PARTENIO BERNARDINO

PARTENIO BERNARDINO (1500 - 1588)

notaio, medico, rettore di scuola, umanista

Immagine del soggetto

Frontespizio del trattato "De poetica imitatione" di Bernardino Partenio, Venezia 1565.

Nacque a Spilimbergo in una data incerta: secondo alcune fonti antiche sarebbe nato negli ultimi anni del secolo XV, ma più probabilmente all’inizio del XVI; non è invece accettabile una datazione intorno al 1520, come indicato in un recente dizionario dei letterati italiani, dato che già nel 1538 era a capo dell’“Accademia di Spilimbergo”. Del resto sarebbe morto nel 1588, «quasi novantenne», come si ricava da un passo dell’opera dell’udinese Fabio Paolini, allievo del P. e suo successore sulla cattedra veneziana di greco. Per quanto riguarda il casato, è probabile che il nome “Partenio” sia solo una scelta di tipo classicistico, mentre il suo cognome sembra essere stato Franceschini; a dimostrazione che questo fosse il vero nome di famiglia abbiamo una serie di lettere scrittegli dal giurista e storico udinese Antonio Belloni che, tra l’altro, si dice amico del padre, il notaio Leonardo (Lunardo) Franceschini, ancora in attività il 15 aprile 1545. Anche B. era notaio come risulta da un atto rogato a Spilimbergo nel 1534. Il letterato spilimberghese non va confuso con un altro Bernardino Partenio, attivo come insegnante a Venezia nella seconda metà del Cinquecento e forse suo parente. A buon conto il P., che si definisce «Foroiuliensis» solo nella pagina di apertura della sua orazione Pro lingua latina, del 1545, sui frontespizi di tutte le sue altre opere si presenta come «Spilimbergii», o come «Spilimbergio authore». È probabile che, dopo gli studi locali, B. abbia proseguito la sua formazione a Venezia sotto la guida dell’Egnazio, che dalla fine del Quattrocento aveva aperto una scuola privata e a partire dal 1520 fu per trent’anni pubblico professore di umanità e maestro di numerose generazioni di nobili e borghesi veneziani: la supposizione si fonda sulla particolare amicizia che avrebbe legato il P. al maestro veneziano. ... leggi Il fatto che agli anni Venti si dati la composizione di un dialogo del P. di argomento medico, fa pensare a studi in questa disciplina (anche se non risulta abbia conseguito una laurea) e lascia presumere una sua residenza nella città di Bologna. Quest’operetta compare prima in un volume di Berengario da Carpi e poi in un altro di Giorgio Valla; in particolare l’inserimento del Plutonis et Harpagi dissecti dialogus auctore Parthenio Foroiuliensi Carpi amicissimo nelle Isagogae breves di Berengario, opera pubblicata a Bologna da Benedetto di Ettore nel 1523 suggerisce l’ipotesi di studi medici bolognesi. Come Dialogus Parthenii de sectione humani corporis lo troviamo invece nel volume di Giorgio Valla, De corporis commodis et incommodis, stam pato a Strasburgo intorno al 1530. Di un interesse per la medicina abbiamo però ancora traccia nella sua lettera all’autore, all’inizio dell’opera di Prospero Borgarucci, Della contemplatione anatomica, uscita a Venezia nel 1564. Sappiamo dai Libri dei camerari del duomo di Spilimbergo che B., negli anni 1525-34 e poi dal 1538 al 1542, fu tra i maestri locali impegnati anche ad insegnare gratuitamente a dodici ragazzi poveri del paese. Per altro una luce inaspettata sui comportamenti del giovane insegnante negli anni Trenta ci viene da alcune carte spilimberghesi dalle quali risulta essere stato processato per ingiurie ad una gentildonna e addirittura per stupro. Ma il P. diventò un protagonista della vita culturale del Friuli nel momento in cui si trovò a capo di quella Accademia che da lui si sarebbe chiamata “Parteniana”, la cui nascita avvenne a