SUZZI CELESTINO

SUZZI CELESTINO (1815 - 1883)

prete, insegnante, letterato

Nato a Resiutta (Udine) l’11 aprile 1815, da famiglia relativamente benestante, frequentò il Seminario di Udine e venne ordinato sacerdote il 23 settembre 1837. Fin da ragazzo si fece notare per l’intelligenza brillante, per il temperamento vivace, a tratti anche polemico e ribelle, e per l’adesione alle idee del liberalismo cattolico. Dopo un primo incarico come cappellano di Costa nel Comelico, fra il 1840 e il 1841 fu a Ovaro in qualità di economo della pieve di Gorto. Nella frazione di Luint ebbe modo di conoscere Giovanni Battista Lupieri, medico di grande spessore umano e intellettuale, attento alle novità sociali e culturali, capace di intessere (pur vivendo in una zona così periferica) una vasta rete di relazioni con le figure di maggior rilievo della Carnia e del Friuli del suo tempo. Con Lupieri, S. instaurò un solido rapporto di amicizia: i due si scambiarono, nel corso degli anni, fino alla morte di Lupieri nel 1873, numerosissime lettere che sono attestazione di ideali politici e religiosi condivisi, di riflessioni derivate dalla lettura degli stessi libri (Manzoni, Rosmini e Gioberti innanzitutto), di una comune passione per l’arte poetica e di una vera e propria devozione filiale di S. nei confronti del più maturo e saggio Lupieri. Nel chiuso ambiente del clero carnico, il dinamismo e il carisma di S. suscitavano perplessità, invidie: ben presto alla curia udinese pervennero delazioni, «secrete infami calunnie» a fronte delle quali nulla sortì il leale e circostanziato intervento difensivo di Lupieri. Il rifiuto di trasferirsi ad Avasinis in una sede avvertita come una vera e propria punizione («luogo […] di pastori, di capre e di carbonai»), avrebbe provocato una reazione durissima da parte delle autorità ecclesiastiche, al punto che S., sfogandosi con Lupieri, disse: «io sono fatto oggetto della più fiera persecuzione». Pur sconvolto e amareggiato, in questo periodo coltivava comunque il sogno di potersi allontanare dal Friuli, di trasferirsi nella diocesi di Venezia o di frequentare l’Università di Padova, per dedicarsi, in futuro, all’insegnamento. ... leggi Per il momento, invece, il vescovo lo obbligò a raggiungere una sede ancora più disagiata: Saletto, tra Dogna e Pontebba, a «buone quattro miglia da Raccolana, […] dove […] dai primi di novembre, fin alla metà di marzo il sole sen va e più non lo si vede». Qui, fino al marzo 1842 trascorse «giorni di afflizione e malinconia». Nel giugno dello stesso anno venne trasferito a Gradisca di Sedegliano come sostituto del vicario parrocchiale e vi rimase fino al 1845, per passare poi a Fraforeano, «antico borgo feudale di proprietà dei fratelli Gaspari di Latisana» (Agarinis), un domicilio più confortevole e forse più rispondente alla sua aspirazione a vivere in società, ad intrattenere scambi intellettuali o anche più semplicemente a godere della possibilità di una conversazione brillante. In realtà, però, anche qui si sentiva isolato, avvertiva un profondissimo disagio intimo e spirituale, mentre la critica nei confronti della Chiesa, da lui giudicata ormai irrimediabilmente lontana dalla purezza primitiva, diveniva sempre più accesa, come si evince da alcune lettere inviate a Lupieri nel 1846. Poche e scarne sono le notizie di S. tra il 1847 e il 1849: la corrispondenza con l’amico carnico diradò, anche se «sicuramente avrebbero avuto molte cose da dirsi, per gli importanti eventi storici di cui furono testimoni e per le sventure da cui entrambi furono colpiti» (Agarinis): Lupieri perse l’amato figlio Giulio Cesare e S. il fratello Isidoro, accorsi entrambi come volontari alla difesa della Repubblica di Venezia. Tenuto sempre d’occhio per le sue posizioni liberali e antiaustriache, accusato di protestantesimo e di eresia, il 7 febbraio 1853 gli venne intimato di allontanarsi da Fraforeano. Dopo aver consegnato alla curia «il libello di ripudio, cioè la lettera in cui dichiarava i suoi contrasti con la dottrina ufficiale della Chiesa» (Agarinis), S. partì per Parenzo dove, nei successivi due anni scolastici, insegnò nelle classi ginnasiali e visse un periodo relativamente sereno grazie all’incontro con altri sacerdoti friulani che vivevano in Istria, come don Osvaldo De Caneva e don Giuseppe Buttazzoni (anche quest’ultimo costretto ad un esilio forzato per le sue posizioni ribelli). Il conflitto con la Chiesa udinese era tutt’altro che placato: dopo l’estate del 1854 trascorsa sui monti della natia Resiutta (per le sue doti di gran camminatore e scalatore S. venne menzionato anche dal geologo Giovanni Marinelli, che lo riconobbe come uno dei primi a portare a termine l’ascensione al monte Canin), gli venne vietato il rientro in Istria e, all’inizio del 1855, gli venne comunicata la sospensione “a divinis”. S. si rifugiò allora in casa di Lupieri a Luint come precettore del piccolo Giulio Magrini, nipote del medico. A seguito di una perquisizione della polizia austriaca nella sua stanza, per non compromettere i suoi generosi ospiti, la notte del 21 febbraio 1855, mentre infuriava una bufera di neve, S. si vide costretto ad una drammatica fuga a piedi verso il Comelico. Rientrato dopo molte settimane, si rifiutò ostinatamente di venire a patti con la curia. Dovette pertanto condurre per mesi una vita raminga, da Luint a Resiutta, da Codroipo a Latisana, sempre braccato dalla polizia, per tornare, alla fine dell’anno, nuovamente nel paese natale presso il padre. La sofferenza e la solitudine furono tali da spingerlo, nel febbraio 1856, a sottoporsi alla cerimonia dell’abiura e a predisporre una ritrattazione scritta. L’umiliazione e la contrizione non bastarono, comunque, a fargli riottenere la cura d’anime, per la quale sarebbe stato necessario anche il consenso delle autorità civili. Solo nel febbraio 1859 l’arcivescovo di Udine lo autorizzò a trasferirsi nella diocesi di Milano. A