PAULUZZO NADIA

PAULUZZO NADIA (1931 - 1995)

insegnante, scrittrice

Immagine del soggetto

La scrittrice Nadia Pauluzzo.

Insegnante, narratrice e poetessa, nacque a Udine nel 1931 e lì morì nel 1995. La madre di Povoletto e il padre di Buia fornirono la materia linguistica che P. avrebbe reso duttile strumento di poesia, volgendosi in ultimo anche al veneto-udinese con cui fu a contatto negli anni della giovinezza, spazio di ricordi nostalgici, legati alla casa della cantoniera e al vivo mondo femminile che vi si muoveva. Laureatasi in lettere moderne a Trieste nel 1954 (si perfezionò in filologia moderna a Padova), dal 1960 insegnò materie letterarie nella scuola media, divenendo poi preside di ruolo. Sono sue diverse pubblicazioni scientifiche, in particolare su Gian Giuseppe Liruti, Ermes di Colloredo, di cui curò un’edizione critica dei sonetti, e Ciro di Pers, alcune in collaborazione con il marito Gianfranco D’Aronco, docente e studioso di letteratura e tradizioni popolari friulane, che, dopo la prematura scomparsa della moglie, si impegnò a renderne completa la comprensione dell’opera e noti gli inediti. L’ampio e variegato corpus (di poesia, narrativa, memorialistica, critica, pubblicistica, teatro) la pone tra le voci femminili centrali nell’ambito friulano a partire dagli anni Sessanta. Lo sottende una sorta di poetica, «una morale, una pietas originali, risentite, modulate sui moti dell’animo […] ma di lucida […] coerenza», mentre la poesia va «componendo una pacata ars moriendi, disincantata come la sua dolceamara visione della vita» (Turello). I titoli delle raccolte poetiche (Un fîl di vite [Un filo di vita], 1959; Cjant di vene [Canto di vena], 1965, premio G. Marta dell’Ateneo veneto, 1964; Cjantâ furlan [Cantare friulano], 1983, riproposta dei testi precedenti con una quindicina di inediti) rinviano a «un canto sorgivo», lirico ed elegiaco, un’«adesione cauta alla vita», intrisa di una friulanità non idealizzata, ma propria di un mondo e di un modo dell’essere, di coloro, in particolare, che non sono più. Cruciale è il motivo del ricordo, che si fa rimpianto, un rievocare assorto che fa ripiegare su se stessi e non è mai «del tutto sereno […] insidioso fratello dei sogni e dell’accidia» (Turello). È la poesia il luogo di ricerca e selezione linguistica, per far «lievitare», liberare dal peso, la materia verbale (Ciceri). La realtà «è come appannata dal sogno», le presenze umane rare, la gente (il «sofli salvadi de int» [il respiro selvatico della gente]) elemento di disturbo. ... leggi Il verso è intimo ed intimista, percorso da un «vago malessere adolescenziale» o un sentire «autunnale», una fuga («Io no capís i muarz. / ’O duâr» [Io non comprendo i morti. / Dormo]), in contrasto con le immagini primaverili e parallela al desiderio di attingere dalla natura «un fîl di vite» [un filo di vita], vita-mani verdi che consolano di fronte alla morte e fanno sbocciare come rosa. La prima silloge è percorsa dal tema della morte (Muart [Morte], Tu mueris [Muori], Muart sul paîs [Morte sul paese], Muarz che tornin [Morti che tornano], Murì di un pôl [Morire di un pioppo], con l’anelito finale a «quan’ che ven sere / murí cussì, / cunvinte» [quando viene sera / morire così, / persuasa]). La sensazione è di una vitalità mancata, distanza irreparabile e desiderio insperato di un «altrove» («’Ne vite gnove […] libare come un’ale di vint […] Oh iessi un’altre un’altre» [Una vita nuova … libera come un’ala di vento … Oh essere un’altra un’altra], «A mi dami, Diu, ’ne píciule / tombe di glerie […] Ne tombe blancie in somp dal cuel. / Dongie ’l cîl. / E qualchi margarite nassude di me, / zale e lustre […] Io ti darai, Signôr, il miò tasè» [A me concedi, Dio, una piccola / tomba di ghiaia … Una tomba bianca in cima a un colle. / Vicino al cielo. / E qualche margherita nata da me, / gialla e lucida … Io ti darò, Signore, il mio silenzio]). La seconda raccolta, successiva alla perdita della madre, ha maggiore tenuta, anche se non è esente dal pericolo di un «eccesso di effusività sentimentale» (Pellegrini). Il canto nasce (Cjant di vene [Canto di vena]) largo come un riso di bimbo alla festa spenta del vivere («pe fieste dal gno vivi smamide» [per la festa del mio vivere scolorita]), alla primavera accecata di sogni, e resiste («Epur dal sum senze soste dal vivi / al nàs» [Eppure dal sogno senza sosta del vivere / nasce]) ai giorni di pena («lisse come spegli di lât» [liscia come specchio di lago]), al fiammeggiare di anni che fremono, all’incendio dell’anima. Un cercato colorismo (oltre al gusto per la sinestesia e la parola scelta, che pure accoglie italianismi), con il ripetersi del bianco e del giallo (Romano), accanto all’indefinito dell’ombra, assorbe questa frattura intima, nel predominio affaticante dell’anima «bessole» [sola], a contemplare «sul or dal timp» [sull’orlo del tempo], cose e persone andate oltre. Il ricordo (P. si dice «malata di passato» e l’ultima produzione è come «arresa al solo bene dei ricordi»: Ciceri) e il rimpianto diventano sfida nella scrittura (non c’è mai abbandono o vittimismo, neppure quando la consapevolezza della malattia segna, semmai vi è la tendenza a confondersi «nei meandri del cuore», Bartolini). Vicini a questo toccato piano lirico gli elzeviri di Gjografie pierdude [Geografia perduta], 1976, e i due romanzi, Il bintar [perdigiorno, sfaccendato, senza luogo né pace], 1974, premiato dalla Società filologica nel 1973, e Prapavèris (1977). Sono, questi ultimi, romanzi dell’irresolutezza, senza finale certo, che portano nella fragile narrativa in friulano la componente introspettiva. I protagonisti vivono una crisi esistenziale e un senso di inconcludenza. Il primo, «alter ego» del non appartenere più, incarna l’emigrante che non sa, e non può, tornare; il secondo è «un friulano sbandato, incapace di saldezza interiore e di costanza sentimentale» (Pellegrini). In entrambi prevale l’analisi psicologica rispetto al narrato, ma in Prapavèris, luogo presso Moggio dove il protagonista, giunto a un punto fermo della sua vicenda, si rifugia, il racconto si dipana sfruttando la tecnica del feed back. Ne esce un «antieroe a metà», privo di dimensioni tragiche, comunque un vinto (Ciceri). In vita P. pubblicò ancora in italiano Momenti di una primavera (1978), che percorre, romanzo e diario, i mesi tra il 1944 e il 1945, primavera «della vita e della storia» (Turello), proposto poi in friulano (1989), e I giorni della cantoniera (1987), tela di ricordi «sapientemente e sottilmente tessuta» che procura «un arduo languore» (Ivanov). L’umanità, l’impegno culturale, l’amore per il Friuli e il friulano, sostenuto attraverso la scuola, le trasmissioni radiofoniche (le rubriche Flôrs di prât e La flôr a Radio Trieste), le lettere ai giornali, sono testimoniati dalle opere postume, raccolte di componimenti rimasti alla forma manoscritta e pagine sparse, curate dal marito: Il miò tasè [Il mio silenzio] (poesie inedite, seguite dalla bibliografia completa), 1997; Frammenti quotidiani (di diario, lettere, versi), con rassegna critica, 1999; Ombre. Elzeviri e racconti (apparsi su quotidiani e settimanali), 2002; Acquerelli friulani, 2006; e infine Raccolti friulani, testi in gran parte editi tra il 1961 e il 1994. Tutti sono scelti a chiarire l’esperienza di P., il suo animo delicato, la dolorosa percezione del fluire del tempo («ombra», dell’essere e delle cose, è parola chiave), la tensione non consolante verso lo spirito e l’età del sogno, di lei «frute», bambina, ma ancor più a «mantenere vivo il ricordo» (D’Aronco).

