GIRARDINI EMILIO

GIRARDINI EMILIO (1858 - 1946)

poeta

Immagine del soggetto

Il poeta Emilio Girardini in un ritratto dello studio Pignat (Udine, Civici musei, Fototeca).

Nacque a Udine da Felice, perito agrimensore, e da Luigia Peressini il 28 ottobre 1858 e la sua fu una esistenza «piuttosto scolorita, estranea al clima dei cenacoli letterari, rinchiusa nella cerchia asprigna dei nostri monti, nel nostro mondo anch’esso rigido e scarno di passaggi o sfumature» (Marchetti). Il padre aveva assunto nel 1862 l’ufficio di procuratore delle Assicurazioni Generali di Venezia e alla sua morte, nel 1868, nella gestione gli subentrò la moglie, fatto per i tempi inusuale. Gli studi primari e secondari di G. si svolsero a Udine e non andarono oltre (il fratello Giuseppe si laureò in giurisprudenza a Padova nel 1866): l’agenzia nel 1887 fu formalmente affidata ai fratelli, ma in realtà alle sole cure di Emilio. Nel 1905 morì la madre e nel 1908 si manifestò, per aggravarsi via via, una malattia agli occhi. Profugo a Roma durante l’invasione, al rientro trovò la casa saccheggiata. Con la cecità, la morsa della solitudine si fece più dura alla morte della sorella Rosa, del 1921, e del fratello Giuseppe, del 1923, avvocato, dalla brillante carriera politica. Rinunciò alla direzione dell’agenzia, pur se, nominato consigliere, poté vivere con una qualche tranquillità, spegnendosi a Udine il 7 novembre 1946. G. è autodidatta, ma la sua cultura spazia dai classici ai moderni: traduce i tragici greci, una orazione di Demostene, l’Odissea, che però resta inedita, traduce i moderni (Maeterlinck, Tennyson, Wordsworth); tra gli inediti figurerebbe anche Dickens. ... leggi Compone drammi biblici, «dal tono elevato e potente» (Marchetti), ed è conferenziere e critico sottile (scrive di Ciro di Pers e Zorutti, di Nievo e Carducci, di Pascoli e Pirandello, perfino di Walther von der Vogelweide). G. collabora all’«Almanacco veneto», al «Fanfulla della domenica», al «Giornale d’Italia», al «Marzocco», alla «Nuova antologia», al «Secolo», alla «Tribuna illustrata», alla stessa «Voce» (in un singolo frangente: Le regioni della guerra: Udine e il Friuli, del 7 agosto 1915), oltre che ai più domestici «Pagine friulane», «La Patria del Friuli» e, in seguito, «La Panarie» e «Il Piccolo della sera». L’esordio come poeta è relativamente tardo: Ruri è del 1903, pur con qualche anticipo in rivista. Nel 1952, a pochi anni dalla morte, Zanichelli allestirà una «edizione completa» delle Poesie, ma sarebbe un azzardo attribuire il nuovo assetto alla volontà ultima dell’autore. In Ruri i versi sono ripartiti in sezioni con in primo piano l’alternarsi delle stagioni e la prospettiva del ricordo. Il volume del 1952 sopprime l’epigrafe («Datur hora quieti»), sopprime le sezioni, sfoltendo i testi che, da settantacinque, si riducono a quarantuno, e alterandone la sequenza. Anche i testi accolti, peraltro, non sono privi di varianti: Nebbia diventa Pastello; cadono soluzioni lessicali marcate: «la madre appo l’alàre» passa a «la madre al focolare» (Casa castellana), e nella serie si situeranno «coglier» per «raccor», «da lontan» per «da lungi» (Ov’è?). La puntualità ornitologica («cardellin», «fiorrancin re della siepe», «passerette») e botanica («ciarlatani e spiritelle», tipi di funghi), la piega affettuosa del diminutivo («casetta», «fascinetta», «femminetta», «muraglietta», «truppette»), l’insistenza sulla partitura acustica («stride l’orbato orto di frutti», «a l’oche stridenti garrendo»), i fenomeni atmosferici («Brontola lungi il tuono a la marina»), immagini di vita paesana («un carro / stridulo avanza, e il carrettier disteso / si avvolge nel tabarro», Notte; «Con la fascina vien la femminetta / ed un pastor sotto la nube greve / le sue tosate pecorelle affretta», Prima neve; «Novera le galline ad una ad una, / che spiccansi d’un volo dal pollaio, / colmo il grembiule reca dal solaio, / il razzolante stormo avido aduna!», Cortile alla mattina) denunciano il precedente (non attardato) di Pascoli. La silloge successiva, Liriche varie, del 1908, conferma il rilievo del bestiario, l’universo feriale dei volatili: «O passere che in ciarle mattutine / su gli embrici…», «trepida rondinella», «Lungo la siepe garrula brigata / regge la chioccia austera…» (A mia madre), che si incrocia con il filo del lutto, la morte della madre. A Liriche varie si accompagna il poemetto La vela d’Ulisse (poemetto in terzine), un Ulisse che oscilla tra la nostalgia di Itaca e il bisogno di conoscenza, tra il mito classico e il simbolo dantesco. Un silenzio protratto separa Liriche varie da Chordae cordis, del 1920, pur se l’intervallo è colmato dall’impegno del tradurre. Anche Chordae cordis nel 1952 subisce una potatura (i testi scendono da sessantuno a quarantuno) e imposta una diversa seriazione. Con varianti significative: Nembo rimpiazza Pastello (in Ruri, Pastello subentra a Nebbia). Ma è singolare la vicenda di Nervi, che nella scelta antologica del 1938 diventa Spleen, per ripristinare Nervi nel 1952. Chordae cordis archivia l’idillio agreste. A premere sono l’uggia, la malinconia plumbea, la desolazione, come in Ab daemonio meridiano, che si colloca “in limine”, quasi una sigla, un manifesto. Altri titoli (come Giardino abbandonato, Villa ch’eri un convento), altre atmosfere (con il rilievo dell’aggettivo «buono») evocano i crepuscolari. La raccolta giustappone “corde” diverse (Dal diario di un soldato, una corona di sonetti, postula i Versi militari di Saba): il tedio e una residua gioia di vivere, un lessico che non rimuove Pascoli («anitra», «cutrettola», «oca»), ma annette anche aulicismi come «captiva» o «parvoli», e in «cipressetti» è palpabile la falsariga di Carducci. Che affiora anche negli esiti espressionistici di Passa il treno: «Il treno in fuga ne la sua rapina / (la visïone sùbita m’apparve) / lungi in plaghe fantastiche trascina / una caterva, a gli occhi miei, di larve». Neppure I canti della sera (1928, edizione accresciuta nel 1931), colpiti, nel 1952, da tagli e ritocchi, scompaginati nella sequenza, si legano in “canzoniere”: vi affluiscono temi e modi (anche metrici) diversi, l’ombra metaforica della sera, la casa dissolta, l’infanzia che restituisce fotogrammi e frammenti di vita, i fenomeni atmosferici. Gesti dimessi, filtrati dalla memoria privata e letteraria: se la «tacita luna» suppone Leopardi, il titolo del testo, Il carrettiere, devia su Pascoli, e a Pascoli rimandano Servetta, Voce misteriosa, Torpore. La lingua accoglie giunture tornite («ederacea torre», «muro ederoso», «nubila notte»), pur se il mondo esteriore, concreto, si sgretola, assumendo «non so che parvenza evanescente ed irreale» (Ermacora). Con la similitudine peraltro a istituire isole di certezza, a imbrigliare la frana: «Vanno i pensieri miei verso la morte: / branco d’agnelli che ritorna pingue / sul vespero a l’ovile e fra le porte / del borgatello suo la sua distingue» (Pace). E, quando lo sconforto sembra travolgere, ultima barriera è la maglia letteraria: «Sentendomi così fuggir la vita / io mi spauro, però che non voglio / ne la quiete perdermi infinita» (Sempre più soli), con intarsio vistoso di leopardismi. In Veglie (1935, Parigi, Messein: l’editore di Verlaine) per contro un primo segmento è coeso, cucito in “canzoniere” (Barlumi, venticinque testi), dove meglio si dichiarano i temi portanti: la cecità, l’imminenza della morte, spesso rovesciata in scorci oggettivi («Nel parco ischeletrito ove mi coglie / la tarda ora che il monito ribatte / dal borgo di raggiungere le soglie»), il tempo rivolto, dove la stessa sintassi si fa spigolosa. La personalità di G. si manifesta soprattutto nella sua poesia, che respinge gli sperimentalismi del tempo, che aderisce a moduli formali apparentemente fuori corso, che opera una selezione severa, ma organica e coerente, nei suoi paradigmi ideali, che con le sue letture armonizza, nel perimetro di un paesaggio familiare, una rete di affetti sobria e intensa, sempre più limpida e scavata. Conferme chiare procurano le Postume del 1952 (Inedite nella scelta del 1938): per la traccia del pascolismo («torna al suo tetto, la frasca già secca, / il passero accorto», Dopo le rose), per lo stesso leopardismo («Questo silenzio intorno che spaura», Febbre). Ma se la poesia raccorda una esistenza intera, non meno rilevanti sono altri ambiti. Come i tre drammi biblici del 1929. Jefte elabora un tema fortunato per la letteratura teatrale (anche in musica). Vincitore sugli ammoniti, Jefte non