauree, e via via. Delle vicende spilimberghesi, invece, pur se la tensione tra i nuovi ceti e gli Spilimbergo sfocia anche in contrasti aspri, poco affiora nei versi, ed è arduo pronunciarsi sulla posizione assunta dal poeta. Tra i rari componimenti che manifestano idee politiche, spicca una sonettessa in veneziano sulla fuga delle milizie venete da Valezzo (episodio che apre la strada al saccheggio di Mantova), dove lo S. inverte i ruoli e, con prospettiva irriverente, attribuisce l’abbandono delle postazioni agli imperiali. Si richiede però cautela nel dedurre dichiarate simpatie filovenete, che filtrano peraltro anche nel sonetto contro i Barberini, e l’argomento merita analisi ulteriore. Chiave di lettura imprescindibile peraltro è la funzione sociale della poesia, l’idea di pubblico e l’istanza dell’intrattenimento propria del secolo. I confini chiusi dell’Accademia si accordano con il principio del poeta faber, di una ingegnosità riconoscibile nel cerchio vincolante della ricerca del nuovo. I tratti barocchi sono evidenti nei versi, tra i quali fanno gruppo omogeneo le poesie di celebrazione e di risposta. L’encomio ricalca un codice condiviso, modulando tasselli noti e allineando versi indirizzati a luogotenenti, giurisdicenti, signore e signori spilimberghesi. Le poesie di occasione (in morte e per dottorato soprattutto, forse su commissione) prevalgono negli anni Quaranta, contro un quadro di ispirazione più varia e personale che connota il decennio precedente. La vertigine barocca della prospettiva che si rifrange giustifica il ripetersi dei temi, con «espansione a macchia» entro la raccolta e come «tessera cangiante di un unico mosaico» (Pellegrini), e sottintende il tempo precipite e lo sgretolarsi di un sistema di certezze che è tipico del secolo, con formule che non sempre attingono a un caleidoscopio originale e risultano anzi inerti e faticose. La galleria dei destinatari si precisa meglio nelle corrispondenze metriche e nelle poesie in morte, dove si declinano posa e iconografia dell’epoca (la preghiera, la predica), non senza sottolineature teatrali. Il tono vira toccando i tasti dell’invettiva (è il caso dei versi per morte violenta: A chi uccise il signor Pietro Maria Monico mio compadre). Consoni con la referenzialità immediata di questa poesia sono le concessioni al quotidiano, non specchio ma frammento di una realtà incline al gesto ampolloso (Al signor Antonio Cancianis avendo ricevuto in dono il sbaraglino ch’or tengo; In lode di Nerone, levriero del signor Romano Romano; In persona d’un tal reverendo, qual uccise un suo Merlo e poi lo pianse; Gruppo di pommi donato al signor Orazio Monaco). I cartelli carnevaleschi (Cartello di disfida, in tempo di Carnevale, a correr all’anello; Cartello fatto in tempo di Carnevale […]; Cartello carnevalesco) rinviano alla dimensione seicentesca della maschera e dell’esibizione spettacolare. Al fondo la circostanza mondana, l’imperativo dello svago, con gli slarghi concessi alla musica e al canto (i versi Ninfa fugitiva. Canzone da cantarsi alla chitara alla spagnuola; il sonetto friulano In Zelotipum quendam, contro un marito geloso che intende impedire ai giovani di suonare vicino alla sua casa; le Ottavis cu si chiantavin denant il sio balcon par faij stizza, [Ottave che si cantavano davanti alla sua finestra per dispetto]). Spicchi di vita vissuta, pur letterariamente connotati, motivano i testi in cui lo S. fa cenno a particolari minuti: un soggiorno lontano da Spilimbergo, una malattia, uno scambio o richiesta di libri. L’alternanza tematica, per la quale si passa dai versi devoti alle rime d’amore, dalla piega compunta alla vivacità burlesca o satirica, si riversa in forme metriche che privilegiano il madrigale e il sonetto, e sfrutta le risorse dei registri linguistici, in un periodo in cui il dialetto diviene strumento legittimo, non semplice controcanto. In S. non agiscono comunque istanze polemiche, rivendicazioni di autonomia linguistica. Prevale la scelta dell’italiano, ma il friulano dà respiro a una ventina di testi, di cui due narrativamente distesi in ottave, che raggiungono quasi la metà delle rime in lingua, mentre, se l’uso del veneto evidenzia familiarità, i versi spagnoli sono episodio estemporaneo e precario. Documento linguistico notevole, il friulano, secondo le analisi di Piera Rizzolatti, che accantona l’ipotesi di Francescato secondo cui l’uso dello S. tradisce una sorta di compromesso tra variante e soluzioni centrali, sarebbe il riflesso di una lingua reale, in bilico tra il sistema arcaico e quello moderno. Il corpus friulano, inoltre, non è monocorde: ripropone l’alternanza di argomenti e forme della poesia in lingua, non escludendo da un lato l’inserto di italianismi nei versi encomiastici, dall’altro la possibilità di attingere inediti fonici, entro la pratica di una sostanziale complementarietà e integrazione tra le lingue in sintonia con il secolo. E in sintonia con il secolo, e con una sensualità cantata senza remore in termini allusivi o diretti, è la poesia erotica, non isolabile dal resto dell’opera. Tra italiano e friulano si dà diversità di esiti, ma non polarità, non discrepanza di temi né di pubblico, sempre selezionato in base alla capacità di cogliere la bravura del poeta, il quale cala la novità nell’orizzonte topografico trasparente per i lettori e punta sul piacere del racconto, quasi della cronaca spicciola, con vivezza di dettagli lessicali e descrittivi estremi. Il voyeurismo del sonetto caudato J’ eri un dì cu la ligna a piaa saas [Ero un giorno con la lenza a ranocchie], con l’evidenza degli attributi e dei gesti sessuali fatti risaltare nell’esibizione dei sinonimi, le avventure di Jacuma e Menott, il respiro narrativo dei due componimenti più lunghi, il Caas amoroos scritt in lengaz furlan [Caso amoroso scritto in lingua friulana] e In talis ottavis chi sottoscrittis io narri un gno nemorament e d’un amij [Nelle ottave sottoscritte narro un mio innamoramento e di un amico] ribadiscono i connotati letterari di questa poesia platealmente (e ingannevolmente) trasgressiva. Il “caso d’amore”, reso con scrupolo e contorni concreti, rivede il motivo del “corteggiamento” nei suoi due esiti contrapposti, positivo e negativo, e la sintassi si adegua a tattiche divergenti: sbrigativa (e fattiva) nel primo racconto, invischiata nel temporeggiamento (e dunque senza sbocchi) nel secondo. Non semplice, anche se probabile, «aneddoto biografico», ma aderenza a «schemi letterari precisi» (Pellegrini).

