Nacque a Venezia il 7 settembre 1729 da Francesco, figlio di Giambattista nobile trevigiano e da Caterina Pedrini, veneta, ma di origine bergamasca. Il padre morì prima ancora ch’egli nascesse: si fece quindi carico della sua educazione un intraprendente sacerdote, l’abate modenese Pietro Antonio Toni che lo erudì nelle lettere e gli istillò l’amore per la musica e l’arte, orientandolo verso l’arte dei maestri bolognesi (si addestrò a copiare disegni di Guido Reni), ma conducendolo anche all’Accademia del Nudo e negli studi dei pittori veneziani di maggior fama in modo che, scrive lo stesso Novelli, «stando a vederli operare imparassi il vario modo del compor delle tinte e del maneggiare i pennelli». Divenuto “accademico professore” nel 1754, e membro dell’Accademia di Venezia nel 1768, si diede ad un’intensa attività pittorica, volta soprattutto all’illustrazione libraria, pur se non mancarono opere di maggior impegno, quali la pala d’altare (1760) della chiesa di S. Fosca a Venezia raffigurante il Cuore di Gesù adorato da S. Giuseppe, o La Discesa dello Spirito Santo del duomo di Lendinara. Al 1765 risale la prima delle tre pale d’altare che eseguì per il duomo di Tolmezzo, un dipinto che il pittore così descrive nell’autobiografia: «la Beatissima Vergine con Giesù fanciullo alle sue ginocchia tutto vestito, poi S. Giuseppe, S. Domenico e S. Catterina da Siena e un gruppo di tre puttini con una cesta di rose». È inserito in un altare eretto su progetto di Giovanni Battista Bettini nel 1764-65, a spese di Pietro Antonio Linussio, della nota famiglia di imprenditori carnici ben conosciuti a Venezia. ... leggi Nello stesso anno dipinse una pala d’altare per la chiesa udinese di S. Pietro in borgo Aquileia: dispersa la tela in seguito alle soppressioni napoleoniche, ne rimane il disegno preparatorio in collezione privata. Al periodo appartengono anche disegni per antiporte e per l’apparato illustrativo di alcuni libri degli autori friulani Francesco Florio, Antonio di Montegnacco, Francesco Beretta. Negli anni seguenti il N. lavorò a Venezia e intorno al 1770 si recò a Bologna dove ebbe numerose commissioni di lavoro e dove venne ammesso alla prestigiosa Accademia Clementina: fu qui conquistato dalla maniera dei Carracci e dal colorismo di Guido Reni, come provano successivi lavori per San Martino di Lupari (Padova) e Borca di Cadore. Entrato in amicizia con Daniele Florio, ebbe da questi incarichi per lavori di genere diverso: dapprima eseguì l’antiporta, le testate e i finalini per il volume di poesie e scritti encomiastici che Daniele dedicò a papa Pio VI nel 1777, poi dipinse due tele raffiguranti due episodi della vita di Scipione l’Africano che ottennero il pieno gradimento del committente: «Posso ben dirle, senza sospetto di adulazione – scriveva Daniele al pittore – che queste saranno due illustri monumenti del genio pittoresco del signor N., e la più bella decorazione delle nozze di mio figlio cavaliere, che meco si unisce a significarle il dovuto gradimento». Collocate nel salone del palazzo, le grandi tele (due metri e mezzo per tre e mezzo) nel secolo XIX vennero rimosse dal contesto per il quale erano state concepite e finirono in collezione privata. Per Filippo Florio il N. dipinse anche un san Sebastiano ed un san Gaetano. Gli si può inoltre attribuire l’affresco allegorico raffigurante la Giustizia e la Pace nel cielo dell’alto ma modesto scalone di palazzo Florio a Udine. Tra il novembre del 1779 e il settembre del 1782 fu a Roma, fucina di un ritrovato e rinnovato classicismo che esercitò una certa influenza su di lui. Accolto con simpatia dagli artisti ivi presenti (Antonio Canova, Pompeo Batoni, Nicola Lapiccola tra gli altri), godette il favore dei principi Chigi, Odescalchi e Borghese: affrescò per questi ultimi il soffitto di una stanza di Villa Borghese. Ritornato a Venezia, dipinse una grande tela con l’Ultima Cena per il convento di S. Lazzaro degli Armeni. Con la decorazione a fresco del palazzo del procuratore Pietro Vittor Pisani di Padova, riedificato da Giannantonio Selva, ebbe inizio (1784) una fruttuosa collaborazione tra i due, felicemente riproposta in altri palazzi veneziani. Nel 1789 ricevette l’incarico di decorare la chiesa di S. Ulderico a Sutrio, costruita su progetto di Domenico Schiavi. Onorò l’incarico affrescando figure ed episodi di carattere sacro: la Trinità in una gloria