Spilimbergo nel 1538. Le notizie più ampie e sicure a proposito di questa scuola trilingue (uno dei pochi esempi in Italia) si ricavano dagli Instituta Academiae Spilimbergensis sive Parthenianae in qua tres linguae exactissime traduntur, stampati nel 1540 a Venezia che si aprono con la lettera di un certo scolaro udinese, Alvise Baldana, all’«ornatissimo» Francesco Filetto, famoso giureconsulto veneziano poi sacerdote, che il Baldana ci dice essere «coniunctissimus» al mantovano Francesco Stancaro. Se per la stesura delle norme accademiche in un elegante latino è logico pensare allo stesso P., per quanto riguarda gli aspetti più originali delle regole di questa scuola spilimberghese, cioè la sua ispirazione e organizzazione religiosa, si deve chiamare direttamente in causa il vero promotore dell’iniziativa e cioè il conte Adriano di Spilimbergo, che volle appunto una scuola dove si insegnassero latino, greco ed ebraico. Del resto non si conoscono interessi religiosi del P. Alla base della scelta di pubblicare gli Instituta è opportuno ipotizzare principalmente il desiderio di far conoscere e diffondere un modello educativo e di “pedagogia religiosa” decisamente innovativo per l’ambiente italiano, cioè si deve considerarla prima di tutto un’operazione propagandistica e proselitistica di tendenza protestante. Gli Istituta ci consentono di conoscere l’ordinamento, i metodi e le materie insegnate nell’Accademia; nell’opuscolo si parla anche di numerosi allievi, non esclusi gli stranieri, anche se non si può pensare che fossero tanti, vista anche l’entità della retta, 36 scudi (somma superiore allo stipendio annuale di un maestro di scuola parrocchiale). A buon conto, nell’Accademia di Vicenza, diretta dal P. nella seconda metà degli anni Cinquanta, le cifre erano ancora più consistenti (40 scudi). La fine dell’Accademia Parteniana, dopo pochi anni di vita, si spiega con la morte di Adriano di Spilimbergo, che si spense il 12 settembre 1541. Se il P. non condivideva quella impostazione, almeno era stato disponibile a tollerarla, anche alla luce di certe altre scelte, come quella di nominare insegnante di ebraico il mantovano Francesco Stancaro, già gravemente compromesso con l’eterodossia e processato a Venezia. A questo punto bisogna chiedersi quale legame ci sia stato tra il P. e l’importante biblioteca di Adriano di Spilimbergo: da un lato si può pensare che il letterato abbia contribuito alla selezione del materiale librario classico presente nella collezione, perché quei volumi rientravano pienamente nei suoi interessi e nelle sue competenze; e per giunta erano funzionali ad uno dei principali momenti didattici dell’Accademia, dall’altro lato, certamente il P. poteva avere a disposizione anche il resto dei libri posseduti da Adriano, cioè quelli di argomento biblico e di teologia riformata: che abbia utilizzato questo fondo è però impossibile sapere. Per ora, riguardo alla biblioteca personale del P., non si sa quasi nulla; solo ci è noto un volume con una sua nota di possesso, che è oggi conservato nella biblioteca del liceo Stellini di Udine: si tratta di una bella edizione degli Opera di Luciano, stampata a Francoforte nel 1538. La data di uscita del volume rientra nel periodo di vita dell’Accademia e il testo era tra quelli utilizzabili per l’insegnamento ai collegiali. Da un passo di Francesco Lovisini (Luigini, Luisini) sappiamo che il P. possedeva anche un pregevole codice della Poetica di Orazio, per altro autore da lui a lungo studiato. Nell’ottobre 1545 uscì a Venezia, presso la tipografia dei figli di Aldo, la prima opera del P., la Pro lingua latina oratio, impostata come una difesa del latino fatta davanti ai lettori, indicati