può eludere un «voto irrevocabile»: sacrificare la prima persona che esce dal «palagio» e a uscire dal palazzo incontro a Jefte è la figlia Sela, dolce e remissiva, che si avvierà al rogo con due strofette di settenari, nell’insieme compatto degli endecasillabi sciolti. La scrittura concede udienza generosa a un lessico sostenuto: «ara del martirio», «eteree plaghe», «oste avversa», «sidereo barlume». Le livide trame di un complotto si dispiegano invece in Rut. Rut, moamita, spigola nei campi di Booz ed è da questi protetta, ma a Rut ambisce Aleppo, a sua volta succube delle mire di Simone, che tende a fare propri i beni e il rango di Booz. Rut finge di aderire al disegno perverso, per meglio sventarlo. La lingua è sempre elevata: «attignatrici», che attingono l’acqua, «presepi», stalle. Ma non mancano spunti più rudi e materiati («Non dissenteria, / né scabbia affligge il mio bestiame?»: così Booz), più subdoli e velenosi contrappunti («Intanto / tu ronza intorno a la donnetta come / intorno al lume le falene…»: così Simone ad Aleppo). Si segnala però il gusto della similitudine, già sommessamente attivo in Jefte. Non così irenico e pacificato è Il re sapiente: Salomone, il re sapiente per antonomasia (ma qui piuttosto per antifrasi). Il cui delirio amoroso si riversa nella similitudine, in evidente contatto con il Cantico dei cantici. La lingua si conserva non demotica: «ascose fraudi», «callid’arti», e poi «druda», «immondi idoli»; ma con singolari punte di asprezza: «È il peccator che torna al suo peccato / pari al cane che torna a ciò che rece». Il re sapiente si spoglia della sua sapienza: irretito dall’amore, rinuncia alla sua dignità e il regno stesso è corroso dallo scontento e dalla ribellione. Di caratura analoga sono le traduzioni dal greco. Il Discorso per la corona di Demostene, magnifico e impetuoso, non rimuove l’insulto basso, l’incursione nella vita dell’antagonista Eschine: «volpe lusingatrice», «commediante che sei da burattini». Di più acuto fervore sono i tragici. Adunando in volume il Prometeo incatenato, l’Antigone e l’Alcesti, G. intendeva offrire «un compendioso saggio della tragedia antica, scegliendo i tre capolavori» più rappresentativi, la «musicalità vertiginosa in Eschilo, ieratica in Sofocle e patetica in Euripide». Ad altri obiettivi ottemperano e meno scontate risultano le traduzioni dai moderni, nelle quali G. vede un mezzo per sveltire la «plasticità vuota», la «sonorità» della nostra letteratura. Ma, secondo Marchetti, notevoli sono i benefici per lo stesso G., che da Wordsworth «apprese l’amore per le umili cose e le umili opere quotidiane», Tennyson «lo avviò all’introspezione psicologica», mentre con Maeterlinck «ebbe in comune – specie nei primi lavori – qualche tendenza simbolista». Anche nel francese di Maeterlinck G. individua uno specchio e nella premessa a L’intelligenza dei fiori, una raccolta di saggi, eponimo il più ampio e suggestivo, spiccano snodi come: «La emanazione più diretta del mistero, la poesia…», «la poesia, in fine, è in gran parte accoramento per il passato…», che valgono come dichiarazioni di una poetica propria, consonanza non di superficie. Tra la traduzione di Maeterlinck e le successive da Tennyson e Wordsworth peraltro non si avverte un legame, una tenuta solidale. Di Tennyson G. preleva tre testi teatrali. A Becket (del 1884: con Queen Mary e Harold forma un trittico, nel quale Becket «giganteggia») si affiancano La coppa (del 1881) e Il falcone (del 1879). Becket è un «edificio a linee grandiose, castigate, sobrie», nella spirale larga degli «eventi storici» e delle «storiche figure». A Plutarco si ispira la «vena più austera» della Coppa, dove una matrona della Galazia «si sottrae a nolenti nozze avvelenando sé e lo sposo che le aveva ucciso di pugnale il marito». Quattro atti dalle tinte cupe. Ben diverse atmosfere evoca per contro Il falcone, «un gioiello di grazia impareggiabile, uscito di getto splendidamente», che riprende una novella del Decameron: Federigo degli Alberighi, che ha dissipato i suoi antichi splendori, e Madonna Giovanna, che all’uomo si rivolge per restituire con un dono (il falcone appunto) la salute del figlio. Sostenuta resta anche la traduzione di Wordsworth. L’autore importa per un accordo