ERMACORA FABIO QUINTILIANO

ERMACORA FABIO QUINTILIANO (1541 - 1610)

notaio, storico, amministratore pubblico

Immagine del soggetto

Pagina del Liber defunctorum ab anno 1595 ad 1620 della parrocchia di Tolmezzo: in chiaro la registrazione della morte di Fabio Quintiliano Ermacora (19 maggio 1610).

Le poche notizie disponibili sul notaio tolmezzino F.Q. E., autore dell’opera tuttora inedita De antiquitatibus Carneae, sono dovute tutte a Vincenzo Joppi, il quale, in una breve prefazione alla versione italiana di Giovanni Battista Lupieri, che la tradusse tra il 1835 e il 1836, come si legge nella sua autobiografia, raccolse tutto ciò che poté trovare negli archivi di Tolmezzo. Discendente da una antica famiglia di notai, probabilmente originaria di Socchieve e stabilitasi a Tolmezzo non oltre i primi decenni del secolo XV, l’umanista, primo storiografo della Carnia, figlio del notaio Quintino e di una sorella di Giannantonio Flumiani, arcidiacono della Carnia, nacque a Tolmezzo poco dopo il 1540. L’E. probabilmente ricevette la prima istruzione nella sua città che allora «stipendiava valenti maestri di grammatica» (Joppi), tra i quali il celebre Raffaele Cillenio. Se non la diretta influenza di tale maestro, certamente l’interesse per il mondo e le lingue classiche che si era creata nell’ambiente poté determinare nell’E. una buona conoscenza del latino, che del resto dovette approfondire durante gli studi di giurisprudenza, probabilmente, come molti altri suoi conterranei, condotti presso l’Università di Padova. Dopo aver intrapreso l’attività di notaio, nel 1567 sposò Aurelia de Pittiani da San Daniele. Visse per lo più sempre a Tolmezzo, dove fu provveditore nel 1574 e nel 1588, giurato nel 1575, e consigliere quasi ogni anno tra il 1574 e il 1598, «anno dopo del quale ogni sua traccia si perde». Morì il 19 maggio 1610. Con lui se ne andava uno dei maggiori protagonisti della vita pubblica e culturale della Tolmezzo del Cinquecento e si estingueva la stirpe degli Ermacora tolmezzini. ... leggi Il consiglio della cittadina nella seduta del 3 giugno, appena quindici giorni dopo la sua sepoltura, decise di far pubblicare la sua opera, come si legge nel Libro delle parti. Purtroppo l’impegno non venne mai rispettato e l’opera dell’E. nella sua stesura originale in latino non è mai stata pubblicata; inoltre, la perdita del manoscritto originale ci impedisce di comprendere se effettivamente l’opera abbisognasse della limatura e revisione dello stile, ritenute necessarie dai consiglieri. Si sa che essa fu sottoposta ad una revisione agli inizi del secolo XVIII. Nel codice della Biblioteca civica di Udine, e precisamente nel f. 2r, si legge: «Fabii Quintiliani Hermagorae | Civis nob. Tulmetti | Historia | De antiquitatibus Carneae | Libri quattuor | pluribus mendis | a Iosepho Cyllenio de Angelis | concive suo expurgata | et typis demandata» (1722). Ma se mai il manoscritto venne veramente consegnato in tipografia, di questa presunta edizione nessuno mai ha saputo nulla. L’opera, composta dopo il 1584, perché nel secondo libro l’E. ricorda la visita apostolica che il vescovo di Parenzo Cesare de Nores fece in quell’anno nel patriarcato, per quanto riguarda la sua struttura è divisa in quattro libri, così periodizzati: il primo, dalle origini al 1024, anno nel quale, secondo l’autore, Corrado II avrebbe concesso al patriarca Poppone il ducato del Friuli e l’Istria; il secondo racconta le origini della Chiesa di Aquileia fino al 1402, anno della rinuncia del patriarca Antonio Caetani; il terzo comprende solo dieci anni di