partire da questo momento le notizie sulla sua vita sono meno precise: la corrispondenza con gli amici friulani avrebbe sicuramente comportato dei rischi. Trovò impiego come insegnante di letteratura italiana, latina e storia presso il collegio Bosisio di Monza, e rafforzò il suo impegno per la causa risorgimentale: collaborò, tra l’altro, col Comitato patriottico lombardo, che teneva i contatti con i comitati segreti del Veneto e del Friuli. La raggiunta unità d’Italia lo vide scettico, deluso, particolarmente critico nei confronti della monarchia, sempre più vicino alle posizioni politiche di Mazzini. L’emanazione del Sillabo nel 1864 fece crollare in S. ogni speranza di rinnovamento della Chiesa, tanto da indurlo a prendere la risoluzione più drastica, quella di gettare la tonaca: «Non potendo più sperare che la Chiesa si facesse cristiana, volli almeno farmi cristiano io», scrisse qualche anno dopo a commento della sua scelta. In Lombardia riprese gli studi, si dichiarò seguace del positivismo senza però rinnegare il cristianesimo, tornò a poetare. Nel 1867 la sua carriera di insegnante ginnasiale proseguì a Ferrara, poi dal 1870 a Teano (Caserta). Nel 1872 si trasferì a Sessa Aurunca (Caserta) e nel 1876 a Nocera Inferiore (Salerno), come insegnante presso il Liceo G. B. Vico, diretto da un uomo aperto e innovatore, Innocenzo Viscera, appartenente alla «tradizione culturale del De Sanctis e dello stesso positivismo napoletano» (Agarinis). S. mantenne sempre i contatti col Friuli e dopo il 1866 vi tornò più volte d’estate per rivedere i familiari, gli amici e l’ormai vecchio ma sempre lucidissimo Lupieri. In questi anni all’attività didattica (svolta con scrupolo e ricambiata dall’affetto degli scolari) S. affiancò l’approfondimento di varie tematiche religiose, politiche, filosofiche e sociali. Numerosi sono gli opuscoli, i libri, gli articoli da lui pubblicati (caratterizzati da uno stile sempre piuttosto enfatico, ampolloso): componimenti d’occasione, epitalami, odi, carmi, discorsi rivolti agli allievi o prolusioni ai suoi corsi scolastici, interventi per la Società operaia di mutuo soccorso, riflessioni in merito a fatti di attualità o ricorrenze – per esempio la morte di Pietro Zorutti, la condanna a morte da parte di Pio IX dei cittadini romani Monti e Tognetti, l’anniversario della nascita di Michelangelo, la morte di Mazzini, quella di Garibaldi ecc. –. I manoscritti risalenti all’ultimo periodo della sua vita sono conservati presso la Biblioteca civica di Udine, sotto il titolo Prose di soggetto filosofico e letterario e Versi di vario soggetto (molti materiali, però, sono frammentari). Oltre a comporre versi in italiano, in latino ed in greco, S. si cimentò anche con la stesura di un poemetto in friulano – era sempre stato un attento lettore ed un ammiratore di Pietro Zorutti. L’opera, intitolata Lu chiant de razze latine [Il canto della razza latina], ottenne il primo premio al concorso bandito nel 1878 a Montpellier dal locale “félibrige” e rivolto a poeti di tutte le lingue romanze. Il poemetto venne pubblicato nello stesso anno a Udine presso la tipografia dell’Esaminatôr: non è contraddistinto da una qualità letteraria particolarmente elevata, ma presenta più motivi di interesse, in primis l’attenzione per la questione della lingua. Nella prima parte il poeta invita la «Ninfe de Tôr» (la Ninfa del Torre, il torrente che lambisce la città di Udine), a farsi paladina della sua terra e della lingua che in essa si parla. Il poeta sa che la Ninfa ha voce flebile, «vosine», «vôs di gri» [vocina, voce di grillo], rispetto alle altre lingue neolatine. Nella seconda parte la Ninfa dispiega il suo canto al Friuli: riconosce che finora quella vocina è stata usata solo per fare «lis serenadis» [le serenate] o «dâ la soe ai zerbinos» [beffeggiare i giovanotti], ma ha una sua forza che promana dal latino e che la accomuna alle altre lingue sorelle: «mi dà la sigurezze / che cun int di miò pâr nissun mi sprezze» [mi dà la sicurezza che con gente mia pari nessuno mi disprezza]. La Ninfa riconosce la superiorità della parlata fiorentina, «che sûr taliane / che a dutis quantis nus darâ la plane» [quella sorella italiana che passerà sopra a tutte noi], «il rusignûl» che «in dut c’al dîs al è simpri civîl» [l’usignolo che in tutto quello che dice è sempre civile] e accetta di buon grado la marginalità del dialetto: «Si contenti il dialet di sta su l’òr» [Si accontenti il dialetto di stare ai margini]. «A unità appena raggiunta un tale convincimento non sorprende, pur se per i dialetti non manca una qualche considerazione: ‘Ma, insin che durin, ançhie lor son vous / De Nature e un tantin ançhie de Storie / E a puedin dà materie ai studious / Di scrusignâ e quistassi un po’ di glorie’ [Ma, finché durano, anche loro sono voce della Natura e un po’ anche della Storia e possono dare argomento agli studiosi di frugare e conquistarsi un po’ di gloria]: a cinque anni appena dai Saggi ladini di Ascoli» (Pellegrini). E proprio a Graziadio Isaia Ascoli l’ex sacerdote di Resiutta inviò orgogliosamente il suo poemetto, insieme ad una lettera in cui spiegava i motivi che lo avevano spinto a partecipare al concorso: «dinanzi ai glottologi d’oggidì è svanito il dispregio affettato sempre dalla filologia verso i dialetti». Aggiungeva di ritenere che il concorso bandito dal “félibrige” occitanico non avesse solo uno scopo letterario, ma che vi si potesse scorgere «il piano… d’una lega morale delle genti latine, prodromo ad una lega reale ed effettiva». Altri indizi riscontrabili qua e là tra le carte manoscritte di S. depositate presso la Biblioteca civica di Udine, comprovano la sua attenzione per la lingua friulana: significativi sono, per esempio, alcuni fogli che costituiscono un abbozzo di vocabolario friulano con spiegazione dei lemmi in latino e accenni alla ricostruzione dell’etimologia. S. si spense a Nocera Inferiore il 14 gennaio 1883.

