FRUCH ENRICO

FRUCH ENRICO (1873 - 1932)

poeta, insegnante

Immagine del soggetto

Il poeta Enrico Fruch (Udine, Civici musei, Fototeca).

Nacque a Ludaria di Rigolato, in Carnia, il 20 settembre 1873. Trascorse l’infanzia a Premariacco, dove il padre, fornaio, si era trasferito. Frequentò le scuole elementari e le medie inferiori a Cividale, le magistrali a Sacile e a Padova, città in cui conseguì il diploma nel 1892. Negli anni successivi fu maestro a Torre di Pordenone, a Povoletto, a Rigolato, a Resia, a Osoppo e, per un periodo più lungo, a Moggio (1899-1906). In quest’ultima località sposò Ida Franz, dalla quale ebbe un figlio e una figlia. Insegnò poi nelle scuole maschili superiori di Udine dal 1906 al 1917, quando la disfatta di Caporetto lo costrinse alla profuganza a Roma. Rientrato nel capoluogo friulano nel febbraio 1919, venne nominato direttore sezionale; in seguito avrebbe prestato servizio presso l’ufficio scolastico municipale, poi come direttore della scuola di San Domenico e infine di quella di via Dante. L’impegno e la passione didattica gli avrebbero fatto guadagnare la medaglia d’argento dei benemeriti per l’insegnamento. Dopo una breve malattia, la morte lo colse a Udine il 6 dicembre 1932. I versi sparsi a partire dal 1896 nel periodico «Pagine friulane» vennero successivamente da lui raccolti con altre poesie in italiano nel volumetto Friuli (Udine, 1899). Una scelta di soli componimenti friulani ricomparve, con sensibili ritocchi e l’integrazione di altri testi, nei Versi in vernacolo friulano (Udine, 1906). Dopo un lungo periodo di silenzio, uscì improvvisamente Antigàis [Anticaglie] (Udine, 1926), la silloge più completa pubblicata mentre l’autore era ancora in vita, che risulta notevolmente accresciuta nell’edizione postuma del 1949. Infatti nel frattempo F. aveva continuato a scrivere su «La Panarie», nel 1930 erano usciti i Canti della terra e delle fabbriche, musicati da Luigi Garzoni, e nel 1933, ormai dopo la morte, i dodici sonetti di Jù pe vile e pe campagne [In paese e in campagna]. Insieme con Pietro Bonini e Pietro Michelini, F. tentò di rinnovare un panorama ancora dominato, tra fine Ottocento e inizio Novecento, dalla figura di Pietro Zorutti e da una poesia tanto facile e fortunata quanto superficiale e, talora, effimera. ... leggi Indizio eloquente di tale volontà di rinnovamento è la presenza, nel libretto del 1899, di poesie italiane e di traduzioni da autori italiani (Corradino, De Amicis, Panzacchi e soprattutto Stecchetti; più avanti si sarebbe rivolto anche a Leopardi e Nievo); ma non sono estranei al maturarsi della coscienza poetica neppure le trasognate atmosfere tardoromantiche, l’esplicita ricerca di musicalità e armonia, il costante ricorso a forme metriche della tradizione (il sonetto, e poi le sestine – sfruttate anche nel registro burlesco – e le ottave, oltre alle strofe libere di endecasillabi e settenari), il misurato impiego di figure retoriche (con preferenze per l’accostamento sinestetico), il testardo lavoro di lima su una forma che si vuole sempre più cristallina: una rielaborazione continua, per l’analisi della quale sarebbe senz’altro utile l’edizione critica dell’intera opera. Nella produzione successiva si irrobustisce, invece, l’influenza di un certo socialismo umanitario di marca pascoliana, un filo che attraversa molti dei bozzetti di campagna e di montagna: atmosfere più nitide e descrizioni lineari, commosse e felici (e forse abusate) nella loro efficacia realistica, tuttavia quasi sempre lontane dai turbamenti e dalle tensioni profonde che innervano molta letteratura coeva. Echi di Zorutti (ma non le sue asprezze) si colgono soltanto in alcuni ritratti e in pochi altri testi più disponibili all’autobiografismo. Al di là dell’indole borghese e sentimentale, al di là di quel «sottinteso, raccolto pessimismo che è il suo tratto umano più profondo» (Cantarutti), quella di F. è dunque poesia della memoria come riferimento e risarcimento: «È sin d’unviar e la tiare jé grise / e un soreli malât tal cîl al vai / e plui nol cjante il rusignûl te cise, / ma che’ matine la ricuardarai» [Siamo in inverno e la terra è grigia, e un sole malato piange nel cielo, e più non canta l’usignolo nella siepe, ma quel mattino lo ricorderò] (Tal salèt [Nel saliceto]); memoria privata e memoria letteraria, con prudenti apporti locali e sintomatici prelievi da altri modelli: non soltanto Pascoli (variamente presente), ma anche Carducci (vivo, per esempio, nelle opposizioni luceombra o passato-presente, e nelle pieghe metaforiche del verbo “ridere”) e altre voci dei tempi nuovi. F., che tradusse anche Esopo, a dispetto delle proprie origini, non impiegò il carnico ma scrisse versi in una varietà del friulano centrale. Temi e modi del poetare avrebbero fatto di lui un paradigma costante per molti dei successivi autori minori, contribuendo peraltro a cristallizzare per decenni la produzione in friulano in un immaginario di serena e appagata nostalgia: «La biele stele del pastôr ’e rît / su la plui alte cime de montagne; / e ca denant, te iarbe che si bagne / cu la rosade, al tâs il gri spaurît» [La stella del vespro ride sulla cima più alta della montagna; e qui davanti, nell’erba che si bagna di rugiada, tace il grillo spaventato] (Sere [Sera]). Il giudizio pienamente positivo e privo di riserve espresso da Chiurlo, accolto con convinzione anche da Virgili, è stato ridimensionato soltanto in tempi più recenti; in particolare Faggin ha osservato come la poesia della giovinezza manifesti con limpidezza il suo canto d’amore e di natura, mentre in quella della maturità l’ispirazione venga meno rendendo le poesie «anemiche e opache, pregevoli soltanto per la linda fattura». L’affermazione di F. è viva sul piano musicale, e riguarda tanto le sue villotte – Anìn, varìn furtune [Andiamo, avremo fortuna], musicata da Franco Escher – quanto l’ultima fase, quella del poeta civile che scrive Il ciant del forment [Il canto del frumento] e soprattutto Il ciant di Aquilèe [Il canto di Aquileia], musicata da Luigi Garzoni, che compose anche la musica di Gnot sul nevâl [Notte sul nevaio], e da Oreste Rosso. Ma in F. si sorprendono anche sintagmi che hanno goduto di ben altre fortune: «Al ventisel c’al sofle / viodis-tu i prâs smarîsi di colôr?» [Al venticello che soffia / vedi i prati smarrirsi di colore?] (Rosis e spinis [Rose e spine]): una filigrana non “smarrita” per i futuri versi di Pasolini.