storia, quelli che vanno dal 1402, anno dell’elezione del patriarca Antonio Pancera, al 1412, anno della caduta del patriarcato nel dominio di Sigismondo; il quarto ne comprende solo otto, dal 1412 al 1420, data che segna la fine della sovranità del patriarcato con l’annessione del Friuli a Venezia. Molto di quanto l’E. scrive riguarda piuttosto la storia del patriarcato di Aquileia – per la quale deve aver attinto ai Commentarii Aquilegenses dello storico friulano Giovanni Candido, pubblicati nella versione originale latina ancora nel 1521, e nella traduzione italiana nel 1544 – che non quella della comunità carnica e tolmezzina, riguardo alle quali «le sue informazioni geografiche ed etnografiche risultano ampie. In particolare egli ama soffermarsi su alcune peculiarità del territorio che doveva ben conoscere, se non altro per la carica di giudice da lui rivestita per più anni che lo portò ad amministrare la giustizia nelle diverse ville della Carnia. Par quasi che la descrizione che fa del rio Moscardo e la narrazione della leggenda legata al monte Pramosio servano a rendere più interessante e fascinosa la sua terra, ed al contempo diventino pretesto per un esercizio letterario di intensa e viva forza evocativa; inoltre si sofferma a lungo ad illustrare il fenomeno dell’emigrazione stagionale» (Puppini). La scelta del latino probabilmente fu determinata sia dalla volontà di dar lustro alle origini ed alle vicende più antiche della sua terra, sia per dimostrare la sua solida cultura ed erudizione classica, sia per misurarsi su questo terreno con la produzione dei numerosi Cillenio di Tolmezzo, in particolare con il più famoso di essi, Raffaele, che era stato suo precettore. Per quanto concerne la qualità della lingua l’opera riscosse l’approvazione del Liruti, quindi dello Joppi e, in tempi più recenti, del Tremoli. Degno di nota è il fatto che il grande storico Mommsen conobbe l’opera dell’E. dalla traduzione a stampa del Lupieri e da un codice posseduto da Antonio Bartolini, anche se la ritenne in relazione ai propri interessi poco utile: «Ceterum perpauca habet Hermacoras quibus utamur». Per offrire un saggio del latino lasciatoci dall’autore, si riporta l’inizio e la fine dell’opera. L’incipit è volutamente maestoso e fa trasparire tutto «l’orgoglio del ceppo carnico» (Tremoli) da cui l’autore deriva: «Universam regionem illam, quae inter Liquentiam flumen, Tarvisinum agrum terminans, et Adriaticum sinum, Istriam, Iapidiam, Alpesque Superiores, Italiam a Germania dividentes, continetur, Carnorum provinciam antiqui nominavere eiusque incolae Carni populi dicebantur; cuius Metropolis fuit Aquileia civitas nobilissima, Romanorum colonia, circa quam C. Iulius Caesar, dum proconsul in Gallia bellum gerebat, tres legiones in hibernis collocare consueverat» [Tutto quel tratto di paese, compreso tra il fiume Livenza che separa il territorio trevigiano ed il seno adriatico, l’Istria, la Iapidia e le Alpi superiori che dividono l’Italia dalla Germania, gli antichi nominarono provincia dei Carni, ed i loro abitanti si chiamavano Carni, metropoli della quale fu Aquileia, città nobilissima, colonia dei Romani, nel territorio della quale C. Giulio Cesare, mentre proconsolo guerreggiava nella Gallia, era solito tenere tre Legioni ai quartieri d’inverno]. Il medesimo orgoglio lo porta a commettere anche degli errori, come quando si sforza di dimostrare che alcune antiche vicende riguardanti Cividale si siano svolte invece a Zuglio e di questo travisamento gli fece colpa già il Liruti, affermando di lui che fu ‘amori patriae