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Bibliografia

Mss BCU, Principale, 334, Versi di vario soggetto; ibid., 335, Prose e lettere di Celestino Suzzi (i manoscritti risalgono al periodo ferrarese e meridionale dell’autore).

C. SUZZI, Discorso letto agli alunni del collegio Bosisio in Monza a festeggiare il 6° centenario di Dante, Monza, Berretta, 1865; ID., In morte dell’arguto e grazioso nostro poeta vernacolo Pietro Zorutti. Sonetto, «Giornale di Udine», 27 marzo 1867; ID., In morte di Giuseppe Mazzini, ibid., 19 marzo 1872; ID., Al banchetto fraterno delle Società operaie del Friuli: Discorso del Socio, Professor Celestino Suzzi, Udine, Jacob e Colmegna, 1878; ID., Lu chiant de razze latine. Il Friûl a Montpellier col concors tignut in mai dal 1878, Udine, Tip. dell’Esaminatôr, 1878; ID., Lu ciant de razze latine, «Ce fastu?», 4/2 (1928), 21-38.

B. AGARINIS MAGRINI, Celestino Suzzi. Una biografia scomoda, Pasian di Prato, Leonardo, 2001; R. PELLEGRINI, Il Friuli e la Provenza, in Studi di Filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, a cura di P.G. BELTRAMI - M.G. CAPUSSO - F. CIGNI - S. VATTERONI, Pisa, Pacini, 2006, 1191-1214.

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