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Bibliografia

Opere di E. Fruch: Friuli. Versi, Udine, Del Bianco, 1899; Versi in vernacolo friulano, Udine, Del Bianco, 1906; Antigàis, Udine, Edizioni de La Panarie, 19261, 19492; Canti della terra e delle fabbriche, Udine, Arti grafiche cooperative friulane, 19301 (Udine, Doretti, 19302); Jù pe vile e pe campagne, Udine, SFF, 1933.

DBF, 369; B. CHIURLO, Poesie friulane di Enrico Fruch, «Pagine friulane», 17/12 (1905-1907); G. CALLIGARIS, “Antigàis” di Enrico Fruch, «La Panarie», 3 (1926), 393-397; CHIURLO, Antologia, 396-402, 897; B. CHIURLO, La poesia di Enrico Fruch, «AAU», s. V, 12 (1932-1933), 123-167; A. BELTRAME, Poeti friulani contemporanei, «Avanti cul brun!», 12 (1945), 29-33; N. CANTARUTTI, Poesia friulana fra le due guerre, I, Enrico Fruch, «Il Friuli», I (1955), ni 8, 9, 10, 11; G. FAGGIN, La cise in flôr. Stiernete de poesìe furlane di îr, Udine, Edizions dal Moviment Friûl, 1972, 7-20; Mezzo secolo di cultura, 124-125; VIRGILI, La flôr, II, 33-36; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 157-158; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 286-287.

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