NEGRONI GIOVANNI BATTISTA

NEGRONI GIOVANNI BATTISTA (1625 - 1676)

poeta

Immagine del soggetto

Frontespizio del "Purpura Vaticana, sive Ioannis Delphini..." di Giovanni Battista Negroni, Udine 1667.

Pur essendo nato ad Ampugnano, in Corsica, nel 1625, il N. viene considerato dal Liruti un friulano “di adozione” per avere trascorso gran parte della vita a Udine offrendovi il meglio delle sue qualità di umanista. Compì gli studi avanzati a Padova, dove si laureò in teologia. La protezione del canonico della città, l’abate Francesco Leoni, conte di Sanguinetto, lo raccomandò all’attenzione del patriarca di Aquileia Giovanni Dolfin, da poco elevato al seggio. Trasferitosi presso il Seminario di Udine, si distinse per le attitudini filosofiche, retoriche e poetiche, molto apprezzate dal grande prelato, che ritenne di segnalarlo per un incarico di docenza presso l’Università di Padova. Il 30 gennaio 1669 gli fu assegnata la cattedra di logica, che contribuì a guadagnargli l’onore di accedere al collegio dei Teologi e poi di rivestire il titolo di Promotore nel collegio dei Medici. Morì nel 1676. La produzione letteraria negroniana è connotata da una spiccata coloritura encomiastica. Datata 1662 è l’operetta di maniera In felicissimam iuris utriusque lauream d. Io. Francisci Boreati nobilis Utinensis (1662). Il volumetto commemorativo Petro Dianae Utinensi patritio fel(iciter), redatto in onore dello zio paterno del committente, uscì «appresso Nicolò Schiratti» molto probabilmente nel 1664. L’autore ricorda come Pietro Diana, che egli ha avuto modo di conoscere quando prestava la sua opera di medico presso il Seminario di Udine, abbia coltivato i valori della classicità unitamente alle eccelse competenze cliniche apprese all’Università di Padova. ... leggi Per la circostanza il N. inneggia alla prestigiosa tradizione che attraverso una staffetta d’intellettuali di primissima grandezza si è snodata da Francesco Petrarca a Ermolao Barbaro, quasi a suggerire un progressivo spostamento del baricentro umanistico dalla Toscana alle Venezie. Pubblicato a Padova nel 1665, presenta un’intonazione enfatica, peraltro di prammatica, lo scritto d’occasione La Giustitia in trionfo, sottotitolato Per la felicissima laurea del dottorato in amendue le leggi dell’illustrissimo signor Nicolò Venzone nobile d’Udine: dedicata da Servilio Treo all’illustrissimo sig. Federico di Toppo gentil’huomo udinese. Il 28 marzo 1665 il presidente Servilio Treo, iscritto all’Accademia degli Sventati con lo pseudonimo “il Mutabile” (non “il Mirabile”, come invece erroneamente riporta il Liruti), pronunciò la breve prolusione che motivava la consegna del diploma di laurea in giurisprudenza al conte Federico di Toppo. Il libretto contiene in apertura il testo del discorso, a cui segue un trittico che intreccia nel comune omaggio al dedicatario un sonetto di Giambattista Basso, un’ode oraziana di Bartolomeo Grifo e un epigramma latino dello stesso N., concluso da un complimentoso paradosso: quando una corona d’alloro è conseguita con esiti di brillante eccellenza, il suo valore si colloca poco al di sotto delle corone dei sovrani. Per inciso, allorché nel 1662 il conte di Toppo era stato eletto al vertice dell’Accademia degli Sventati, il canonico Giovanni Carrara aveva composto e declamato l’orazione Tromba d’applauso per le glorie dell’Illustrissimo Federico di Toppo principe dignissimo de l’Academia Sventata udinese, dove il fatto che l’edizione a stampa dello Schiratti fosse dedicata al N. sembra indicare che quest’ultimo avesse avuto una parte di primo piano tra i promotori della cerimonia d’insediamento. Nel 1665, insieme ad Andrea Brunelleschi, Giuseppe della Porta, Enrico Treo, Giambattista Sansoni e Paride Pirona, il N. figurò nel manipolo dei poeti incaricati di recensire in termini lusinghieri la raccolta di biografie Udine illustrata da molti suoi cittadini, così nelle lettere, come nelle armi famosi, e non tanto per dignità ecclesiastiche e secolari, quanto per altre notabili condizioni insigni e riguardevoli, pubblicata da Giovanni Giuseppe