proprio come “iudices”, quasi fosse in procinto di estinguersi. In questo caso però l’autore, a differenza degli altri latinisti friulani suoi contemporanei – il già ricordato Belloni, oppure Romolo Amaseo e Girolamo Rorario – che esprimevano un vero disprezzo per la lingua volgare, dichiara di accettare l’uso dell’italiano nelle cose d’amore, nelle novelle in prosa e in versi, nelle commedie, nelle cronache ecc., ma lo esclude per i temi più elevati. E se si possono accogliere i volgarizzamenti degli storici latini (Sallustio, Cesare, Livio), non è pensabile un simile utilizzo per autori come Cicerone o Virgilio. L’orazione, datata da Serravalle (oggi Vittorio Veneto) nell’ottobre 1545, è dedicata al patriarca Marino Grimani, per merito del quale i figli, che prima lo scrittore riusciva a mala pena a sostenere, ora potevano vivere più sicuri, mentre lui stesso attendeva più tranquillamente agli studi: il Grimani gli aveva garantito un canonicato veronese e forse altre prebende. Questo testo è interessante anche per le informazioni che il P. ci dà sul famoso e misterioso Teatro del conterraneo Giulio Camillo Delminio; del resto nel 1544 ne era stampato il trattato Della imitatione che certamente influenzò il P. Nel 1549 il P. era supplente per qualche mese sulla cattedra veneziana dell’Egnazio, il quale aveva deciso di lasciare l’insegnamento; si trovò poi in competizione con altri prestigiosi intellettuali friulani, Francesco Robortello e Francesco Lovisini per succedere al vecchio maestro. Però, avendo compreso che gli sarebbe stato preferito il Robortello, allora professore a Pisa, dichiarando di rinunciare per l’esiguità dello stipendio previsto, che a suo dire non sarebbe stato sufficiente al mantenimento della madre, della moglie e di alcuni figli, preferì accettare la proposta della città di Ancona per un insegnamento presso le scuole pubbliche di quella città. Probabilmente vi andò, ma certo non vi rimase per un quinquennio, perché risulta che già nel 1554 insegnava a Vicenza. Qui nel 1556 prendeva vita un’Accademia diretta dal P., che non va confusa, come talora si è fatto, con l’Accademia Olimpica, nata nel 1555 per l’impegno di Valerio Chiericati e Girolamo da Schio; dunque negli anni 1556-60 egli fu rettore di questa seconda scuola/convitto che aveva sede nella palladiana villa di Cricoli, poco fuori Vicenza, già appartenuta a Gian Giorgio Trissino († 1550), che, a partire dal 1537, vi aveva accolto adunanze di dotti amici. Sull’Accademia di Cricoli, senz’altro diversa da quella di Spilimbergo, ci informa un’altra rarissima plaquette cinquecentesca, gli Instituti dell’Academia di M. Bernardino Parthenio, apparsi senza note tipografiche in un opuscolo di otto carte, che dovrebbe essere una impressione veneziana di Giovan Andrea Valvassori detto Guadagnino. In questo caso le norme furono fissate tutte dal P., a differenza di quelle di Spilimbergo: il testo si apre con una lettera di dedica datata da Vicenza il 18 luglio 1557. In sintesi: la quasi totalità dell’insegnamento puntava alla conoscenza e allo studio della lingua e della cultura latina e greca; a parte un proprio spazio lasciato alla musica, invece la lingua e la letteratura italiana, la matematica, la geografia erano ristrette tra il sabato pomeriggio e la domenica pomeriggio. Tutto il tempo dei collegiali era rigorosamente regolamentato ed occupato, quasi che si volessero imitare “le ore” dei monaci. Preme tuttavia segnalare che dell’impegno religioso tipico dell’Accademia di Spilimbergo non rimase nulla, se non, forse, una labile traccia in un certo rigore di costumi e di gusti. In questi anni si deve registrare anche la partecipazione del P. ad alcune