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Bibliografia

Contributo allo studio su Ermes di Colloredo, Udine, AGF, 1955; G. G. LIRUTI, De lingua forojulianorum dissertatio, a cura di N. PAULUZZO - G. D’ARONCO, Udine, Doretti, 1955; Bibliografia ragionata di Ermes di Colloredo, Gorizia, Tipografia Sociale, 1956; Un fîl di vite, Udine, Tesaur, 1959; Cjant di vene, Udine, Tesaur, 1965; Ciro di Pers poeta barocco?, Udine, SFF, 1968; Edizione critica dei sonetti di Ermes di Colloredo, Udine, SFF, 1971; Il bintar, Udine, SFF, 1974; Gjografie pierdude, Udine, AGF, 1977; Prapavèris, Udine, SFF, 1977; Momenti di una primavera, Reana del Rojale, Chiandetti, 1978; Cjantâ furlan, Udine, La Nuova Base, 1983; I giorni della cantoniera, Presentazione di A. Ivanov, Pordenone, GEAP, 1987; Poesie udinesi, Pordenone, GEAP, 1989; Momenz di une vierte: diari di une frute furlane (1944-1945), Tricesimo (Udine), Vattori, 1989; Il miò tasè: poesie inedite o sparse, con la bibliografia degli scritti, a cura di G. D’ARONCO, Udine, La Nuova Base, 1997; Frammenti quotidiani, a cura di ID., Udine, La Nuova Base, 1999; Ombre. Elzeviri e racconti, Udine, La Nuova Base, 2002; Lettere aperte, a cura di G. D’ARONCO, Torreano di Cividale, s.n., 2004; Acquerelli friulani, Udine, La Nuova Base, 2006; Raccolti friulani, a cura di G. D’ARONCO, Udine, s. ... leggin., 2009.

CHIURLO - CICERI, Antologia, 764-766; R. PELLEGRINI, Aspetti e problemi della letteratura in friulano nel secondo dopoguerra, Udine, Grillo, 1981, 64, 91-93; D’ARONCO, Nuova antologia, III, 361-363; A. CICERI, Scrittrici friulane contemporanee in lingua friulana, in A. CICERI - M. TORE BARBINA, Scrittrici contemporanee in Friuli, Torre di Mosto, Rebellato, 1984, 218-221; M. TURELLO, Miracolo della trasformazione, dell’accidia in creazione, del dolore in bellezza…: commento ai Frammenti quotidiani di Nadia Pauluzzo, «La Panarie», n.s., 124 (2000), 55-59; A. ROMANO, «Quei fantastici globi di vetro». Il mondo delle ombre di Nadia Pauluzzo, ibid., 156 (2008), 27-34.

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