Capodagli, membro dell’Accademia degli Sventati con lo pseudonimo “l’Assicurato”. In un epigramma in esametri latini il N. rende merito all’autore di aver affidato la celebrità dei grandi udinesi non all’immortalità deperibile dei marmi monumentali, ma a quella duratura della parola scritta. Rientra nel genere agiografico la Vita di s. Valentino prete, e martire; cavata dal Surio, e descritta dal sig. Gio. Battista Negroni, publicata nella traslatione del Corpo di detto Santo alla Chiesa di S. Valentino della Città d’Udine, edita nel 1666. La salma di un ignoto martire, esumata nel 1655 dalle catacombe romane di S. Ciriaca e battezzata col nome di S. Valentino, era stata donata nel 1664 all’omonima parrocchia di Udine per intercessione del conte Oldarico della Porta. Il patriarca Giovanni Dolfin aveva autorizzato la pubblica venerazione del corpo e delle relative reliquie. L’anno seguente aveva avuto luogo la traslazione dalla chiesa Metropolitana a quella di S. Valentino. Col panegirico composto per questa solennità dal canonico Giovanni Carrara fece pariglia l’opuscolo del N., il cui taglio divulgativo, sia pure entro i limiti propri dell’epoca, obbediva a un intento promozionale del culto. Di qui la coinvolgente impostazione da omelia conferita al dialogo tra Valentino e l’imperatore romano Claudio II, e poi al colloquio col prefetto Asterio, che conduce l’istruttoria. Il miracolo della guarigione della figlia adottiva del magistrato, risanata dalla cecità, trova un risvolto anagogico nella conversione del padre, a cui viene illuminata la vista interiore, prima ottenebrata dalla superstizione pagana. La condanna a morte del Santo, flagellato e decapitato, non viene spiegata con l’impenetrabile scetticismo del sovrano, bensì con la convenienza politica della ragion di stato, intrinseca alla divinizzazione del potere assoluto. Cautamente storicistica è la riflessione secondo cui, come per la graduale maturazione dell’umanità, anche alle origini del cristianesimo la diffusione delle verità di fede era necessariamente veicolata dall’evidenza sensoriale dei miracoli e soltanto col tempo la predicazione evangelica predilesse come più evoluto mezzo di persuasione le sottigliezze dimostrative dell’argomentazione logica. Nel 1667, dietro richiesta del menzionato abate Francesco Leoni, il N. pubblicò un’operetta prosimetrica dal titolo Purpura Vaticana, sive Ioannis Delphini patriarchae Aquileiae, et S. R. E. cardinalis elogium, in concomitanza con l’elevazione del patriarca Giovanni Dolfin alla dignità cardinalizia. Il primo scritto della silloge è il Panegyricus Johanni Delphino S. R. E. Cardinali dictus, redatto in prosa aulica e accompagnato dalla premessa Quibus artibus quaesita sit Purpura Vaticana. L’autore sostiene di avere riconosciuto nell’eletto un «christianae probitatis exemplar», contraddistinto da «innocentia rerum, sanctitas vitae, agendarum rerum prudentia, disciplinarum ubertas e styli suavitas». Aggiunge di poter testimoniare che tale nomina non è stata sollecitata da alcun mercanteggiamento né accattivata da un’esibizione di virtù, perché semmai il candidato ha sempre dissimulato le sue straordinarie qualità per uno scrupolo di umiltà. Un breve riassunto precede un carme apologetico che in 904 esametri latini delinea la fisionomia idealtipica di Giovanni Dolfin: Ermagora, il primo patriarca di Aquileia, dalla sua sede ultraterrena intercede presso l’Altissimo per far assegnare al suo protetto il galero cardinalizio; san Pietro, mosso dall’ordine divino, scende dall’Empireo per incontrare papa Alessandro VII (il senese Fabio Chigi) e caldeggiarne l’elezione. Il pontefice, gravemente malato, ma lucidamente insonne, non ha nulla da obiettare, tanto più che nella sua saggezza l’ha già presa in considerazione. Pietro lo conforta preannunciandogli l’imminente ascesa tra i beati. L’espediente letterario della profezia “post eventum” si riferisce alla morte avvenuta il 22 maggio 1666, un anno prima che N. pubblicasse l’opera. Completano la rassegna dodici elegie brevi, il cui filo conduttore percorre una serie di