delle tante “raccolte” poetiche che, soprattutto a partire dalla metà del secolo, si susseguirono in varie città d’Italia e per le più diverse circostanze. Forse anche per il ricordo degli insegnamenti e degli apprezzamenti del Delminio per la lingua italiana, il P. pubblicò in volgare la prima stesura della sua opera più impegnativa, cioè il trattato Della imitatione poetica, uscito a Venezia nel 1560; la lunga lettera dedicatoria al milanese monsignor Melchiorre Biglia è datata da Venezia il primo aprile 1560. Si tratta di un dialogo in cinque libri, che si svolge in un giardino fiorito ed ombroso sull’isola di Murano, tra Gian Giorgio Trissino, Trifon Gabriele, l’udinese Francesco Lovisini, Girolamo Ferro, Girolamo Quirini e Paolo Manuzio; è un trattato di poetica d’impianto ciceroniano, ma anche un vero compendio di stilistica, dove vengono esaminate le principali figure retoriche. Esso fu rifuso e pubblicato cinque anni dopo in latino (nel colophon compare però la data 1566), in forma più ampia nello sviluppo del discorso e anche nella serie di esempi latini e volgari presentati; non sappiamo se la riproposta fosse dovuta solo al particolare apprezzamento del pubblico o anche determinata dalle critiche per la sua anomala stesura in volgare, visto che lo stesso autore aveva smentito la sua precedente posizione, in base alla quale gli argomenti alti dovevano essere affrontati solo in latino. La versione latina, come risulta dal frontespizio, presenta una dedica all’imperatore Massimiliano II, mentre esiste anche una emissione del De poetica imitatione con un frontespizio calcografico e una solenne dedica all’imperatore. Con la fondamentale riforma dell’insegnamento pubblico attuata a Venezia nel 1560, il P. ebbe l’incarico di due corsi: insegnava greco alla Marciana e latino presso il Collegio dei notai; da allora questo sarebbe stato il suo impegno professionale fino alla morte, avvenuta sempre a Venezia nell’ottobre del 1588. Il costante rapporto del P. con il Friuli viene in ogni caso assicurato dalla sua partecipazione alla raccolta di poesie intitolate alla fontana Helice, che Cornelio Frangipane da Castello aveva fatto erigere nel suo palazzo di Tarcento in ricordo della defunta signora Orsa Hofer, moglie dell’avvocato udinese Giulio Manin, per la quale aveva nutrito a lungo un amore platonico. Il volumetto, uscito a Venezia nel 1566, contiene testi di una sessantina di rimatori, a parte lo stesso Cornelio; tra gli altri si segnalano: Erasmo di Valvasone, Francesco Robortello, Vincenzo Giusti e Giovanni di Strassoldo; il P. è presente con un componimento in italiano e uno in latino. Neanche lui poté sottrarsi però alla universale esultanza per la vittoria di Lepanto e allora nel 1572 fece uscire presso Nicolò Bevilacqua il suo De victoria adversus Turcas parta, dedicando all’imperatore Massimiliano un’ode encomiastica di trentasei strofe, a cui segue un componimento in distici intitolato Echo christianae victoriae nuncia, dove si delineano le fasi della battaglia e si ringrazia della protezione celeste. Anche la visita di Enrico III re di Francia a Venezia nel 1574 suscitò molto interesse e un certo numero di interventi poetici o di cronaca; e il P. partecipò alla comune emozione con un breve carme latino in lode del re francese: In divi Henrici tertii Galliae ac Poloniae regis christianissimi ac felicissimi ad urbem venetam adventum. In questo caso gli editori furono i fratelli Domenico e Giovan Battista Guerra, originari di Valvasone. I citati fratelli Guerra nel 1579 pubblicarono i carmina del P., una raccolta di trentasei componimenti in vario metro, di evidente imitazione oraziana, quasi tutti di esaltazione di personaggi