profondo: «Avere il cuore aperto alle bellezze della natura, penetrarne i segreti, confondersi in essa significa gioire, e questa gioia fu veramente il lievito nella vocazione poetica del Wordsworth, come, del resto, per tutti i veri poeti lirici di tutti i tempi, compresi quelli del dolore, tra i quali lo stesso Leopardi e il Lenau». Nel solco della modernità. Le pagine critiche di G. forniscono indicazioni su un gusto affinato, su letture (e figure) congeniali, estratti di una poetica vigile, seppur non risolta in sistema. Tra gli inediti si conservano note su Così parlò Zaratustra, sullo stesso D’Annunzio. Ma lo spettro dei libri recensiti è largo e abbraccia anche nomi e titoli rimasti poi senza traccia. G. stende introduzioni per volumi di versi: Pizzule vôs furlane [Piccola voce friulana] di Francesca Nimis Loi (1928), Barbiton di Gianfranco D’Aronco (1941), Il cocolâr [Il noce] di Pietro Someda de Marco (1943), ma anche (e l’escursione è notevole) per Natale di sangue. Memorie di un legionario fiumano di Federico Botti (1921). G. condiscende al rito dei centenari: da san Francesco (1926) a Dante (1921, conferenza su Ulisse), da Petrarca (1904) a Foscolo (1927). Ma più accusato è l’interesse per voci dell’orizzonte friulano. Come Pietro Bonini, commemorato nel 1906. Come Teobaldo Ciconi, ricordato nel 1924 a cento anni dalla nascita. Come Giuseppe Ellero, commemorato nel 1925. Contributi nel segno della pacatezza, della informazione precisa, dove si imprime un gusto: i principi di una poetica che si deposita chiara, senza sbavature. E l’affetto emerge discreto nel profilo degli amici, come Giovanni Del Puppo (nel 1933), nel quale si specchiano e trovano un parallelo la personalità e la vicenda dello stesso G. Rispetto a questi interventi, di necessità estemporanei, ha più organica veste di saggio La poesia carducciana, una monografia del 1937 programmaticamente sbilanciata: «vedere se e fin dove questa poesia aderisca alle tendenze di quella del nostro tempo e in quali rapporti spirituali con essa si trovi». La sintonia con Pascoli è ferma, ma G. vince ogni angustia, mirando alla Francia, a Baudelaire e Verlaine, al loro fastidio per le «gonfiezze victorhughiane». Il canone peraltro non assume Baudelaire (e Verlaine) nella loro integrità e dei simbolisti francesi non recepisce l’eccesso, diversamente coniugato, di Rimbaud e Mallarmé. Deciso in G. è il rifiuto della storia. E con il rifiuto della storia (ma anche: «la lirica d’oggi, così aliena in generale dagli argomenti politici e diciamo pure sociali») fa corpo il rifiuto di una natura “solare”. Il paradigma pascoliano è assorbito nelle sue istanze profonde, non ridotto a formula, ad archivio tematico, e si avverte la lezione del decadentismo europeo (e «forse un poco di Edgardo Poe»: Fradeletto). La bibliografia di G. si completa con Luce e poesia del cristianesimo, del 1939, una stesura verosimilmente frammentata, distribuita in stagioni diverse. Il suo cuore è intuitivamente costituito da episodi dei Vangeli, riformulati in una più morbida distensione narrativa. Il libro, scandito in capitoli brevi, trascura il dogma e non contempla la trascendenza: «Importa fissare che Gesù mira alle finalità dell’uomo sociale, dell’uomo in azione». Interessa però l’ottimismo teleologico che investe i destini terreni, una prospettiva finalistica che prescinde dai risvolti di superficie: «la grande, la vera storia del pensiero procede quasi inavvertita, indipendentemente dalle vicende contingenti del mondo sensibile». Al cristianesimo G. rivendica i grandi traguardi: «l’abolizione della schiavitù e la rivoluzione francese». Nello stesso «cammino ascensionale» si colloca, in uno snodo comunque parentetico, la «rivoluzione fascista». L’avventura coloniale resta fuori scena, certo in conflitto con il rifiuto della guerra (e fuori scena restano le leggi razziali, certo in conflitto con il rifiuto di ogni forma di violenza), a esaltare, con un candore disarmato, i benefici garantiti dal corporativismo. Pur se in G. non viene meno la consapevolezza: «il maggiore ostacolo al progresso dell’umanità sono appunto le ricchezze malamente distribuite. Rimane la dura realtà che non ci lascia intravedere la possibilità di una soluzione in proposito».