variazioni baroccheggianti sull’allegoria del delfino, simbolo araldico della famiglia del patriarca: i buoni frutti ministeriali del neoporporato sono eticamente ricondotti alla ossimorica “irrequieta quies” che è propria del versatile animale acquatico. Un anno prima rispetto alla Purpura Vaticana il N. firmò un componimento poetico di dodici versi in latino, pure dedicato al Dolfin, nell’opera Elogii d’huomini letterati scritti da Lorenzo Crasso (1666), dove un elogio del patriarca, steso dal Crasso in italiano e preceduto dal ritratto del cardinale (pp. 206-208), è seguito (pp. 209-211) da brevi componimenti poetici, ultimo quello citato del N. (p. 211) dettato personalmente al Crasso (Chiese […], 141). Risale al 1668 la miscellanea Poesie al merito dell’illustrissimo, et eccellentissimo signor Zaccaria Valaresso Luogotenente Generale della Patria del Friuli, nella partenza dal suo gloriosissimo Reggimento, commissionata da Servilio Treo. Al discorso introduttivo, pronunciato dal Treo il 19 agosto 1668, quando il luogotenente veneziano del Friuli per il 1667 lasciò la carica e prese commiato dalla cittadinanza di Udine, subentrano i tributi letterari di alcuni accademici, quasi tutti in toscano illustre, in coda ai quali compaiono tre componimenti in esametri latini del N.: il De Stemmate Gentilitio, che prende spunto dall’immagine dell’aquila, emblema del casato del festeggiato; il De Effigie Zachariae Valaressi Utinensi Urbi dono data, dove si afferma che ancora più fedele del ritratto pittorico del governatore uscente è quello che l’amore riconoscente custodisce nel cuore degli Udinesi; e il De Zacharia Valaresso, dove si dice che nei tempi antichi vigeva l’usanza idolatrica di consacrare a false divinità le contrade che le veneravano, ma il luogotenente non sarebbe indegno di un santuario in cui la gente ringraziasse Dio con incenso e preghiere per aver beneficiato del provvidenziale soggiorno dell’ospite. Ancora nel 1668 il N. lavorò alla pubblicazione del componimento breve Veritas iugulata, sottotitolato miscellaneum opusculum in Seminario Aquileiensi, recurrente d. Ioan nis Baptistae capite multati Pervigilio, habitum. Destinatario era il luogotenente del Friuli per quell’anno, Pietro Foscarini. Campeggia la figura di Giovanni Battista, cui N. deve il nome e al quale viene ricondotta la fondazione del sacramento del battesimo, accreditato da Cristo stesso, quando porse il capo da aspergere con l’acqua lustrale del Giordano. Malgrado i pur evidenti limiti d’ispirazione, da questa produzione minore si distacca l’opera più impegnativa del N., il Bellum Pannonicum illustrissimo, ac reverendissimo d(omino) d(icto) Ioanni Delphino Aquileiae Patriarchae, &c nuncupatum, un ambizioso poema eroico che vide la luce a Udine nel 1666. Due anni dopo, nel proemio “Ad lectorem” dell’operetta Veritas iugulata sopra citata, l’autore ricorderà con compiacimento come l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo, re di Boemia e Ungheria dal 1655 e imperatore d’Austria dal 1658, l’avesse insignito con un collare d’oro recante un medaglione con l’effigie del sovrano, in segno di speciale apprezzamento per il Bellum Pannonicum, presentato alla corte viennese su iniziativa del conte Florio. Articolato in due canti, il “poematium” ha per cardine tematico la campagna vittoriosamente condotta in Ungheria nel 1663 dall’esercito crociato di Leopoldo contro l’armata d’invasione turca. La guerra di liberazione, che in forma allusiva N. fa culminare nella battaglia di S. Gottardo sulla Raab, dove l’offensiva nemica venne neutralizzata, in realtà si protrasse per altri trent’anni fino alla definitiva pace di Carlowitz, siglata nel 1699, le cui clausole sancirono l’inizio dell’arretramento dell’impero della Sublime Porta, costringendo il sultano Mehmed IV a ritirarsi dietro la frontiera del Danubio. Dalla lettura emerge forte l’impressione che le vibrazioni epiche non siano nelle corde del poeta, un raffinato orefice della metrica a cui sembrano più congeniali le tonalità liriche. Quasi a tentare di sopperire all’evanescente vigore