illustri, a cominciare dal patriarca Giovanni Grimani, a cui è dedicato il primo libro, mentre ben otto carmi sono indirizzati all’imperatore Massimiliano II e altri al re di Francia Enrico II; non mancano letterati come Marco Antonio Flaminio. Nella rara raccolta intitolata Viridarium poetarum tum Latino, tum Greco, tum vulgari eloquio scribentium. In laudes […] Stephani regis Poloniae […], pubblicata nel 1583 a Venezia, del P. si leggono un lungo poemetto in esametri e tre epigrammi. Non si conosce invece la data di pubblicazione, il nome dello stampatore e il luogo di edizione di due odi in esametri apparse sotto il titolo: Bernardini Parthenii Spilimbergii Maximiliano Augusto d. Ferdinandi filio Carmina, un rarissimo opuscolo di quattro carte segnalato solo dal Liruti, ma di cui esiste copia alla Marciana di Venezia. In questi anni, anche se gli editori delle sue opere furono altri, il letterato dovette aver tenuto stretti rapporti con la dinastia dei Manuzio, come testimoniano lettere e documenti di vario genere; del resto Paolo, lo abbiamo visto, è uno degli interlocutori principali nel trattato sull’imitazione. L’interesse del P. per la poesia oraziana trova la sua più corposa espressione in un ampio commentario a tutta la produzione lirica del poeta di Venosa; sotto il suo nome compaiono In Q. Horatii Flacci carmina atque epodos commentarii quibus poetae artificium, et via ad imitationem atque ad poetice scribendum aperitur, impressi per i tipi di Domenico Nicolini nel 1584; l’opera è dedicata al re di Polonia, Stefano Bathory. Coerentemente al programma esposto già sul frontespizio, anche qui troviamo teorizzata e applicata la sua teoria dell’imitazione, fedelmente seguita per tutta la vita. Nel 1584 egli aveva curato anche un’edizione delle altre opere liriche di Orazio: Q. Horatii Flacci Sermonum libri quattuor, seu satyrarum libri duo. Epistolarum libri duo. Cum argumentis ad lectoris maiorem facilitatem; in questo caso però il nome del curatore P. manca del tutto sul frontespizio e figura solo nella prefazione: forse per questo non tutti gli studiosi inseriscono l’opera nella sua bibliografia. Il diverso trattamento dei vari testi è giustificato dal nipote Aristarco Partenio, nella postfazione al primo volume oraziano. Nel 1585 comparivano a Venezia i due volumi oraziani del P. con un nuovo frontespizio e l’aggiunta dell’ancora di Aldo Manuzio il Giovane: dato che tutto il testo, a parte il frontespizio e le prime sei pagine ristampate, è quello impresso da Nicolini, il Renouard ritenne si trattasse di una partecipazione editoriale, della quale il Manuzio metteva in vendita le sue copie un anno dopo il socio. Nel 1586 il P. pubblicò, ancora presso i fratelli Guerra, il Vellus aureum, una bella plaquette in folio, di sole sei carte, il cui frontespizio si apre con la dedica Ad Franciscum Mariam Urbini ducem serenissimum. Altri componimenti poetici parteniani, quasi tutti latini, qualcuno inedito, ed alcune lettere, sono segnalati nei volumi dell’Iter italicum del Kristeller, compresi in raccolte di versi oggi presenti in varie biblioteche italiane. B. P. si spegneva all’età di circa novanta anni, nel 1588; e vari amici e conoscenti ne celebrarono con versi la vita e i meriti; tra gli altri, come ricorda il Liruti, l’udinese Valentino Odorici compose una lunga elegia, In mortem Bernardini Parthenii viri eruditi, che compare alla fine dei suoi commentari sul De partu Virginis di Sannazaro, pubblicati a Venezia da Francesco De Franceschi nel 1593.

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Bibliografia

Ms BCU, Principale, 565, Lettere di Antonio Belloni.
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