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Bibliografia

Ms BCU, Principale, 347, autografo.

Corona di composizioni volgari e latine nella partenza di G.F. Pisani, a cura di G. SABBADINI, Udine, Schiratti, 1651; Sonetti amorosi inediti di Eusebio Stella di Spilimbergo, Udine, Seitz, 1874 (nozze Urbanis-Baldassi).

V. JOPPI, Testi inediti friulani del sec. XIV al sec. XIX, «Archivio glottologico italiano», 4 (1878), 271-278; Versi friulani e italiani di Eusebio Stella, a cura di V. JOPPI, Portogruaro, Castion, 1891 (nozze Pognici-Dianese); G. COMELLI, Tre poesie di un autore proibito (Eusebio Stella, sec. XVII), «Il Tesaur», 1/2 (1949), 23-24; D’ARONCO, Nuova antologia, 129 e 143-150; D. VIRGILI, La flôr. Letteratura ladina del Friuli, Udine, SFF, 1968, 127-131; E. STELLA, Poesie friulane, a cura di A. GIACOMINI, Udine, SFF, 1973; E. STELE, Poesies furlanes completes, a cura di G. FAGGIN, Gurize/Pordenon/Udin, Clape culturâl Aquilèe, 1974; F. DURANTE, Rime inedite di Eusebio Stella (1610-1671), t.l., Università degli studi di Padova, a.a. 1978-1979; F. METZ, Del musico secentesco Lazaro Valvasensi I, «Il Noncello», 50 (1980); R. PELLEGRINI, Eusebio Stella poeta nel Friuli del Seicento, Udine, Cooperativa editoriale “Il campo”, 1980; P.C. IOLY ZORATTINI, Eusebio Stella e gli ebrei, in Judaica Forojuliensia. Studi e ricerche sull’ebraismo del Friuli Venezia Giulia, a cura di P.C. IOLY ZORATTINI - G. TAMANI - A. VIVIAN, Udine, Doretti, 1984, 9-27; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 178-184; E. STELLA, Tutte le poesie, a cura di R. PERESSINI, Pordenone, Accademia di San Marco/Ed. Propordenone, 2002.

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