narrativo, i versi s’impennano in accenti di sonora magniloquenza, perché la sua vera Musa è la devozione celebrativa, in questo caso mirata a esaltare la disfatta della «Othomana potentia», a cui la mobilitazione invocata dal papa avrebbe impedito di «ex totis Christum depellere terris». Limiti anche più vistosi evidenzia il contenuto, che induce a considerare il N. un poeta che fa della storia controvoglia piuttosto che uno storico che espone in poesia accadimenti salienti. Attinge infatti copiosamente al repertorio mitologico e a quello biblico indulgendo al piacere calligrafico di un’erudizione fine a se stessa che ha l’inconveniente di spezzare il filo del racconto. Il quale, anche a prescindere dalla prolissità delle similitudini e degli excursus, si snoda labile, data la povertà dei dettagli informativi utili a fornire coordinate puntuali. Una coraggiosa onestà di giudizio traspare nella valutazione della condotta di «Leopoldus», cioè di Leopoldo I d’Asburgo. Per l’autore è una grave responsabilità del sovrano, comune a gran parte dei capi di Stato europei, aver dato eccessivo credito alle speranze di stabilità della pace negoziata con Costantinopoli. A suo parere, l’inattesa violazione degli accordi proverebbe che un accomodamento col governo turco è un rischio mortale a causa della «malefida quies» dell’interlocutore. Richiamandosi al contesto parenetico del Somnium Scipionis di Cicerone, il N. immagina che il padre Ferdinando III appaia in sogno al figlio dalle sedi iperuraniche per rimproverargli uno scarso mordente combattivo e per riscuoterlo dal suo inadeguato impegno militare. L’elogio della casata è dunque subordinato al ruolo di braccio armato e di bastione avanzato del cattolicesimo. L’autore lo glorifica entro i termini in cui la sua intraprendenza guerriera è disposta ad assecondare la funzione tutelare della Chiesa, vigilante coscienza dell’ecumene evangelizzata. Pochi e nebulosi sono gli altri protagonisti nominati nel poema: Magmed, cioè il sultano Maometto IV, ufficialmente comandante in capo dell’esercito turco, in realtà all’epoca poco più che un fanciullo esautorato dalla cerchia ministeriale; il Visirius, cioè il Gran Visir Ahmed, esponente della dinastia dei Küprüli, che deteneva il potere effettivo; Montecuccoli, cioè Rai mondo Montecuccoli, generalissimo dell’armata cristiana; e Susa, suo prefetto di campo. Si dipana in quadri piuttosto frammentari la sezione terminale, dove i quattro elementi della natura concorrono allo sfacelo degli incursori, flagellandoli quasi a sigillare un trionfo che è anche quello di Dio e a purificare le terre dell’alto Danubio da quello che viene definito il «contagio dell’Islam». Non si può escludere che, per amore di tesi, l’autore abbia anticipato al 1663, anno dello scontro campale sulla Raab, le calamità naturali avvenute invece nel 1668, quando si scatenarono sulla regione devastanti grandinate, un terremoto e il disastroso incendio di Offen. Conclude il poema l’invettiva contro i vinti, che il N. esorta a desistere da ogni proposito ostile. L’auspicio è che «perpetuam eclipsim Luna Othomana obeat», cioè che la Mezzaluna della potenza ottomana incorra in una eclissi irreversibile.

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Bibliografia

G.B. NEGRONI, In felicissimam iuris utriusque lauream d. Io. Francisci Boreati […], Padova, Pasquati, 1662; ID., Petro Dianae Utinensi patritio fel(iciter), Udine, Schiratti, [1664]; ID., La Giustitia in trionfo […], Padova, Pasquati, 1665; ID., Vita di s. Valentino […], Udine, Schiratti, 1666; ID., Bellum Pannonicum […], Udine, Schiratti, 1666; ID., Purpura Vaticana […], Udine, Schiratti, 1667; ID., Veritas iugulata […], Udine, Schiratti, 1668.
LIRUTI, Notizie delle vite, IV, 446-447; VALENTINELLI, Bibliografia, 55 n. 344; 135 n. 903; 339 n. 2501; 383 n. 2956; 442 n. 3482; Chiese di Udine (ms Joppi 682 a della Biblioteca Civica di Udine), a cura di G. BERGAMINI - P. PASTRES - F. TAMBURLINI, Udine, Deputazione di storia patria per il Friuli, 2007, 141.

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