di angeli e gli Evangelisti nella finta cupola e nei pennacchi del presbiterio, l’Orazione di Gesù nell’orto degli ulivi e la Disputa di Gesù con i Dottori nelle pareti del coro, la Trasfigurazione, Il roveto ardente ed Elia sul carro di fuoco nel soffitto della navata. Il figlio Francesco, infine, dipinse a fresco sopra la porta d’ingresso una scena raffigurante S. Ulderico vescovo salva la città di Augusta dal saccheggio degli Ungheri. Dipinti privi forse di spunti originali, ma egualmente dignitosi e corretti. Partendo da Sutrio nel dicembre dello stesso anno, lasciò nel lato sinistro dell’affresco della Disputa, nel coro, la scritta: «Qui il pittore non ha terminato per essersi agghiacciata la malta e verrà a terminare». Ma a Sutrio il N. non tornò più. Ebbe comunque modo di lavorare ancora per il Friuli: eseguì (a Venezia) due altre pale per il duomo di Tolmezzo. La prima risale al 1790 e raffigura Maria Vergine col Bambino, S. Emidio vescovo con l’Angelo Custode e S. Luigi Gonzaga: è opera di buona qualità artistica per la gradevole disposizione delle figure, per i colori (si vedano gli splendidi impasti bianco su bianco della veste del santo) e per i particolari (il libro, la corona, i gigli appoggiati sugli scalini). Considerata la presenza di sant’Emidio, il santo che protegge dai terremoti, si tratta di un dipinto ex-voto, «regalato» a se stesso ed alla comunità tolmezzina da Giovanni Marchi, che commise l’opera e «che pure a sue spese eresse il magnifico altare», dopo il violento terremoto che aveva colpito Tolmezzo nel 1788. La seconda pala d’altare, firmata PETRUS ANTONIUS NOVELLI| VENETUS PINXIT ANNO 1791, raffigura la Decollazione di S. Ilario, santo patrono della Carnia. Il primo settembre 1790 si trasferì a Udine con la famiglia per dare avvio alla decorazione della cappella delle Reliquie del duomo e del soffitto della sagrestia. Nel 1792, dal 27 agosto al 2 dicembre, affrescò a monocromo le pareti della sagrestia illustrando, entro scenografici riquadri dipinti da Giuseppe Morelli, la storia del patriarcato di Aquileia in otto riquadri, dall’episodio di S. Pietro che crea vescovo di Aquileia S. Ermacora fino a quello relativo alla Soppressione del Patriarcato da parte di papa Benedetto XIV e creazione dei due arcivescovadi di Udine e Gorizia: in essi va apprezzata più la vena narrativa, fresca ed accattivante, che la qualità pittorica, peraltro valorizzata dal corretto inserimento dei personaggi entro spazi architettonici prospetticamente definiti. L’attività friulana portò il pittore a stringere amicizia con numerosi artisti dell’epoca, soprattutto il nobile, studioso e pittore Giovanni Battista de Rubeis, al quale fece dono di una serie di incisioni del figlio Francesco (1767-1836) tratte dai cinquanta disegni che all’epoca si credevano del Mantegna (e che si sarebbero invece rivelati di Marco Zoppo) oggi conservati al British Museum di Londra. Eseguì opere di cavalletto per alcuni nobili e canonici locali (una bella Immacolata del 1794 orna l’altare della cappella domestica del palazzo degli Asquini), ed affreschi, ora scomparsi, per chiese e palazzi udinesi. L’ultima opera realizzata per la terra friulana è la pala d’altare raffigurante S. Clemente adora la Trinità che nel 1795 dipinse per la parrocchiale di Povoletto. «Accademico professore dell’insigne Accademia veneta di pittura, scoltura ed architettura, aggregato all’Accademia Clementina di pittura nell’Istituto della scienza in Bologna e alla regia Accademia di belle arti di Firenze», pittore, incisore, poeta arcade, critico d’arte, illustratore di libri, il N. morì a Venezia il 13 gennaio 1814. Scrive Rodolfo Pallucchini che il pittore «fu uno degli artisti più interessanti e vivaci della Venezia della seconda metà del secolo: certo il suo curriculum non è privo di contraddizioni anche sostanziali. Ma il suo fu il destino di chi opera nel momento di passaggio tra due civiltà: quella di Venezia tardobarocca e l’altra dell’avvento di una cultura internazionale come fu quella neoclassica». Il figlio Francesco proseguì il suo lavoro, dedicandosi peraltro soprattutto all’incisione, tra l’altro copiando, quand’era appena ventiduenne, alcune incisioni di Rembrandt con tanta maestria che (lo scrive il padre) «fuvvi chi ne voleva senza il suo nome, con intenzione di venderle per originali».
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