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Bibliografia

Poesia: Ruri, Milano, Treves, 1903; Liriche varie. La vela di Ulisse, Milano, Baldini e Castoldi, 1908; Chordae cordis, Milano, Treves, 1920; I canti della sera, Bologna, Zanichelli, 1928; seconda edizione accresciuta dei Nuovi canti, Bologna, Zanichelli, 1931; Veglie, Parigi, Messein, 1935; Poesie scelte, Prefazione di S. Benco, Udine, La Panarie, 1938; Poesie, a cura di U. ZANFAGNINI, Bologna, Zanichelli, 1952. Teatro: Jefte Rut Il re sapiente Drammi biblici, Bologna, Cappelli, 1929. Traduzioni, sempre fornite di premessa (entro parentesi quadra gli anni indicati da Antonio Fradeletto): DEMOSTENE, Il discorso per la corona, Milano, Sonzogno, s.d. [1906]; SOFOCLE, Antigone, Milano, La Poligrafica, 1902; EURIPIDE, Alcesti, Milano, Sonzogno, 1908; poi, non senza varianti, Tre tragedie greche. Prométeo incatenato di Eschilo, Antigone di Sofocle, Alcesti di Euripide, Roma, Voghera, s.d. [1923]; A. TENNYSON, Becket - La coppa - Il falcone. Poemi drammatici, Roma, Voghera, s.d. [1918]; M. MAETERLINCK, L’intelligenza dei fiori, Roma, Voghera, s.d. [1921]; W. WORDSWORTH, Poesie scelte, Bologna, Cappelli, 1931. Saggi: Francesco Petrarca, Milano, Sonzogno, 1904 (da «Il Secolo»); Santo Francesco. Discorso pronunciato a Udine in occasione delle onoranze a san Francesco per il settimo centenario della morte, «La Panarie», 3/15 (maggio-giugno 1926), 171-178; Teobaldo Ciconi, «La Panarie», 1/6 (novembre-dicembre 1924), 321-328; Pietro Zorutti, «Ce fastu?», 18 (1942), 73-75 (da «Il Secolo», 3 febbraio 1909); Piero Bonini nella poesia dialettale. Commemorazione tenuta la sera del 1° marzo 1906, Udine, Doretti, 1906 (estratto da «AAU», s. III, 13 [1906]); Giuseppe Ellero. Discorso dettato per la solenne commemorazione del poeta tenutasi nel Teatro Sociale, sotto gli auspici della Accademia di Udine, il giorno 10 maggio 1925, «La Panarie», 2/10 (luglio-agosto 1925), 193-199; Giovanni Del Puppo. Commemorazione tenuta in Udine il 19 marzo 1933, ibid. ... leggi, 10/56 (marzo-aprile 1933), 125-129; La poesia carducciana, Udine, Istituto delle edizioni accademiche, 1937; Luce e poesia del cristianesimo, Udine, Istituto delle edizioni accademiche, 1939.

DBF, 396-397; C. ERMACORA, Recensione a I canti della sera, «La Panarie», 5/27 (maggio-giugno 1928), 145-147; A. FRADELETTO, Un poeta friulano, «Nuova antologia», gennaio-febbraio 1930, 306-317; U. MASOTTI, Emilio Girardini, «La Panarie», 11/62 (marzo-aprile 1934), 70-76; C. ERMACORA, Recensione a Veglie, ibid., 12/68 (marzo-aprile 1935), 100-101; MARCHETTI, Friuli, 822-830; U. ZANFAGNINI, I fratelli Giuseppe ed Emilio Girardini e il poeta vernacolo Emilio Nardini: una vita in tre nel soggiorno tricesimano, in Tresésin, 343-347; Emilio Girardini 1858-1946. Un contributo alla documentazione ed allo studio del vocabolario, a cura di E. CAPORALE - P. BIDOLI, Udine, Università degli studi, 1996 (pre-print); PELLEGRINI, La cultura, 1063-1064.

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