BAUZON ANTONIO

BAUZON ANTONIO (1879 - 1952)

poeta, pittore

Immagine del soggetto

Il poeta Antonio Bauzon.

Nacque a Trieste il 4 marzo 1879. I genitori – di Gorizia il padre Giuseppe, di Viscone la madre Maria Serravalle – erano proprietari di terreni a Nogaredo e San Vito al Torre, a Medeuzza e Viscone. La predisposizione per la pittura lo condusse a Milano, dove studiò con L. Metlicovitz alla fine del 1898 e dove poi, allievo di Angelo Tornelli, fu a fianco di Carlo Carrà negli affreschi della Casa di riposo per musicisti, e a Monaco, dove frequentò l’Accademia, allievo nel 1900 di A. Mettenleitner, per collaborare come vignettista a giornali satirici come il «Pasquino» di Torino, filiazione del foglio umoristico «Fischietto», stampato dal 1897 al 1930, e il «Simplicissimus» di Monaco, fondato da A. Langen e T. H. Heine nel 1897. B. fu anche cartellonista, per le Case d’arti grafiche Passero di Udine, Gatti di Pordenone, le Arti grafiche Monfalconesi: «Il pochissimo che ci resta di Bauzon cartellonista contrasta sorprendentemente, di primo acchito, con l’immagine di uomo appartato e tutt’altro che mondano testimoniata dal suo curriculum» (Curci). Una carriera che peraltro si arena. B. si trasferì con i genitori e le tre sorelle a Versa di Romans d’Isonzo, dopo che un incendio aveva distrutto la casa materna di Viscone. Drammatica sarà per Versa l’esperienza della guerra, con case bruciate per chi si ribellava allo sfollamento. B. riparò a Firenze, dove visse in grande difficoltà e, non appena la situazione lo permise, rientrò a Versa. ... leggi Caratterialmente abulico e indeciso, generoso e pronto allo scherzo, non «un accanito bevitore», ma comunque «un buon bevitore» (Bressan), a partire dal 1944 si chiuse nella propria ipocondria, in una sempre più marcata stravaganza, rinunciando alla scrittura e al disegno, reso cieco da una cataratta: la diffidenza lo aveva portato a respingere l’intervento chirurgico. Giorni tristissimi, in una angustia e in una solitudine immedicabili, fino alla morte, intervenuta il 12 aprile 1952. Anche le sue cose, alla morte delle sorelle, finirono in un falò sul greto del Torre. Tra il 1904 e il 1913 B. pubblicò su «Pagine friulane», «Le nuove pagine» e «Forum Iulii», e la sua presenza si registra subito nei periodici della Società filologica friulana: già lo «Strolic furlan» del 1920 propone versi di B. A cinque anni dalla morte un volume, non irreprensibile, Poisiis [Poesie], riunirà i componimenti stampati (solo alcuni – una manciata minima – sfuggiranno ai curatori), non senza un conguaglio omologatore. Nel rogo saranno finiti anche I semplicissimi, irreperibili, del cui «potente realismo», esito sanguigno e anticonformista, fa cenno Bindo Chiurlo. In Poisiis non è arduo cogliere l’istanza del paradigma canonico, Pietro Zorutti: nello stesso tipo di friulano adottato, «una koinè impeccabile» (Faggin), all’interno della quale sono rarissime le spie in deroga (da assegnare all’area goriziana l’assenza di preposizione dopo il verbo andare: «Van ciase», vanno a casa). A Zorutti ammiccano gli stessi inserti veneti («i staghi fermi», stiano fermi), i modesti esercizi maccheronici («E noi altri a la fin con gran decoro, / per comozion platati dietro un muro / abbiam tornato fuori ’l vin di Noro», E noi alla fine con grande decoro, / per commozione nascosti dietro un muro / abbiamo vomitato il vino di Noro). Il friulano è ironicamente punteggiato di prestiti («jupeculote», gonna-pantalone, «sportsman», sportivo), neologismi («gramòful», grammofono, «sofér», autista, «svoladon», aereo, «’tomobil», automobile), a dare corpo a considerazioni caustiche o ridenti sul progresso e sulla modernità. Non mancano calchi sullo Zorutti più noto e proverbiale, come La plovisine [La pioggerellina], che rimbalza in «Colavin jù lis gotis di rosade / su ’l arbul, tal fossal e ta ’l agar, / su la verze di ciamp dute glazade, / su ’l passarin pojâd su pal morar…» [Cadevano giù le gocce di rugiada / sull’albero, nel fosso e nel solco, / sulla verza di campo tutta gelata, / sul passerotto posato sul gelso…], prima strofa del sonetto Unviar [Inverno]. A Zorutti vanno riferiti il guizzo epigrammatico che salda i componimenti, la figura del catalogo intasato, il «gusto pittoresco» che pervade i «quadretti di natura o di vita popolare», la «vena di gagliardo umorismo» (Faggin). Ma il rigore della metrica chiusa (sonetti, quartine di endecasillabi a rime alterne, sesta rima, la movenza più cantabile della villotta) imbriglia (ed è prova di virtuosismo) anche le situazioni più scapigliate: con gli intrecci di dialoghi franti in battute, con il ballo sfrenato di Ziguzaine (vecchia danza), che insiste sul ritmo ossessivo dello sdrucciolo («Sune l’armòniche legre lis pòlichis, / tegnin lis féminis altis lis còtulis, / batin lis dàlminis sui scus des còculis / i balarins…», Suona la fisarmonica allegra le polche, / tengono le donne alte le sottane, / battono gli zoccoli sui gusci delle noci / i ballerini…). «Il limite (ma anche il pregio!) della poesia di Bauzon è costituito da ciò che possiamo chiamare ‘bozzetto’ o ‘quadretto’, che tanta consonanza presenta con la pittura italiana, e non solo italiana, del secondo Ottocento» (Faggin): scene rustiche, che danno spazio anche a mendicanti e straccioni, scorci di vita popolare, interni di osterie, la ciclicità del tempo atmosferico, in tonalità a volte sornione, a volte pensose. È la sensibilità del pittore variamente declinata, che prende le distanze dal (e stigmatizza il) movimento artistico della secessione. Una sensibilità che dimostra, in un contesto peraltro caricaturale, finezze coloristiche: «Lusin rifless di viole e di oltremar…» [Brillano riflessi di viola e di oltremare…], che fissa con efficacia (e, nel lessico, non senza un tocco gergale) la macchietta, come nel caso de Il bulo (Il bullo): «La oze in boce, i fròs tal sachetin, / ciapiel in bande…» [La cicca in bocca, le monete nel taschino, / cappello sulle ventitré…]. E si osservi Il perdon [La sagra] che, dopo la lista iperbolica della frutta, dopo il fotogramma del ballo (e di un bacio che turba una zittella), dopo l’immagine del bambino che succhia scorze di anguria, incide – congedo e controcanto insieme – un ben diverso profilo, rapido e impettito nei suoi passi, lapidario nella sua immobilità conclusiva: «e in dute presse, dure e intabacade, / jentre la vecie in glesie e là si sinte» [e in tutta fretta, dura e intabaccata, / entra la vecchia in chiesa e là si siede]. Un mondo perduto, una abilità che è allo stesso tempo rappresentativa e narrativa.

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Bibliografia

T. BAUZON, Poisiis grumadis e publicadis da A. VOLANI - R. FRANZONI - A. BISIACH, Udine, Del Bianco, 1957.

DBF, 65; B. CHIURLO, La letteratura ladina del Friuli, Udine, Libreria Carducci, 19224, 66; T. PE[TRI], Bibliografia della poesia friulana contemporanea, «Rivista della Società filologica friulana», 3 (1922), 74-75; CHIURLO, Antologia, 402-403; Curiosità friulane raccolte da Arturo Feruglio, «Avanti cul brun! Lunari di Titute Lalele pal ’64», Udine, Avanti cul brun!… editôr, 1963, 98-104 (con sei riproduzioni di vignette dal «Pasquino» del 1910-1911); Mezzo secolo di cultura, 33; V. BRESSAN, Ritratto di Antonio Bauzon a 25 anni dalla morte, «Sot la nape», 29/2 (1977), 90-97; R. CURCI, Una «palestra» di cartellonismo a Udine: appunti su Antonio Bauzon e Pietro Antonio Sencig, «AFT», 3 (1979), 121-123; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 166-167; BELARDI - FAGGIN, Poesia, 41; GALLAROTTI, 141; FAGGIN, Letteratura, 146-148.

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