suae nimis indulgens’. Però sono senza dubbio interessanti le pagine in cui egli rende conto dei privilegi di mercato concessi a Tolmezzo nel 1258 dal patriarca Raimondo della Torre, come interessante è quanto l’E. scrive, riferendosi però al tempo suo, sulle condizioni economiche della Carnia, dando accurate informazioni sui traffici e sulle risorse locali che annoverano sia i prodotti agricoli sia l’allevamento del bestiame, grazie agli abbondanti pascoli esistenti, con la conseguente produzione di carne, di latte e di formaggio. Non vengono dimenticati i prodotti della pesca (con particolare riguardo alle trote, alle anguille, ai lucci e alle tinche del lago di Cavazzo) e quelli della caccia (volatili e soprattutto lepri, tra le quali quelle, particolarmente saporite, di pelo bianco). Dà risalto alla produzione del legname, ottimo per la costruzione di navi e di edifici e non tralascia di far menzione delle miniere argentifere del monte Pramosio presso Timau, di quelle del monte Avanza nel canale di Gorto e delle acque termali solforose del monte San Pietro. Fa notare ancora che cereali e vino devono essere importati dal Friuli e dà il giusto rilievo al fenomeno dell’emigrazione invernale, fonte di guadagni supplementari: «ne esce non esplicito il ritratto di una popolazione alacre e sempre attiva, seppure dura e di spirito indipendente» (Tremoli). Di questo spirito di indipendenza si trova traccia ancora nell’“excipit” dell’opera, quando l’E., senza alcun timore reverenziale nei confronti dell’autorità veneta, pone in risalto e senza aggiungere alcun commento, che i Tolmezzini si arresero solo dopo che ebbero perso tutte le loro speranze, salvi però tutti i loro precedenti privilegi: «Capto modo Utino, Estensis, recepto prius Colloreto et adiacentibus castris, omnes copias ad superiora oppida conduxit. Et cum Glemona et Ventionum omni auxilio spoliati se in Venetorum potestatem dedissent, Tulmetini quoque postquam omnia fidei et gratitudinis argumenta foedata esse viderentur, in Venetorum patrocinium voluntarie se submisere, servatis tamen privilegiis sibi antea ab Antistitibus concessis» [Conquistata ora Udine, l’Estense, conquistato prima Colloredo e gli accampamenti adiacenti, condusse tutte le sue forze verso le cittadelle di montagna. Ed essendosi date Gemona e Venzone, prive di ogni aiuto, in potere dei Veneziani, anche i Tolmezzini, dopo che insozzate sembravano essere tutte le prove di fedeltà e di gratitudine, si sottomisero volontariamente alla protezione dei Veneziani, mantenuti tuttavia quei privilegi che prima dai Patriarchi erano stati concessi]. Per l’E. si chiudeva evidentemente la storia della quale valeva la pena di trattare, come se i tempi successivi, quelli del dominio veneto, non fossero stati così felici.

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Bibliografia

LIRUTI, Notizie delle vite, I, 400-401; N. GRASSI, Notizie storiche della Carnia, Udine, Gallici, 1782; V. JOPPI, Alcune notizie di Fabio Quintiliano Ermacora, in G.B. LUPIERI, Sulle antichità della Carnia libri quattro di Fabio Quintiliano Ermacora volgarizzati dal dott. G.B. Lupieri, Udine, Seitz, 1863, 5-8; P. TREMOLI, Il «De Antiquitatibus Carneae» di Fabio Quintiliano Ermacora. Atti della giornata di studio (Tolmezzo, 8 novembre 1980), Udine, AGF, 1981 (Antichità Altoadriatiche, 20) (elenca 21 manoscritti in latino e 4 in volgare); Autobiografia del dottor G.B. Lupieri (1776-1869), Udine, Biblioteca Civica, 1894 (nozze Magrini-Zannier); PUPPINI, Tolmezzo, 283-297.

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